Da http://www.repstatic.it/content/localirep/img/rep-torino/2016/04/25/122137016-e9d14bb8-c9bd-4ba6-b203-a1fe226bae5b.jpg
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Rivolgo un saluto a tutti i presenti, alle genti della Valsesia, al Sindaco di Varallo e a tutti i Sindaci, al Presidente dell’Unione Montana, al Presidente della Regione Piemonte, agli oratori di questa mattina che ringrazio per le loro considerazioni, a partire dal presidente dell’Anpi, figlio del Sindaco della Liberazione di questa città.

Un saluto particolare ai bambini e ai ragazzi che sono qui con noi oggi: è soprattutto loro questo giorno di festa.

 

La festa della Libertà, la festa della Liberazione.

Del giorno che vide Sandro Pertini annunciare, da Radio Milano Libera, la fine della guerra, il recupero dell’unità nazionale, l’avvio di un nuovo cammino democratico.

Libertà che è nata qui, su queste montagne, con la prima “zona libera”, anello di quelle Repubbliche partigiane che hanno segnato la volontà di riscatto del popolo italiano; vere e proprie radici della scelta che il voto del 2 giugno 1946 avrebbe sancito.

Ricordiamo, in questo 2016, i settanta anni dal referendum istituzionale in cui gli italiani e le italiane – queste ultime per la prima volta al voto – vennero chiamati a decidere tra monarchia e repubblica.

È un filo che segna il legame tra la Resistenza, il nuovo carattere dell’Italia democratica e l’ordinamento repubblicano.

È sul 25 aprile, su questa data, che si fonda, anzitutto, la Repubblica.

È nel percorso, arduo ed esigente, che va dall’8 settembre 1943 alla Liberazione che troviamo le ragioni della ripresa d’Italia.

Un’Italia divisa fra il Regno del Sud e il governo Badoglio, la amministrazione alleata nel Mezzogiorno, il Terzo Reich che occupava, a partire da Napoli, il resto d’Italia, annettendosi addirittura l’Alto Adige, il Friuli e la Venezia Giulia, l’Istria e la Dalmazia, sino alla sciagurata avventura di Salò.

Un’Italia che aveva perso l’unità, così faticosamente conquistata con le guerre d’Indipendenza.

Un’Italia che aveva visto sfumare la propria indipendenza.

Un’Italia devastata dalla guerra nelle sue macerie materiali e sfregiata da vent’anni di dittatura fascista nelle sue macerie morali, con la perdita, anzitutto, della libertà.

Contro tutto questo si levarono le coscienze limpide del nostro Paese: patrioti antifascisti che non avevano mai smesso di credere in un futuro migliore; militari abbandonati a se stessi dopo l’armistizio, che difesero il senso dell’onore e la Patria onorarono con sacrificio, talvolta con vero e proprio eroismo; donne e uomini, nelle città e nelle campagne, che non avevano mai smesso di credere che ogni persona va rispettata e che la sua dignità non può mai essere violata né per ragioni di razza, né per ragioni di religione, né per ragioni di pensiero, né per ragioni di genere, né per ragioni di condizione sociale.

Lì – dalle loro convinzioni e dai loro comportamenti – è nata la Repubblica.

Dalla necessità di trasfondere l’anima autentica del Paese nell’ordinamento dello Stato.

Di riannodare l’idea di Italia, così oltraggiata, ai sentimenti del suo popolo.

Di conferire significato alla condizione di cittadinanza, come forma di integrazione civica e democratica, nel passaggio da “sudditi” a “cittadini”.

Il 2 giugno 1946 divenne così la conclusione di un percorso e, allo stesso tempo, un punto di partenza.

Punto di partenza, per lo sviluppo di quel confronto che avrebbe poi portato, un anno e mezzo dopo, alla Costituzione, con i suoi valori personalisti e solidaristici.

Conclusione di un percorso, legato alla idea mazziniana, nel Risorgimento (e condivisa da Gioberti), di un patto nazionale dettato da una Costituente, essenziale per la nuova Italia unita.

Un percorso di transizione costituzionale, infine, svoltosi dopo il 25 luglio 1943 e che fu formalizzato nell’accordo tra il Comitato di Liberazione Nazionale e la Corona, nel gennaio 1944, dopo il Congresso di Bari delle forze antifasciste e la dichiarazione di Vincenzo Arangio-Ruiz: “il patto fra re e popolo ha perduto il suo vigore e vale, invece, il principio che ogni potere venuto dal popolo al popolo ritorni”.

La popolazione, stremata dal fascismo e dalle sue guerre, guardava già da tempo oltre il conflitto, conferma dell’avvenuto divorzio tra regime e nazione.

Il diffuso desiderio di pace e di libertà portava all’aspirazione condivisa di dar vita ad una nuova Italia che, lasciando alle spalle le atrocità vissute, guardasse a un futuro ricco di speranza e di progresso.

È stata la promessa realizzata dalla Repubblica in questi settanta anni!

