Penso alla tragedia dei musulmani dello Stato del Rakhine (in Myanmar, ndr) e a come il mondo la sta affrontando. Sembra non considerare la situazione politica del Myanmar, rischiando di travolgere Aung San Suu Kyi, l’unica speranza per la Birmania e per la soluzione di questo e degli altri problemi. Siamo al di sotto della sfida. Dominati dalla paura. Senza una strategia convincente. Senza pensare alle conseguenze. Come se ci bastasse denunciare, salvare l’anima, vivere di emozioni. Un occidente che è come se non sapesse governare il mondo di oggi. Si affida alla comunicazione, più che alla ragione e alla politica.
Desidero condividere qualche pensiero. Stiamo imparando molte cose. Che nel mondo globale le sfide sono complesse e non tollerano semplificazioni, né in occidente, né nel mondo musulmano, né in Myanmar dove la democrazia è appena agli inizi. Che le sfide richiedono lo sforzo della conoscenza e della comprensione, che non basta l’indignazione del momento a risolvere i problemi, che è necessario un discernimento vigile, che ci si ponga qualche domanda in più di fronte alla sofferenza degli altri. Che la politica non è un twitter, e che è da stolti attaccare le uniche risorse disponibili per difendere la democrazia. Il danno sarebbe enorme. Che dai problemi si può uscire solo con più umiltà, e con verità e responsabilità. Che si può uscire unendo le forze democratiche, non dividendole.
Sull’equilibrio politico del Myanmar
Sappiamo che in Myanmar un difficilissimo e fragile equilibrio politico regge il Paese. Che Aung San Suu Kyi ne è il perno, la garanzia per una transizione democratica senza interruzioni. Che il problema del Rakhine può essere affrontato e risolto solo se lei non viene indebolita a vantaggio dei militari, solo se l’esercito, là presente e in azione, come abbiamo visto, viene sottoposto al controllo politico del governo. Ora non è così. Non solo: lei è l’unità del Paese, la via per la riconciliazione tra le etnie, i gruppi armati, l’esercito. Ha aperto un anno fa la Conferenza di pace di Panglong, tuttora in corso, e prima ancora ha costituito la Commissione per il Rakhine presieduta da Kofi Annan. Ha accolto il suo recente Rapporto, ha già costituito il gruppo del governo per realizzare gli obiettivi indicati. Il piano di Kofi Annan apre la via allo sviluppo economico e sociale della zona, ma è stato criticato dai militari. I media non hanno raccontato. Il Myanmar è solo un esempio del confronto in atto nel mondo tra democrazia e dittatura, tra conflitti e pace. Dentro i Paesi e su tutta la terra. Ora un altro fronte si è aperto nel Rakhine nel confronto con il mondo mussulmano, con la nascita di gruppi armati come l’Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA), dopo il Medioriente e l’Europa. Come spegnere l’incendio e sostenere la pace, se non con una visione globale, che coinvolga i Paesi vicini, l’ASEAN, l’India, il Bangladesh e gli altri Paesi musulmani? Lei lo sta facendo, affrontando un problema per lunghi decenni rimasto irrisolto, occultato. Così stanno le cose.
La missione e la responsabilità di Aung San Suu Kyi
Cari Amici, Aung San Suu Kyi ha assunto da tempo la sua missione: guidare la Birmania verso la democrazia. Fin da quel lontano agosto del 1988, quando fece il suo primo discorso pubblico davanti alla Pagoda Swedagon, dopo il massacro degli studenti. Prima di ricevere il Premio Nobel per la pace. Un ruolo politico, il suo. Lei non vuole essere un’icona, ce lo ha sempre detto fin dal nostro primo incontro. Invece il mondo parla a lei come al Premio Nobel. Non sa che per lei è il suo Paese la priorità, anche a costo della sua immagine, nonostante essa possa essere utile alla sua azione per la Birmania. Il tema della responsabilità è decisivo nella vita e nella storia. Dice Bonhoeffer: “Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene”. A me pare che lei agisca così. Lei sta vivendo il meritatissimo Premio Nobel operando concretamente per cambiare la storia. È un’unica vita, quella di Aung San Suu Kyi, che oggi guida il suo Paese verso la democrazia. Liberando progressivamente la politica dal peso dei militari, non previsto in un sistema democratico. Costruendo una nuova Birmania pacificata, democratica, pluralista, non violenta. Un lavoro di lungo periodo. Tutto è appena agli inizi. Il Myanmar può diventare questo nuovo Paese se la società birmana prenderà in mano il proprio destino. Vi sono segnali incoraggianti.
