Qui comincia l’avventura del signor Bonaventura, ebbe a scrivere Sergio Tofano in un distico diventato poi popolarissimo tanti e tanti anni fa. Dopo una lunga eclisse, eccolo risorgere oggi con qualche variante legata ai tempi: qui finisce l’avventura del c.t. Gian Pier Ventura.

Non sono competente in materia di calcio, essendo soltanto una ragazzina ribelle, partorita – per di più – dalla fantasmagorica mente del grande e bizzarro scrittore francese Raymond Queneau (come forse alcuni avvertiti lettori hanno percepito da tempo). Eppure qualcosa mi ha colpito. Non l’eliminazione della nazionale italiana dai mondiali del pallone in sé, sia chiaro: infatti né la squadra, né il commissario tecnico, per quel poco che posso capire, sono mai sembrati all’altezza della competizione internazionale. Mi hanno meravigliato il vacuo e immotivato ottimismo attorno ad una squadra obiettivamente mediocre con un gioco prevedibile e lento e con una scarsissima attitudine a fare goal. Ogni partita veniva sovente commentata così: è vero, la squadra ha deluso, ma vedrete la prossima partita, e giù auspici, auguri, presagi, pronostici, profezie. La successiva partita si svolgeva, poi, più o meno come la precedente. Ed allora, giù con profezie, pronostici, presagi, auguri, auspici. Insomma, come se non si fosse voluto vedere.

L’esempio di scuola è dato da un articoletto uscito qualche giorno prima dell’eliminazione dell’Italia dai mondiali. Nel testo si irrideva la squadra di calcio della Svezia come una sorta di Carneade, della serie Chi era costui? E si aggiungeva che non aveva mai vinto nulla, come se fosse la squadra di Andorra o del Liechtenstein. Evidentemente l’autore ignorava la grande storia sportiva della Svezia: giganti come Nordhal, Liedholm, Hamrin, Skoglund, Gren. Ai mondiali del 1958, che si svolsero proprio lì, fra i fiordi del Paese finnico, la Svezia arrivò seconda, battuta solo dall’inarrivabile Brasile di gente come Pelé, Vavà, Gilmar, Garrincha; proprio in quella circostanza – vedi l’ironia della storia – l’Italia, come oggi, non superò le eliminatorie dopo una clamorosa sconfitta contro l’Irlanda del Nord. Si dirà: ma era la Svezia di una volta, quella dei fuoriclasse. Vero. Perché, l’Italia di oggi quali fuoriclasse può vantare? Corso, Rivera, Baggio, Mazzola, o anche Zoff, Gentile, Cabrini, Altobelli, Rossi, o infine Totti, Del Piero, Pirlo, sono memoria di un’altra era geologica.

Sta perciò all’arguto notista sportivo individuare i perché, i per come e i per quando – cioè le ragioni e le responsabilità – dell’eliminazione dell’Italia. A noi, povere fanciulle perse negli imperscrutabili meandri della mente del nostro creatore Queneau, sovvengono solo alcune marginali chiose. Primo: chi guida il calcio nel nostro Paese? Colpisce che il presidente della Figc Carlo Tavecchio, cioè il più autorevole responsabile della ludica disfatta, si sia guardato bene – pur ripetutamente sollecitato – dal dimettersi, dando così conferma di un’indole strenuamente ed immarcescibilmente virile. Noi non lo conosciamo, ma ricordiamo che nel 2014 affermò con immaginifica creatività, a proposito di un ipotetico giocatore di colore, che “prima mangiava le banane, adesso gioca titolare”; ricordiamo anche il suo collaboratore, allora presidente della Lega Nazionale Dilettanti, tal Felice Belloli, che nel 2015, a proposito delle calciatrici, filosofò con questa argomentazione: “Basta! Non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche!”. Poi si dimise (lui sì), accusato – chissà perché – di sessismo.

Non possiamo giudicare, di conseguenza, le competenze e le attitudini professionali, ma non sappiamo nascondere il nostro reverente stupore davanti ad un ambiente che si rivela ricco di tale altissimo tasso di civiltà e cultura.

Secondo: cos’è diventato il calcio nel nostro Paese? Un gigantesco businness tv con annessi e connessi; uno spettacolo dal vivo – cioè allo stadio – sovente avvelenato da episodi che non hanno molto a che vedere con lo sport e col tifo, ma che sono molto interessanti dal punto di vista penale: l’adesivo con Anna Frank, il saluto fascista da parte dell’autore del goal della squadra avversaria nello stadio di Marzabotto (Marzabotto!!!), gli innumerevoli episodi di razzismo e di neofascismo che avvengono praticamente ogni domenica e che, non facendo più notizia, non finiscono neppure sui giornali.

Il che fa pensare che, affinché l’Italia torni a vincere nel calcio (ed in ogni altra attività) occorra una grande riforma. Sportiva, ma anche intellettuale e morale. Nel vortice dei milioni e milioni di euro e nella cloaca degli insulti razzisti e dei saluti romani si annega. Sempre e comunque.