La scelta repubblicana del popolo italiano reagiva alle sofferenze di una guerra prolungata: la sfiducia nei confronti della dinastia regnante doveva travolgere, con questa, l’istituto monarchico, che pure era stato strumento della unificazione italiana.

Restituire sostanza allo Stato, dissoltosi nell’estate del 1943, significò sceglierne una nuova forma, lontana dal concepirlo come padrone e oppressore dei suoi cittadini, ed espressione, invece, dei diritti dei singoli e delle comunità.

Questo il messaggio del costituzionalismo della Resistenza: realizzare un ordine politico e sociale incarnazione di valori ben diversi da quelli dell’autoritarismo fascista ma che non erano neppure quelli ottocenteschi della nazione e dello Stato liberale.

Un ordine che, sull’esempio delle Repubbliche partigiane, avrebbe guardato alle autonomie locali e sociali del Paese come a un patrimonio prezioso da preservare e sviluppare.

Dispersa l’identità, annullati i vincoli di solidarietà nazionale con l’avventura del regime fantoccio di Salò, il loro recupero si manifestò con un assetto che faceva tesoro della grande lezione della lotta delle democrazie contro il nazifascismo: a unire, o a contrapporre, non sarebbe stata più la logica di patrie arroccate su se stesse, bensì la comunanza di ideali di una comunità nazionale, impegnata a sostenere una nuova visione della comunità internazionale. Una visione incentrata sull’ideale dell’Europa e su quello delle Nazioni Unite.

Travolte, tra il 1943 ed il 1945, le istituzioni legali, le popolazioni dettero vita autonomamente, con le “zone libere”, dalla Valsesia all’Ossola, alle Langhe, all’Oltrepò pavese, alla Carnia, alla Repubblica del Vara in Liguria, a quella di Montefiorino, ad altre e diverse istituzioni, modellate su principi inediti e orientate all’affermazione di valori democratici.

La Resistenza interpretava, in questo modo, il sentimento del Paese.

Un sentimento che, prima ancora che politico, veniva dalla consapevolezza della comune appartenenza al genere umano; dalla ribellione agli orrori delle stragi, delle leggi razziali e della persecuzione degli ebrei, dell’ideologia del sopruso e dell’esaltazione della morte.

La Resistenza era, così, nel cuore degli italiani, prima ancora che nel loro impegno.

La partecipazione dei cittadini tornava al centro di ogni iniziativa, con la carica rivoluzionaria che questo comportava: un bene che sarebbe divenuto cardine costituzionale.

La democrazia è proprio questo: essere protagonisti, insieme agli altri, del nostro domani.

Ecco perché siamo qui oggi, in Valsesia, a celebrare il 25 aprile e, con esso, gli imminenti settanta anni di Repubblica. 

Scriveva Piero Calamandrei:

“se volete andare nei luoghi dove è nata la nostra Repubblica, venite dove caddero i nostri giovani. Ovunque è morto un italiano per riscattare la dignità e la libertà, andate lì perché lì è nata la nostra Repubblica”.

A Cefalonia, come a Sant’Anna di Stazzema, Boves, Porta San Paolo a Roma, Marzabotto, le Fosse Ardeatine, la risiera di San Sabba, nelle camere a gas, nei campi dove vennero rinchiusi gli internati italiani, ne troviamo la conferma.

Ci parlano i fucilati di piazza Martiri a Borgosesia, quelli al cimitero di Varallo, a Rassa, i morti del Ponte della Pietà a Quarona (e oggi, qui, abbiamo, in Fra Malagola, un eccezionale testimone di quell’eccidio).

Riposano qui i Carabinieri uccisi ad Alagna, i prigionieri di guerra australiani, britannici e neozelandesi che si unirono alla Resistenza e qui trovarono la morte ad opera dei reparti tedeschi e delle Brigate Nere.

Su questi monti, in queste valli, con il sacrificio del sangue è stata scritta la parola libertà.

Quasi tremila partigiani combattenti, cinquecento caduti, hanno rappresentato il tributo pagato in Valsesia, a nome dell’intera collettività nazionale, per la nuova Italia.

Comandanti di prestigio come Cino Moscatelli ed Eraldo Gastone, entrambi, poi, parlamentari della Repubblica, seppero condurre, con saggezza, una campagna di guerriglia, a stretto contatto con la popolazione, sino a scacciare temporaneamente l’occupante.

“Congiunte virtù militari e civili – recita la motivazione della Medaglia d’oro – opponevano all’aggressore la forza invincibile dell’amore per la libertà e per l’indipendenza della Patria”.

Fu il momento della diffusione dei Comitati di Liberazione Nazionale nei Comuni, nelle fabbriche, destinati a diventare un’efficace amministrazione-ombra clandestina, banco di prova delle capacità di governo, delle capacità di ricostruzione del popolo italiano.

E, da quelle esperienze, la Valsesia democratica generò una assemblea di popolo: quel Consiglio di Valle che, sorto nel 1946 sotto l’impulso determinante di Giulio Pastore, doveva giocare un ruolo fondamentale nella ricostruzione materiale e civile di queste montagne e imporsi come modello nazionale: riprova dell’importanza del contributo che dalle periferie alimenta la vita democratica italiana.

