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Non ci rassegniamo e non ci rassegneremo mai alla guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

Per questo il 20 giugno l’Anpi, l’Arci, il Movimento Europeo e il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, presenteranno in conferenza stampa un appello all’Unione Europea per una proposta di pace in Ucraina. Nell’appello si pone a valore il tema del ruolo dell’Ue nella trattativa e di una futura conferenza di pace. Con la conferenza stampa avviamo una campagna nazionale unitaria che vedrà protagonisti i territori, in molti dei quali da tempo l’Anpi è impegnata in forme diverse sul tema del contrasto alla guerra in Ucraina.

Abbiamo costruito questo appuntamento in più di un mese di lavoro, mentre la natura della guerra in corso assume una dimensione sempre più totalizzante; al conflitto propriamente militare, col suo spaventoso corollario di sangue e distruzione, si è aggiunta una guerra commerciale, una guerra “del grano”, una guerra finanziaria, una guerra delle materie prime e della produzione, una guerra dell’informazione, una guerra informatica, e chi più ne ha più ne metta. Non solo: la dimensione del conflitto coinvolge direttamente l’intero occidente politico e la Cina, e indirettamente tutto il mondo.

Nessuno è in grado di formulare una ragionevole previsione degli esiti di questa drammatica vicenda, che vanno dal peggioramento delle condizioni di vita di popoli di interi continenti (come sta già avvenendo) fino all’ipotesi più tragica dell’estensione su scala più generale di un conflitto armato. Si avverano le previsioni e le visioni di Papa Bergoglio – la Santa Sede continua ininterrottamente a operare perché siano deposte le armi in Ucraina – sulla terza guerra mondiale “a pezzi”, e la sua drammatica diagnosi: “la guerra non solo distrugge il popolo sconfitto, no, distrugge anche il vincitore; distrugge anche coloro che la guardano con notizie superficiali per vedere chi è il vincitore, chi è lo sconfitto”.

In questo scenario fino a oggi la grande assente è stata l’Unione Europea, cioè il luogo politico, giuridico e geografico che avrebbe potuto e dovuto svolgere un ruolo di mediazione, di ricerca di accordo, di agreement. I cento e passa giorni della guerra, alimentati con un flusso di armi di dimensioni ciclopiche, hanno portato a un ovvio aumento quotidiano delle vittime e delle distruzioni e a una lenta ma progressiva conquista di territori da parte della Federazione russa.

Nell’Ue si misurano, sia pure in modo controverso e contraddittorio, due linee presenti spesso nello stesso soggetto: la linea di chi incita alla guerra “fino alla vittoria sul campo” (come l’alto responsabile della politica estera Josep Borrell, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, le Repubbliche baltiche e la Polonia). Viceversa, Macron, Scholz e da qualche settimana – sembra – anche Draghi, si sforzano di proporre la linea di una trattativa, sia pure con modalità fra loro diverse e senza un coordinamento.

Né si vede, al di là di qualche “boatos”, una chiara volontà di negoziare da parte di Putin, anzi: le recenti grottesche dichiarazioni – “odio l’Occidente” – dell’ex premier russo Dmitrij Medvedev, ritenuto da molti un moderato, rendono la situazione ancora più difficile.

Anche in casa Nato si registrano contrasti di varia natura. Il segretario generale della Nato Stoltenberg sposa le tesi più radicali (una guerra a oltranza). Intanto, mentre cresce la tensione fra Grecia e Turchia sulla sovranità di alcune isole dell’Egeo, Erdoğan annuncia una nuova operazione militare ai suoi confini meridionali in terra siriana contro i curdi e minaccia il veto sull’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato a causa dell’ospitalità data da questi Paesi a persone legate al Pkk curdo, accusato di essere un’organizzazione terrorista. Tale preoccupazione di Erdoğan è stata definita da Stoltenberg “legittima”, nonostante il determinante impegno militare curdo – di cui l’Occidente sembra essersi dimenticato –, compreso il Pkk, contro l’Isis. La Finlandia, a sua volta, annuncia di non entrare nella Nato ove la Svezia fosse costretta a rinunciare per le minacce di Erdoğan.

In questo generale disordine continua la pur lenta avanzata russa in Ucraina: a quasi quattro mesi dall’invasione si sta per completare l’occupazione del Donbass. Qualsiasi trattativa non può che partire dallo stato della situazione militare; di conseguenza più tempo passa, più –verosimilmente – il negoziato vedrà la Russia su posizioni di forza. L’invio delle armi all’Ucraina non è servito a fermare l’avanzata russa e ha contribuito a estendere lo scenario di distruzione e di morte del conflitto. Ciononostante, si intensifica la richiesta di armi da parte di Zelensky e la conseguente offerta, sia pur diversificata, da parte dei Paesi della Nato.

Anche per questa ragione è urgente la promozione di un negoziato ragionevole e realistico. L’alternativa è il continuo innalzamento dell’asticella in un conflitto che coinvolge (e costa) ogni giorno di più ai Paesi Ue e coinvolge (con minori costi) gli States. Nella crisi economica, oramai conclamata in tutta Europa, e nella dichiarazione di trovarsi in una economia di guerra, esplicita nelle recenti parole di Macron, implicita nei comportamenti di quasi tutti i Paesi Ue, ci perdono i popoli e ci guadagna astronomicamente l’industria delle armi.

Si aggiunge infine un’altra ragione per cui urge chiudere il conflitto e operare per una conferenza di pace. La ragione è nei rumori di fondo che portano al lontano Oriente e in particolare alla Cina, sempre più vissuta dagli States come la vera minaccia. Così si spiegano il recente patto trilaterale Usa-Australia-Regno Unito (Aukus del 2021) con relative polemiche da parte di Macron, il tentativo Usa di rafforzare il Dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quadrilateral Security Dialogue, Qsd), alleanza strategica informale con Australia, Giappone e India, il summit globale delle democrazie a trazione Usa del dicembre 2021. Le recentissime tensioni fra Stati Uniti e Cina sulla questione Taiwan sono la spia di un meccanismo a orologeria il cui conto alla rovescia potrebbe essere già partito.

In questo scenario il conflitto in corso in Ucraina è la scintilla che potrebbe innescare quel timer verso una guerra generale. L’unica cosa certa è che in questa situazione tutti i popoli del mondo stanno già peggio, ed è quindi obbligatorio depotenziare le tensioni e far cessare le guerre in corso.

L’impegno dell’Anpi per la pace non è nato il 24 febbraio 2022, ma era, è e sarà una stimmate dell’associazione, una delle sue ragioni d’essere. Anche per questo, assieme alla conferenza stampa del 20 giugno e in coerenza con l’appello unitario che quel giorno lanceremo, occorre dar vita, in tutti i territori del Paese, a centinaia di iniziative e di mobilitazioni affinché si veda e si senta una forte voce popolare: la voce di un popolo che non vuole la guerra, non vuole l’economia di guerra, non vuole l’informazione di guerra (altro che putiniani!), e vuole invece una nuova coesistenza pacifica. Alle due tradizionali parole-programma, pace e lavoro, se ne aggiunge oggi una terza fondamentale: ambiente. E la guerra, qualsiasi guerra, le cancella alla radice.

Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale Anpi

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