Gianfranco PagliaruloSiamo tutti a conoscenza degli scenari catastrofisti che sono stati evocati da alcuni promotori del Sì al referendum costituzionale o da loro interessati supporter qualora dovesse prevalere il No. L’Europa, le banche, la crisi, gli investimenti, persino il terrorismo. Per fortuna – con i debiti scongiuri – finora il terrorismo jihadista non ci ha toccato. Per il resto, vedete voi: come se oggi l’Ue andasse a gonfie vele, le banche facessero gli interessi dei risparmiatori, la crisi fosse superata, gli investimenti trasudassero nel nostro Paese come da un alveare carico di miele. La realtà disgraziatamente ci parla di uno scenario opposto: l’intera Europa si dibatte senza apparente via d’uscita in una situazione di stagnazione a corrente alternata, edulcorata da lievi incrementi del Pil, rispetto ai quali l’Italia è fra i fanalini di coda. Cosa c’entri la Costituzione, è un mistero assai poco glorioso, la cui soluzione va rinviata alla banca d’affari J.P.Morgan (una delle responsabili del crollo finanziario mondiale del 2008), che, come si sa, nel 2013 fece circolare una sua nota in cui si invitava in particolare i Paesi del sud Europa a cambiare le Costituzioni elencandone i presunti mali: “I sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo”.

Il corollario istituzionale della crisi è un Giano bifronte: da un lato una lontananza sempre maggiore fra governanti e governati, dall’altro la crescita esponenziale di eterogenei movimenti che si suol chiamare più o meno propriamente populisti, e che fondano la loro presa sulla cosiddetta antipolitica: troppe poltrone, troppi politici. E spesso una certa politica è creatrice dell’antipolitica: si pensi alla propaganda che, demonizzando “i politici”, allontana la partecipazione, in palese contrasto col disposto costituzionale, e liscia il pelo alle pulsioni tutt’altro che assenti nelle società europee, a cominciare da quella italiana, per un governo che governi “senza intralci” (cioè con minori controlli parlamentari): “Cara Italia, vuoi diminuire il numero di politici? Basta un Sì”. Dunque il messaggio non è cambiare, riformare la politica, spezzare il legame perverso fra politica e corruzione, ma diminuire il numero di persone che “fanno politica”, cioè che si impegnano, che si iscrivono ai partiti, che si candidano alle elezioni, che partecipano alla politica in qualsiasi modo. Ciò che viene tagliato, in realtà, è il diritto popolare al voto: il nuovo Senato, in base alla riforma, non sarà più eletto. Non solo: le Province, “abolite”, in realtà rimangono con altro nome; la vera novità è in sostanza che non si vota più. Il tutto in un quadro di dibattito pubblico degradato da tempo: personalizzazione, riduzione della politica alla campagna di marketing, prevalenza della battaglia degli slogan sulla battaglia delle idee.

A ciò si aggiungono tre dati di fatto. Il primo: la tambureggiante propaganda delle reti Rai nei confronti del Sì con una sovraesposizione mediatica del Presidente del Consiglio, come confermato dall’ultima performance presidenziale nella trasmissione L’arena. Il secondo: l’inusuale iniziativa di 900 sindaci che daranno vita il 27 ottobre a un “raduno” in piazza di Spagna, sotto l’accorta regia di Graziano Delrio e Angelo Rughetti (rispettivamente ministro e sottosegretario). Vedere una parte così significativa di istituzioni piegata al servizio della propaganda per il Sì  rivela – ahinoi – una visione deforme delle responsabilità pubbliche dei primi cittadini e nega di fatto la loro intrinseca vocazione unitaria. Sia chiaro che la responsabilità pesa come un macigno sui due rappresentanti del governo della Repubblica, che dai primi di agosto stanno lavorando in questa direzione. Il terzo: lo sconcio quesito referendario che, com’è noto, citando integralmente il titolo della riforma – uno spot da furbastri – è un implicito invito a votare Sì. Si discute sulla correttezza giuridica di tale titolo, ed è un bene. Ma la sostanza è il merito, cioè un raggiro nei confronti dei votanti.

