“Papaveri rossi”, murales di Alice Pasquini, nome d’arte Alicé. San Giovanni in Persicheto

Ogni 25 aprile è diverso, ma questo è più diverso. Troppi problemi, troppi affanni, troppa solitudine. Un governo che governicchia, incapace di far fronte alla dimensione dei suoi stessi compiti, essenzialmente autoritario nell’animo, con un cuore nero in sonno che ogni tanto si desta e comincia a fibrillare; una guerra alle porte, in cui ci si è affannosamente precipitati non nascondendo una qualche cupidigia di servilismo verso il Grande Alleato; una pandemia che è stata in parte vinta ma non debellata, e su cui è piombato un silenzio spettrale. E infine quella parola fredda – crisi economico-sociale – che, salvi i quasi sei milioni di poveri assoluti, copre l’intero Paese con una cappa di ansia e anche – diciamolo – di stanchezza.

“Il 25 Aprile è la data del calendario civile in cui tutti i cittadini e le cittadine ricordano la Liberazione, e quindi, la Resistenza che ha cambiato la storia d’Italia con la sconfitta del nazifascismo. Con la Costituzione repubblicana e antifascista si sancì la conquista della democrazia e di libere Istituzioni”: così comincia l’appello del Forum delle associazioni antifasciste e della Resistenza, sottoscritto dalla grande parte dell’associazionismo laico e cattolico e del volontariato, e dai sindacati.

Il presidente nazionale Anpi, Gianfranco Pagliarulo (Clemente Marmorino, Imagoeconomica)

La Liberazione dal nazifascismo – squadrismo, dittatura, Tribunale speciale, leggi razziali, colonialismo, guerre d’aggressione, Auschwitz, Mauthausen – diviene l’esempio, il modello, l’archetipo di ogni liberazione. Ché liberarsi, se si vede l’etimologia, sta a dire salvarsi, sciogliersi, affrancarsi da un obbligo. Per questo liberarsi che ci è stato consegnato in dono, ricordiamo il martirio delle partigiane torturate e assassinate, o cadute in battaglia. Tante, troppe. Alle 17 del 25 aprile nel luogo dove sono state uccise o sotto la targa delle vie e delle piazze che le ricordano, deporremo una rosa. Sono rose, fioriranno; così abbiamo scritto. E qui uno per uno ricordiamo i nomi delle Medaglie d’Oro, la cui vita è stata recisa dalla falce nera: Irma Bandiera, Gabriella degli Esposti, Clorinda Menguzzato, Ines Bedeschi, Ancilla Marighetto, Norma Pratelli Parenti, Virgilia Tonelli, Livia Bianchi, Cecilia Deganutti, Maria Assunta Lorenzoni, Rita Rosani, Irma Marchiani, Iris Versari, Modesta Rossi, Anna Maria Enriquez Agnoletti. E ne facciamo memoria contro amnesia; parola pronunciata, alta e forte, contro silenzio; scelta, contro indifferenza; riscatto contro oppressione.

Ed ecco che quel liberarsi, che è salvarsi e sciogliersi dai vincoli, e perciò librarsi, lo ritroviamo oggi non solo come abbattimento della prigione nazifascista di tanti anni fa, ma anche come liberazione dal nazifascismo d’oggi, che c’è (ce l’aveva detto! Ce l’aveva detto Primo Levi che ciò che è accaduto può ritornare! E in tanti hanno dimenticato le sue parole). E assieme alla bora nazifascista, nel delirio della stagione che corre troviamo nazionalismo, oscurantismo, razzismo, autoritarismo.

E poi liberarsi come liberazione dalla guerra, che oggi è tornata a impazzare e a impazzire nel mondo intero, con un’umanità atterrita e con un’industria delle armi che calcola compulsivamente i profitti. Guerra alle porte. Da Trieste a Leopoli sono 1.157 chilometri. Da Trieste a Reggio Calabria sono 1.345 chilometri. E in Ucraina in tanti a mandare armi perché bisogna vincere. E continua la carneficina. Una guerra può finire in due modi: con la vittoria di uno dei contendenti o con un negoziato. Oppure, può non finire. Chiamasi Guerra Infinita. Oppure può estendersi al mondo intero. Chiamasi Guerra Mondiale. Oppure può terminare con la distruzione di tutte le parti in causa. Chiamasi Guerra Nucleare. Arrivano i nostri? No! Arrivano i mostri. Si apra uno spiraglio di trattativa.

