Papà e mamma decisero di prendere in affitto un piccolo giardino non lontano dal paese; la nostra numerosa famiglia lo avrebbe dovuto coltivare con un minimo d’impegno, e io e Vincenzo fummo forniti di due piccole zappe adatte alla nostra età e costruite dal fabbro del paese.
Fu così che incontrammo per la prima volta don Calogero. Lo trovammo un uomo eccezionale: con il fuoco e il martello plasmava sull’incudine il ferro ancora caldissimo, così come nostra madre impastava con le sue mani la farina per preparare il pane e la pasta.
Gli attrezzi che il fabbro costruiva erano bellissimi, con l’ingegno e l’arte sopperiva alle varie esigenze degli abitanti di Villafranca Sicula. Don Calogero fu meravigliato dalla nostra curiosità per i suoi lavori e ci permise di frequentarlo quotidianamente.
Il giorno dopo, il contadino che aveva commissionato l’aratro venne a ritirarlo e don Calogero con un coltello incise su due pezzi di legno morbidi, che chiamava “ferla”, dei segni: uno lo consegnò al contadino, l’altro lo appese alla parete della bottega già tappezzata di tanti altri legni di sommacco tutti uguali, spiegandoci che il contadino avrebbe pagato l’attrezzo solo dopo avere raccolto il suo grano. La contabilità di don Calogero con i contadini del piccolo paese funzionava a meraviglia.
Con Vincenzo e altri ragazzi decidemmo di andare a visitare la collina e lo trovammo un luogo bellissimo. Dall’alto si dominava la valle degli ulivi e dei mandorli così tanto intensi nel loro bianco candore da apparire agli occhi di noi ragazzi come una grande distesa di neve. Al nostro ritorno parlammo con lui di ciò che avevamo provato visitando quel luogo, ed egli ne fu contento, poi sussurrò “Chi dovrebbe onorarlo spesso non lo fa”, noi domandammo perché e con tono garbato rispose “Perché così è l’uomo”.
Vincenzo aveva appena tredici anni e io ne avevo solo dieci, ora per la nostra grande famiglia tutto diventava più difficile.

Quell’anno la primavera tardava ad arrivare e i numerosi bracieri, unica fonte di calore disponibile, continuavano a bruciacchiare le gambe delle donne. La mamma faceva miracoli per sostenere la famiglia e continuava come sempre a comprare a me e a Vincenzo il latte appena munto dalle caprette che all’alba di ogni giorno ci svegliavano con il tintinnio delle campanelle che portavano legate al collo.

La nostra casa rimaneva non lontano dai cantieri navali e dal porto e la vita della nostra famiglia era la prima cosa da salvaguardare. Il ricovero di tufo che avevamo anche noi frequentato venne distrutto da alcune bombe qualche giorno dopo la nostra partenza per Villafranca: nessuno di quanti pensavano di avere trovato un posto sicuro riuscì a salvarsi.

Al nostro rientro a Palermo non trovammo nulla di quello che avevamo dovuto frettolosamente lasciare. Ci fu offerta una piccolissima casetta che ci consentì di potere vivere nella nostra città. Tutta la famiglia si adattò ai pochi lavori possibili, in quel difficile e tormentato rientro. Le coccole della famiglia erano tutte per Vincenzo in conseguenza dello stato di salute sempre più precario, e io ne ero contento. Vincenzo era un ragazzo meraviglioso e spiritosissimo, con tanta voglia di divertirsi e di vivere. Egli aveva ereditato la passione per la musica da papà che, pur suonando a orecchio, era molto bravo anche a comporre canzoni contro il regime fascista.
Il mandolino di papà tornò a strimpellare con Vincenzo e la mamma non perdeva occasione per ricordare il marito; i suoi racconti parlavano solo di cose positive, ma noi sapevamo che per lei con i suoi dieci figli dati alla luce non era stato sempre così, l’ascoltavamo con affetto, rispetto e ammirazione.

La vigilia del quattro settembre la mamma pretese che tutta la famiglia insieme a parenti e amici iniziasse al tramonto il viaggio a piedi per raggiungere la grotta di Santa Rosalia attraverso la vecchia strada acciottolata; il suo cuore sperava in un miracolo per la guarigione di Vincenzo. La devozione della mamma per la Santa era pari all’amore che nutriva per il figlio tanto malato.
Ci unimmo lungo il sentiero ad altri fedeli che procedevano a piedi, alcuni recitando il rosario, altri cantando o tenendo grandi candele tra le mani, altri ancora in ginocchio con fatica e sofferenza.

Prossimi alla grotta vi trovammo migliaia di persone che in qualche modo avevano sistemato le loro tende di fortuna. I bimbi scorrazzavano con gioia e le lampade a petrolio illuminavano le azzurre rocce del monte Pellegrino che un grande della letteratura come Goethe aveva definito essere il più bel promontorio del mondo.
Con Vincenzo curiosammo tra la gente guardando i numerosi banchetti con tante pietanze già pronte, tutti in attesa della cerimonia religiosa che si sarebbe svolta la mattina.
Nei mesi che seguirono Vincenzo fu costretto a lunghe degenze in ospedale. Assieme a Libertino, il secondo dei miei fratelli, facemmo lunghe code per acquistare la penicillina nei pochi centri di distribuzione. Neanche questo nuovo e importante farmaco riuscì ad alleviare le innumerevoli sofferenze.

La notte del 31 dicembre 1948, mentre la città si preparava a festeggiare l’ingresso del nuovo anno con spari e allegria, il nostro Vincenzo ci lasciava per sempre. Provai un grandissimo dolore e mi parve di morire; ai modestissimi funerali ci mancarono molto i nostri amici di Villafranca che la guerra ci aveva fatto incontrare.
Ottavio Terranova, presidente provinciale Anpi Palermo
Pubblicato venerdì 22 Luglio 2022
Stampato il 03/10/2023 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/idee/il-racconto/aspettando-la-pace/