Ciononostante, crescono le prese di posizione a favore del No da parte di personalità, associazioni, singoli cittadini, mentre pezzi significativi dello stesso partito del Presidente del Consiglio prendono le distanze. Si sta così creando un vero e proprio arcipelago di forze – di cui l’ANPI è una parte, seppur essenziale –  che contrastano questa riforma costituzionale: davvero una risorsa democratica e pluralista nel tempo plumbeo in cui è immerso il nostro Paese.

Ma torniamo agli scenari. Ciò che la propaganda del Sì non dice è in quale Italia ci troveremmo se passasse questa riforma. È ragionevole pensare che prevalga il No, ma simuliamo il contrario: ci troveremmo davanti a una “nuova Costituzione” (per usare le parole del ministro Boschi a Teramo, come voce dal sen fuggita, perché una “nuova Costituzione” richiederebbe quantomeno un’Assemblea Costituente, e fors’anche questa non sarebbe legittimata) approvata in via definitiva. Ma con quale consenso? La Costituzione promulgata il 1948 passò in Assemblea costituente il 22 dicembre con 458 voti favorevoli contro 62 contrari. Il 12 aprile 2016 la riforma è stata approvata dalla Camera in via definitiva con 367 voti a favore e 7 contrari su 630 deputati. 256 deputati non sono neanche andati a votare. Una maggioranza à la carte, dopo un sorprendente iter parlamentare, irto di scontri, furbate, cambi di casacca, persino due rimozioni di parlamentari “scomodi” dalla Commissione Affari costituzionali. Dunque la riforma è passata con una maggioranza di rottura in un parlamento eletto, com’è noto, in base a una legge dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale e sorprendentemente e irritualmente definito di recente dal Presidente Napolitano “uno straccio”. Da ciò il paradosso che si desume dalle stesse parole del Presidente Napolitano: uno “straccio” di Parlamento, spaccato in due, ha cambiato radicalmente la Costituzione! Francamente, il massimo di delegittimazione politica e morale. Alla grave rottura istituzionale causata da quel voto si aggiungerebbe, ove prevalessero i Sì, una scissione sociale senza precedenti: quasi mezza Italia non si riconoscerebbe in una “nuova Costituzione”, che pure dovrebbe essere per antonomasia la riformulazione del patto costitutivo che ci unisce, la legge fondamentale dello Stato, la fonte di ogni regola che ordina la vita civile, sociale, politica e istituzionale dell’Italia.

Avverrebbe esattamente il contrario di quanto si predica in queste settimane nella propaganda per il Sì: l’Italia sarebbe molto più debole, strutturalmente divisa, in gran parte ulteriormente demotivata. Questo sì che sarebbe uno scenario drammatico in una situazione, come quella che stiamo vivendo, già pesantissima: un Paese fortemente provato dalla crisi del lavoro e dal boom della povertà. Sarebbe un Anno Zero, perché da questa “nuova Costituzione” non si tornerebbe indietro. Altro che “migliorarla”, come si sente dire da parte di avventurosi pasdaran del Sì! Perché dovrebbe essere “migliorata” una riforma approvata da un referendum popolare? Anzi, si aprirebbe la strada a nuove avventure, perché la natura “rigida”  dell’attuale Costituzione verrebbe di fatto gravemente compromessa: se oggi un governo con una maggioranza risicata e rissosa cambia la Costituzione, perché non dovrebbe farlo domani nello stesso modo un altro governo? Inizierebbe l’era della “flessibilità” costituzionale.

Invece vince il No. Lo scenario cambia completamente. Rimane il vulnus, ma si può sanare, come dimostra l’esperienza del 2006, quando prevalse il No al referendum contro la riforma Berlusconi, e non avvenne nessuna catastrofe biblica. Certo, rimarranno i segni di una scelta divisiva voluta e perseguita da chi ha imposto un metodo e un contenuto non condiviso. Ferma rimanendo la natura “rigida” della Costituzione, ci sarebbero però le condizioni, oggi del tutto assenti, per un lavoro serio, partecipato e unitario di manutenzione costituzionale nel rispetto formale e sostanziale dell’art. 138, di ricostruzione di un percorso collettivo che coinvolga non solo le forze politiche e istituzionali, ma anche le “formazioni sociali” e – chiamiamolo col suo nome – il popolo italiano, in nome del quale troppo spesso si parla e si straparla, ma che sembra sempre più relegato ai margini della vita politica e istituzionale del nostro Paese.