Liberazione dal bisogno. Dei poveri ho già detto. È tornata l’inflazione. Dilaga il precariato. Il valore sociale del lavoro non è mai stato così vilipeso. Viviamo nel tempo del trionfo delle diseguaglianze nel mondo. Ma in Europa l’Italia è il Paese quasi più diseguale, seconda alla Bulgaria. E in Italia il territorio più diseguale è – ma lo sanno tutti – il Mezzogiorno. Ebbene, in questo Paese dove i ricchi sono sempre più ricchi e gli altri chissenefrega, sta a buon punto una riforma che conta molto, ma di cui si parla pochissimo, che si chiama autonomia differenziata.

In breve, le regioni più ricche diventeranno ancora più ricche e le altre si impoveriranno di conseguenza, alla faccia della scuola e della sanità eguali per tutti. Tanta fatica per l’unità d’Italia (Garibaldi, Mazzini, Cavour, Pisacane), tanta fatica per la ricostruzione e per la coesione sociale nel secondo dopoguerra (Togliatti, De Gasperi, Nenni, La Malfa), ed oggi, cancellata da decenni la questione meridionale dall’agenda di (quasi) tutta la politica, si va a tappe forzate e con la banda in testa verso il precipizio (si parva licet, Calderoli). L’autonomia differenziata – due parole gentili, difficili, eleganti, ma specialmente ipocrite – è una bomba ad orologeria sull’unità nazionale. Ma terremo assieme la Nazione col presidenzialismo, potrebbe obiettare la presidente del Consiglio. Un presidente eletto dal popolo, che non deve rispondere a nessuno, col parlamento-cenerentola e la divisione dei poteri a carte quarantotto. Un uomo (o una donna?) solo al comando. In fondo era l’idea di Giorgio Almirante, cioè la fine della democrazia costituzionale.

Perciò liberazione. Ecco il 25 aprile di quest’anno, una festa e un impegno contro un destino cupo che si vorrebbe imporre. Non ci stiamo. L’Italia del lavoro, della pace e della democrazia non ci sta. È il popolo dell’associazionismo, delle mille forme di aggregazione sociale, dai movimenti ai sindacati, dei laici figli dell’illuminismo e della Rivoluzione francese, dei cattolici di Aldo Capitini, di Giorgio La Pira, di Papa Bergoglio. L’Italia che si indigna quando un edile precipita da un’impalcatura senza misure di sicurezza e che lacrima quando a Cutro più di novanta corpi sono restituiti dal mare. L’Italia che si riconosce nel 25 aprile come il giorno della festa di tutti, perché tutti siamo stati liberati quel giorno del 1945. L’Italia dei radicali e dei moderati che hanno opinioni diverse, che se necessario litigano anche di brutto, ma che sono uniti davanti a qualsiasi pericolo per la democrazia conquistata dalla Resistenza. L’Italia che, di nuovo, ha scelto.

Qualcuno (non ricordo chi) ha scritto che ciascuno di noi è una macchina del tempo; per tornare nel passato abbiamo la memoria; per andare nel futuro abbiamo il sogno. È vero, sogno e memoria vanno a braccetto, e noi, qui in Italia, abbiamo persino lo statuto di questo percorso, abbiamo le istruzioni per l’uso della nostra macchina del tempo. È un libretto che si chiama Costituzione, che ci ricorda le idee e i principi da cui siamo partiti – i valori della Resistenza – e disegna il futuro di una società di liberi e di eguali. Si vuol sapere qual è il compito della repubblica antifascista? Presto detto: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Non è solo il secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione. Assieme alle due Italie costituzionali – l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro, l’Italia ripudia la guerra – è il programma di lavoro, è la visione della democrazia progressiva, è la bandiera dell’unità delle italiane e degli italiani. È la nostra lotta. È il nostro 25 aprile.

Gianfranco Pagliarulo, Presidente Anpi