L’Anpi ha proposto di votare No al referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari evitando una campagna urlata, ridotta soltanto a quattro slogan, ma proponendo che la scelta da operare davanti all’urna derivi da una riflessione seria e pacata sullo stato del parlamento italiano e sulle ragioni di un depotenziamento progressivo che va avanti da un trentennio. Non servono in questo caso (in realtà non servono mai) livori barricadieri né atteggiamenti di faziosa aggressività che in tanti abbiamo notato, con un certo stupore, in diversi messaggi o post di chi sostiene, pur con legittime ragioni, l’opportunità di votare Sì. È stato facile capire – è bastato andare sui loro profili – che gli autori di grandissima parte di tali messaggi dal contenuto offensivo manifestavano un’appartenenza o una simpatia partitica esplicita e determinata. Cari amici, sappiate – per parafrasare le parole di Amleto ad Orazio – che ci sono più cose fra il cielo e la terra che in tutti i vostri post. Detto in altre parole, prendetela bassa. Fra qualche giorno – con tutta probabilità – ci ritroveremo concordi su tanti altri temi, seppure in questa circostanza abbiamo manifestato una lecita differenza di opinioni.

Intanto mi auguro – ed auguro a tutte e tutti – che il No ottenga il miglior risultato possibile, perché così si potrà interrompere (o limitare) la resistibile ascesa dei ricorrenti attacchi al parlamento a causa dei quali da tempo la principale istituzione che dovrebbe rappresentare la sovranità popolare è preda di una decadenza e di uno svuotamento di funzioni che sminuisce i suoi poteri costituzionali fondamentali: la rappresentanza degli elettori, l’approvazione delle leggi, il controllo sull’esecutivo, cioè sul governo. Bene sarebbe che il parlamento torni ad essere lo specchio del Paese e che si sconfigga la pericolosa tendenza alla denigrazione dell’istituzione rappresentativa, una denigrazione che è prerogativa storica delle destre più reazionarie da prima del fascismo.

Non c’è testo senza contesto, e se il testo oggi è il referendum, il contesto è quanto meno inquietante. Siamo davanti a uno scenario mai avvenuto in precedenza (con una certa forzatura, l’unica situazione lontanamente avvicinabile è l’Europa degli anni 30): qual è la natura della maggioranza delle destre dominanti oggi nel mondo? Esse hanno abbandonato la tradizionale prospettiva liberalconservatrice. Bush, Bolsonaro, Johnson, Orban, Andrzej Duda in Polonia, ciascuno seguendo una propria “via nazionale”, hanno sdoganato ideologie e politiche parzialmente o totalmente illiberali, e stanno percorrendo la strada di un nuovo nazionalismo chiamato sovranismo, presente in tutta Europa, in Asia, nelle Americhe, in Africa e che ha in Italia nomi e cognomi fin troppo noti. Nel vuoto di senso in cui sembrano precipitate tante democrazie si alimenta una nuova destra che ha radicalizzato i conservatori, in una sorta di rivoluzione conservatrice, termine che girò in Germania e in Austria dal 1918 al 1927 in opposizione alla repubblica di Weimar, e che molti ritengono il prodromo del nazismo. Eccole, le attuali destre radicali: un caleidoscopio dai tanti colori del nero.

Si tratta perciò di una novità assoluta con cui tutti dobbiamo fare i conti, e che comporta rischi non irrilevanti per le forme di democrazia rappresentativa che abbiamo conosciuto dall’ultimo dopoguerra.

A questo teatro globale corrisponde uno scenario nazionale caratterizzato oramai da tempo da una lenta ma costante crescita di violenze. La drammatica vicenda dell’assassinio del giovane Willy è certo un simbolo, ma è solo una tessera di un mosaico che si estende quotidianamente alimentato da cento e cento episodi di provocazioni, aggressioni, omicidi di donne e uomini, quasi sempre – si direbbe in gergo giuridico – “per futili motivi”. Sembra che si sia archiviata quanto meno parzialmente la ragione della solidarietà come codice regolatore dei rapporti sociali e civili e si sia invece sdoganata la forza della violenza come regolatrice di una nuova gerarchia sociale, dove vince il più forte, o perché più ricco, o perché più muscoloso, o perché armato, o semplicemente perché più aggressivo. Insomma, la banalità della violenza.

Ad antropologi e psicologi il compito di analizzare la natura di tali comportamenti.  Ma rimane netta l’impressione che tutto ciò sia il frutto di una caduta verticale di quell’insieme di tabù, di memorie condivise, di regole scritte e non scritte, di sentimenti collettivi che bene o male hanno distinto gli italiani in quanto popolo dalla rinascita ad oggi, un insieme che si è ritrovato in una sorta di novella tavola dei comandamenti che abbiamo chiamato Costituzione. E sembra altrettanto che ci sia un’affinità e spesso una sovrapposizione fra questo degrado civile e la continua espansione nel senso comune di “stili” e comportamenti di tipo fascista e razzista che alimentano tale degrado, ne sono per tanti motivi causa e parte integrante.

