Gaza dopo la risposta israeliana all’attacco di Hamas

Lo shock e il dolore per la barbarie di Hamas in Israele e per la reazione israeliana nei confronti della popolazione di Gaza sono ancora i sentimenti che ci lasciano attoniti, spaesati, confusi, togliendo fiato alle analisi e alle riflessioni politiche. Questa volta il dramma è troppo grande e profondo.

Due immagini dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, i missili su Israele e la strage di giovani che partecipavano a un rave party

A distanza di una settimana da quel terribile sabato 7 ottobre sappiamo come si è svolta l’azione militare di Hamas e su quali obiettivi: seminare terrore, ammazzare senza pietà e senza una apparente logica militare o politica se non quella di una cieca sete di vendetta e di odio, se non quella di ammazzare e farsi ammazzare, consapevoli che un attimo dopo, l’esercito israeliano avrebbe reagito con l’assedio della striscia di Gaza, bombardando a tappeto, provocando morti e distruzioni, ancor più violenti e devastanti delle precedenti operazioni militari.

Già ora, i morti sono migliaia da entrambe le parti, con focolai di guerriglia in Cisgiordania e a Gerusalemme, sulla frontiera con il Libano e con due milioni di palestinesi senza acqua, cibo, elettricità, vie di fuga in balia di un assedio che, da un momento all’altro, può vedere l’entrata delle forze armate israeliane a Gaza, via terra, per liberare gli ostaggi in mano ad Hamas. Di nuovo, una trappola mortale per tutti.

Ckeckpoint a Ramallah

Che fare, che pensare di fronte a questa ennesima tragedia che viviamo in diretta, distanti ma non troppo, legati alla causa palestinese e a quei posti, a quella gente di Gaza, di Gerusalemme, di Ramallah, di Tel Aviv? Quante missioni fatte, quanti incontri e riunioni, quanti check point attraversati e quanti tentativi di costruire iniziative di dialogo tra le parti, quanti progetti di solidarietà e di cooperazione per assistere villaggi e comunità palestinesi, con un unico obiettivo, costruire la convivenza tra i due popoli, il rispetto reciproco, il riconoscimento dei diritti degli uni e degli altri, senza discriminazioni o differenze. Senza mai perdere la speranza che, nonostante il deteriorarsi delle due società, la paralisi del processo di pace, l’espandersi degli insediamenti ebraici nel territorio palestinese e l’occupazione, il riconoscimento dello Stato di Palestina al fianco dello Stato d’Israele, prima o poi sarebbe diventato una realtà.

Anno 1948, rifugiati palestinesi

Sì, perché questo è il nodo da sciogliere per porre fine a un conflitto che distrugge le due comunità, tiene sotto scacco l’intera regione medio-orientale e condiziona la stabilità e le relazioni tra Stati a livello globale.

Senza il riconoscimento dello Stato di Palestina, esiste un solo Stato, quello israeliano, senza confini, e un popolo, quello palestinese senza una patria, sospeso nel limbo da settantacinque anni. Chiaro che in queste condizioni siamo tutti quanti seduti su una polveriera che periodicamente esplode.

Una famiglia palestinese di un popolo ancora senza patria

Esisterebbe anche la soluzione di dar vita a un unico Stato, tutti dentro, con gli stessi diritti, ma questa soluzione non è percorribile per la dirigenza politica israeliana, significherebbe perdere l’impronta ebraica dello Stato. Ma neppure l’ipotesi di uno Stato d’Israele, dal Giordano al Mediterraneo è possibile, perché comporterebbe il trasferimento forzato di milioni di palestinesi negando il loro sacrosanto diritto di autodeterminazione e di vivere nella loro terra. Potrebbero esistere altre formule di mediazione, come uno Stato binazionale, o una confederazione di stati, ma sono tutte formule teoriche che non hanno nessuna base di reale interesse da entrambe le parti.

13 settembre 1993, Yitzhak Rabin, Bill Clinton e Yasser Arafat durante la firma degli Accordi di Oslo

L’unica soluzione che ha basi concrete nelle risoluzioni delle Nazioni Unite e in un accordo sottoscritto dalle due parti (Organizzazione per la Liberazione della Palestina e Governo d’Israele) è quella dei “due Stati per i due Popoli”, presente negli Accordi di Oslo (1993) come punto di arrivo da raggiungere entro cinque anni dalla sua entrata in vigore. Questa ipotesi fu già presentata dalle Nazioni Unite nel 1947, con il “piano di partizione”, allora rifiutato dai leaders palestinesi. Ci sono voluti 45 anni, varie guerre, un’occupazione militare e civile che ha espropriato terre e città ai palestinesi, per arrivare a un accordo, mai portato a termine, ma ancora in vigore, l’unico che regola le relazioni tra le due parti.

(Imagoeconomica, marco Cremonesi)

Molti tra intellettuali e attivisti sostenitori della causa palestinese ritengono che non vi siano più le condizioni per avere uno Stato di Palestina in base a quegli accordi, e vedono la crescita delle posizioni per un unico Stato, senza però che ciò sia mai entrato nell’agenda delle Nazioni Unite o in negoziati tra le parti. Una posizione che potrebbe avere un non detto, una mossa del cavallo, di non voler riconoscere lo Stato d’Israele, e giocare sul fattore demografico che premierebbe i palestinesi.  Ma sono discussioni e calcoli che non hanno una base giuridica e politica, una idea bella ma ideale o provocatoria.

Oggi la comunità internazionale si trova di fronte a un disastro umano e umanitario di dimensioni e pericolosità mai viste nella storia del conflitto e deve prendere una decisione: o rimuovere le cause di tanta e tale violenza e violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani, o prepararsi ad altri disastri la cui portata sarà sempre maggiore, fino a saldarsi con altre guerre e altre crisi per uno scenario apocalittico.

(Imagoeconomica, Dati Bendo)

Spero e penso sia arrivato il momento di lavorare per la prima ipotesi e che sia il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a farsi promotore di una conferenza internazionale di pace per sancire, finalmente, il riconoscimento dello Stato di Palestina come membro a pieno titolo delle Nazioni Unite, fissando i confini tra i due Stati e trovando tutte le formule di compensazione tra le due comunità che dovranno essere garantite e accompagnate dall’impegno e dalla responsabilità dei due Stati d’Israele e di Palestina, e dalla comunità internazionale (l’Europa potrebbe giocare un ruolo da protagonista in questo percorso di cooperazione e di integrazione della regione del Mediterraneo).

Questa è la strada di pace da intraprendere con urgenza, senza più attendere nuovi accordi tra le parti o tempi migliori. Solo così, mettendo sul tavolo un percorso e un impegno reale, si potrà dare una nuova chance ai due popoli e liberarsi dai sogni egemonici e di distruzione dell’altro, o della scelta armata e della vendetta.

Sergio Bassoli, Area internazionale Cgil