 

Cari giovani,

quella storia, quelle storie ci interpellano ancora oggi.

Ci dicono che è possibile dire no alla sopraffazione, alla violenza della guerra e del conflitto.

Ci dicono che è possibile dire no all’apatia, al cinismo, alla paura.

Ci dicono che esistono grandi ideali e sogni da realizzare per cui vale la pena battersi e che vi sono buone cause da far trionfare.

 

Anzitutto la causa della verità, invocata, non a caso, dal Presidente Oscar Luigi Scalfaro, in opposizione a tesi revisioniste di comodo, nel corso della sua visita, nel 1994, a Borgosesia, in occasione del 50° anniversario della “zona libera”.

Qualcuno osserva che, senza il contributo delle forze alleate, la Liberazione sarebbe stata assai più aspra e dagli esiti incerti.

L’unione delle democrazie fu decisiva ma, per la nostra libertà fu decisivo anche il contributo del nostro popolo.

Del resto, ammoniva, sin dal Risorgimento, Giuseppe Mazzini, rivolgendosi ai tanti che speravano nell’intervento francese:” Più che la servitù temo la libertà recata in dono”.

Ecco perché è sempre tempo di Resistenza.

È tempo di Resistenza perché guerre e violenze crudeli si manifestano ai confini d’Europa, in Mediterraneo, in Medio Oriente.

E, ovunque sia tempo di martirio, di tirannia, di tragedie umanitarie che accompagnano i conflitti, lì vanno affermati i valori della Resistenza.

Non esiste una condizione di “non guerra”.

O si promuove la pace e la collaborazione o si prepara lo scontro futuro.

Per questo è stata lungimirante la scelta di quegli statisti che, dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, ricostruirono l’Europa nell’integrazione politica ed economica.

I patimenti sofferti hanno fatto sì che l’Italia (e con lei altri Paesi europei), scegliesse la strada del ripudio della guerra.

A chi come i partigiani qui presenti – ai quali rivolgo il ringraziamento della comunità nazionale – seppe interpretare il desiderio di pace del popolo italiano, va riconosciuto un merito storico.

Settant’anni di pace ci sono stati consegnati dai nostri padri.

A noi spetta il compito di continuare, di allargare il sentiero della concordia dentro l’Unione Europea e ovunque l’Europa può far sentire la sua voce e sviluppare la sua iniziativa.

Le missioni di pace della comunità internazionale, alle quali responsabilmente partecipiamo, stanno a testimoniare la nostra sensibilità e la nostra coerenza.

Non ci può essere pace soltanto per alcuni e miseria, fame, guerre, per altri: queste travolgerebbero anche la pace di chi pensa di averla conseguita per sempre.

Di questo dobbiamo essere convinti e dobbiamo operare di conseguenza.

Come non sostenere la battaglia della Liberazione dei popoli, anzitutto dal terrorismo, che affigge e destabilizza interi Paesi dell’Africa e del Medio Oriente e si riverbera in Europa?

Come reagire alle ingiustizie e alle violenze se non, ancora una volta, attraverso la tenace costruzione di un ordinamento internazionale che applichi il principio fondamentale della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo: “tutti gli uomini sono uguali”?

Il patto di cittadinanza determinato dalla scelta repubblicana ci ha consentito di crescere in coesione sociale, affrontando sfide, anche drammatiche, in questi sette decenni, eppure oggi è necessario essere consci che è la dimensione internazionale, a partire dall’Unione Europea, quella in cui vengono messi alla prova i motivi ispiratori della nostra convivenza.

La Resistenza e la Repubblica, in uno con i movimenti di lotta antifascista degli altri Paesi europei, sono diventati storia e identità del nostro popolo. Hanno generato un ordinamento costituzionale che ci ha consentito di sviluppare diritti, opportunità, responsabilità diffuse.

Oggi questa sfida riguarda l’Europa: per svolgere i suoi compiti è necessario che si consolidi un ordinamento europeo in grado di farne davvero un soggetto attivo di cooperazione e giustizia nel mondo globalizzato.

Nella storia comune che abbiamo saputo costruire in questo dopoguerra, è legittimo e giusto guardare ai contrasti che ci hanno accompagnato con la saggezza della corresponsabilità di cui ci siamo caricati.

Il 25 aprile 1945 e i giorni immediatamente successivi segnarono il ritorno alla democrazia in Italia, la sconfitta del nazifascismo in tutta Europa, la possibilità che essa si sviluppasse in pace.

C’è motivo di festa, dunque, oggi, per la rifondata identità italiana ed europea, per fare memoria della insurrezione generale proclamata dal Comitato nazionale di Liberazione Alta Italia, che portò a scacciare il nemico dalle principali città del Nord.

Una festa che appartiene a tutti gli italiani amanti della libertà.

Viva la Valsesia, con la sua Medaglia d’oro al valor Militare!

Viva la Repubblica!

Viva l’Italia!