Francamente stupisce chi, come causa di tutto ciò, indica il prevalere del nichilismo negando l’imprinting fascista o razzista. Nietzsche scriveva:Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalutano. Manca lo scopo. Manca la risposta al: perché?”. Certo che il nostro è il tempo del nichilismo, è il tempo in cui i valori supremi si svalutano e in cui mancano le risposte. E non è esattamente in questo vuoto che cresce il veleno dei fascismi/razzismi/nazismi che a valori e a risposte sostituiscono miti e pregiudizi? C’è un mondo negativo e oscuro dietro la trimurti Dio-Patria-Famiglia, un rassicurante quanto finto affidarsi alla tradizione non come trampolino per il futuro ma come nostalgia del passato e come ripudio di qualsiasi storia di emancipazione. C’è un attacco delle nuove destre all’eredità dell’umanesimo, dell’illuminismo e ovviamente del socialismo – attenzione – non parlo immediatamente di politica, ma di un’idea di vocazione universale all’eguaglianza. Nichilismo e fascismo sono le facce di una stessa medaglia. Di questa, non è stata forse Salò l’orgia e il cupio dissolvi? E non è vero che il primo dei nostri compiti è di conseguenza proporre lo scopo e rispondere al perché? E ancora, perché, al tempo nostro della delusione e della rabbia non proponiamo come manuale della ricerca del senso della vita la Costituzione? (Il che vuol dire – per essere chiari – metterla in pratica).

La pandemia ha aggiunto male al male, nemico al nemico, dolore al dolore, condizionando la politica, l’economia, la società e la vita quotidiana del mondo intero. Questo è il quadro.

La guerra, le grandi crisi economiche, le calamità naturali sono da sempre le levatrici dei peggiori movimenti di estrema destra: i fascismi novecenteschi nacquero tutti sulle ceneri dell’“inutile strage” della Prima guerra mondiale e dei suoi devastanti effetti economici e sociali nel dopoguerra. A quel tempo la fotografia e il cinema resero pubblici, visibili, gli orrori del conflitto. Oggi il web moltiplica in progressione geometrica l’incidenza della comunicazione senza alcuna regolazione etica ed estetica.

C’è tuttavia un mondo che si ribella al Grande Nulla: i movimenti antifascisti, antirazzisti, ambientalisti che hanno assunto oramai una dimensione globale e che comprendono una fortissima presenza di ragazze e ragazzi; l’associazionismo e il volontariato che, in particolare in Italia, svolgono da tempo una funzione di integrazione e spesso di supplenza a doveri costituzionali spesso disattesi; la riscoperta collettiva durante la pandemia del ruolo insostituibile dello Stato che fa in qualche modo giustizia del colpevole abbandono al loro destino della scuola pubblica, della sanità pubblica, del welfare e dei servizi pubblici alle persone, un abbandono progressivo in trent’anni di beotitudine sui postulati del liberismo selvaggio che ha messo sempre e ovunque il mercato davanti allo Stato, alla società e in ultima analisi alle persone. Quelli che non ci stanno sono nel nostro Paese tanti, giovani e anziani, donne e uomini, meridionali e settentrionali. Ecco, la fondamentale possibilità che, arricchita di senso, diviene una speranza di luce nel mare nero che ci circonda. Questa possibilità/speranza – occorre dirlo senza alcuna spocchia – è incarnata anche, e spesso specialmente, dalle tante generazioni dell’Anpi, dalle sue ragazze e ragazzi, dalle generazioni di mezzo, dai suoi partigiani, ancora qualche migliaia, protagonisti di una Liberazione che sembra ieri e ci squaderna un universo di valori in grado di travolgere i replicanti dei gerarchi e gli epigoni degli squadristi. In questo terribile scorcio del 2020 hanno dato prova, passando dalle sezioni e dai comitati provinciali al territorio reale o virtuale, di una dote del tutto assente nel mondo della competition is competition: la generosità.

Se così stanno le cose, votare No al referendum è anche un forte segno di contrasto alla deriva della democrazia rappresentativa e delle istituzioni repubblicane, che da tempo sono sotto tiro in un disegno neanche tanto nascosto in cui ciò che conta è il potere e non il controllo, la decisione e non la partecipazione, e dove, dietro la metafora dell’Uomo forte, si nasconde la ricorrente seduzione di una trasformazione dell’Italia da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale. Questo mi pare il senso del referendum oramai alle porte e di quello che sta succedendo in tante parti del mondo. Scusate se è poco.