È di queste ore la notizia che musulmani della società civile hanno preso posizione contro i gruppi armati musulmani del Rakhine. Come da noi, i musulmani che isolano la violenza costruiscono un futuro di pace.
Il mondo dovrebbe semplicemente sostenere questo cammino con intelligenza e lungimiranza. A chi gioverebbe fermare Aung San Suu Kyi? A meno che non vi siano interessi, politici ed economici, che abbiano di mira il Myanmar. Come una preda. Lei potrebbe essere un ostacolo, se si volessero far prevalere ancora business e corruzione. Conosciamo il mondo, quello di ieri e quello di oggi. Spregiudicato. Con il possesso dei mezzi di informazione, che possono essere usati come strumenti politici.
Il silenzio e le parole di Aung San Suu Kyi
Il suo presunto silenzio è stato trasformato in accusa. In verità Aung San Suu Kyi ha sempre parlato. Anche a Roma nel maggio scorso alla Conferenza dei Parlamenti del mondo in occasione del G7, sui migranti in Myanmar e nel mondo. Parlava al mondo e al Myanmar. Secondo principi di diritti umani, accoglienza, integrazione. I giornalisti non hanno pubblicato. Noi l’abbiamo ascoltata.
Aung San Suu Kyi è stata in silenzio per molti anni, agli arresti domiciliari. Quando ha potuto ha sempre parlato con il suo popolo. Una ininterrotta conversazione sulla democrazia. Conosce il valore e il peso dei silenzi e delle parole. Una sua parola potrebbe scatenare reazioni pericolose in Myanmar, che peggiorerebbero la situazione. Il mondo dovrebbe saperlo. La parola rohingya, ad esempio, è l’autodefinizione dei musulmani del Rakhine, per gli altri in Myanmar sono bengali. Dietro le parole ci sono paure e politiche.
Lei li chiama la minoranza musulmana del Rakhine. Con laicità.
Da mesi ad Aung San Suu Kyi viene rivolta la stessa domanda, solo quella: “Perché non parli?”. Parla anche con le sue azioni, come la sua decisione di attuare subito le indicazioni del rapporto di Kofi Annan.
È raro che un politico non risponda ai media, qui da noi si cercano in continuazione.
Io ascolto i silenzi e le parole di Aung San Suu Kyi. Vedo le sue decisioni politiche.
La verità in rapporto alla politica e ai media
L’informazione, i media sono un tema cruciale della democrazia. Hanno a che fare con la verità, così come la politica. Ma oggi la verità non è al centro delle notizie, né della politica. Per lo meno tutta la verità. Una mezza verità è già una menzogna, dice Papa Francesco. Si fabbricano anche notizie e immagini false, anche nel caso del Myanmar. Si manipola. Può essere una strategia politica, con obiettivi politici. Dobbiamo saperlo. Il Parlamento Europeo ne ha discusso di recente. La responsabilità dei media, e dei cittadini che devono pretendere la verità, è un argomento di cui ha voluto discutere con noi nella sua casa a Naypyidaw nel marzo scorso. Lei cerca la verità, come parte della democrazia. Non è schiava dei media.
La forza di Aung San Suu Kyi e il nostro sostegno
Io vivo costantemente con il pensiero là, e qui da noi.
È la stessa cosa. Abbiamo conosciuto in questi anni Aung San Suu Kyi e la Birmania. Ne abbiamo condiviso la storia, i lutti, le gioie, la speranza. Conosciamo di Aung San Suu Kyi l’autenticità.
È la sua forza. Conosciamo le condizioni politiche della Birmania, e la speranza del suo popolo.
Vedo le luci e le ombre del mondo, la crudeltà delle guerre, la povertà della politica in occidente. Le grandi difficoltà che abbiamo di fronte ma anche il mondo nuovo che sta emergendo.
Siamo accanto ad Aung San Suu Kyi e al suo popolo, ai fratelli birmani e ai fratelli rohingya.
A dicembre torneremo da lei per il viaggio di amicizia. Abbiamo molto da imparare. Abbiamo una speranza da condividere. E io forse andrò anche prima. A fine novembre andrà Papa Francesco. Sono sicura che il suo abbraccio porterà luce e amore. E dopo, forse, il mondo vedrà nuove cose.
Albertina Soliani, Presidente dell’Istituto Cervi
Pubblicato martedì 3 Ottobre 2017
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