E dopo la festa per la caduta del fascismo, che sull’aia di Casa Cervi vede i brindisi, i sorrisi, gli abbracci felici, mentre nella campagna, animata di improvvisati comizi, i contadini e i braccianti corrono “alla cerca di tutti i ritratti di Mussolini, dei fasci, delle scritte” (Alcide Cervi, I miei sette figli) per eliminarli a picconate, arriva la disillusione e irrompe la storia: la guerra continua.

E continua anche la repressione contro gli antifascisti, disegnata nelle sue modalità operative dalla circolare firmata dal generale Roatta che, il 27 luglio ’43, detta la linea per affrontare (e stroncare) le giubilanti manifestazioni delle piazze antifasciste: “siano assolutamente abbandonati i sistemi antidiluviani, quali i cordoni, gli squilli, le intimidazioni e la persuasione..i reparti devono assumere e mantenere grinta dura..si apra il fuoco a distanza anche con mortai e artiglieria, senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche, non è ammesso il tiro in aria, si tiri sempre a colpire come in combattimento”. (Giorgio Rochat, Le guerre italiane)

L’ordine del generale Roatta, già criminalmente distintosi nei Balcani occupati per la ferocia della guerra antipartigiana e della rappresaglia sui civili, è un rullio di tamburo su una unica nota: “immediatamente passare per le armi”.

Deve morire “chiunque anche isolatamente compia atti di violenza e ribellione”. Deve morire “il militare che compia il minimo gesto in solidarietà con i perturbatori dell’ordine pubblico”.

Insieme ad essi, devono essere fucilati anche “i caporioni e gli istigatori dei disordini” (Giorgio Rochat, op. cit).

Moriranno così nove operai delle Fonderie reggiane che volevano la pace: avevano riempito il piazzale grande della fabbrica, fattosi azzurro delle loro tute e tra bandiere tricolori e rosse, avevano gridato fratelli soldati, abbasso la guerra fascista, viva l’Italia democratica, viva la pace. Fratelli soldati unitevi al popolo”.

Quando cessano gli spari, tra i nove morti, “una donna addossata ad un albero vestita di nero perde sangue dalla pancia e piange come una bambina” (Alcide Cervi, op.cit). È il 28 luglio 1943.

Noi – anno 2018 – dopo la festa all’ex cooperativa di Borgo Ticino, dopo le canzoni, dopo l’allegria, dobbiamo andare incontro alla storia del nostro tempo, e non accettarla, e volendola cambiare di indirizzo. Sapendo la pena dei morti annegati, la vergogna dei lager libici, la farsa orrenda dei muscolari respingimenti, per praticare qui ed ora il no dell’antifascismo a una Europa pensata come fortezza assediata e a forze politiche che, sedute sui banchi del governo e del Parlamento, innestate sul nudo egoismo sociale, a piene mani diffondono paure e costruiscono nemici, dietro ai quali parare il proprio nulla rispetto al pensare e all’agire politico.

Annalisa Alessio e Mario Albrigoni (Anpi Pavia)