(Imagoeconomica, Saverio De Giglio)

Perché rimaniamo partigiani, quand’anche la traiettoria di coloro che concretamente combatterono, armi alla mano, per un mondo diverso (e quindi migliore), già da tempo si è esaurita? Siamo forse anacronistici o, comunque, fuori tempo massimo? Siamo orfani e vedove di un passato che, per noi soli, non passa?  Siamo reperti del tempo che fu, non volendoci invece consegnare a quello corrente, che si dichiara completamente estraneo a quanto successe? Non sono domande di circostanza. Adesso, e plausibilmente così sarà anche a venire, c’è chi si prende gioco di tutto ciò, affermando che il passato non solo è trascorso ma, a conti fatti, sia irrilevante.

Viktor Orban (Imagoeconomica)

Soprattutto per comprendere il tempo corrente. Non è un caso che tra quanti pontificano in tali termini, con malcelata indisponibilità verso la memoria di quanto è stato, si manifestino due tendenze, in fondo complementari: il “nuovismo”, ossia il fare tabula rasa dei trascorsi, nel nome di una non meglio precisata modernità, di un cambiamento senza volto né, soprattutto garanzie collettive; la nostalgia reazionaria, alimentata dallo spirito di rivalsa, di cui una parte dell’attuale coalizione di governo si nutre, nel tentativo, sia pure di lungo periodo, di omologare il nostro Paese a quelle democrature che tanto piacciono alla destra illiberale e post-costituzionale.

Il calcio di un fucile con l’immagine di Donald Trump (Imagoeconomica)

Il modello ungherese di Viktor Orbán ne è, in Europa, la manifestazione più compiuta. Ma non è di certo l’unica: basti pensare agli Stati Uniti in mano a Donald Trump, al Brasile di Bolsonaro (il fatto che questi ultimi non siano, al momento corrente, al governo – il primo ha però annunciato la candidatura alle prossime presidenziali – nulla toglie rispetto ai loro progetti di rivincita), ad Israele assediata dall’esecutivo Netanyahu e a molto altro ancora.

Giorgia Meloni e Benjamin Netanyahu (Imagoeconomica, Carlo Lanutti)

Il tratto comune a questi soggetti, e ai loro sostenitori, è essenzialmente uno, ossia il rifiuto delle regole democratiche e di garanzia per come sono invece venute definendosi, con grande fatica, dal secondo dopoguerra in poi. Dopo la catastrofe del nazifascismo. Lo fanno sia pure con tempi e logiche diverse, a seconda delle singole realtà nazionali, la pratica che adottano è quella di spostare progressivamente l’equilibrio, non solo politico ma anche istituzionale, verso esiti monocratici, basati sulla centralità delle proprie persone e, ancor più, del sistema di potere e di interessi che da ciò ne deriva. Non è solo il ritorno del vecchio dispotismo. Semmai si tratta di una commistione tra la restaurazione di qualcosa che fu (l’autoritarismo più spinto) e quel che potrà essere (la neutralizzazione delle libertà nel nome degli “interessi del popolo”).

Lo storico Fulvio Cammarano

In comune, passato e presente, hanno un elemento: il rifiuto di società costituite da individui, donne e uomini, emancipati. Scrive, al riguardo, lo storico Fulvio Cammarano: “nonostante le incertezze e le capriole ideologiche che caratterizzarono il percorso politico di Mussolini, dobbiamo riconoscere che il fondatore del fascismo ha trovato tra gli italiani un largo consenso o quantomeno una diffusa tolleranza nei confronti dei progetti, prima, e delle pratiche, poi, di demolizione delle istituzioni liberali e di instaurazione di un regime la cui solidità, rappresenta inevitabilmente una prova del disinteresse degli italiani per il tema delle libertà e del valore del pluralismo politico”. Esattamente l’opposto dell’essere partigiani. Allora così come oggi. Poiché il partigianato non è solo quello che si pratica armi alla mano, quando le condizioni lo impongono, ma il “prendere parte”, il dichiararsi, l’esporsi a rischio di se stessi, della propria esistenza, di ciò che, con grande fatica, nel mentre si è cercato di costruire.

(Imagoeconomica)
Piacenza, 30 aprile 1945, a bordo di autocarri, partigiani feriti sfilano tra due ali di popolo (Archivio fotografico Anpi)

Cerchiamo pertanto di capirci: poche parole, quindi, rivolte soprattutto a chi vorrebbe sotterrare la storia da cui l’Italia libera e democratica, costituzionale e repubblicana, è quindi risorta. Anzi, si è generata nel nuovo, non solo negando l’eredità fascista ma superando – al medesimo tempo – le incongruenze e gli anacronismi di quella liberale. Ci permettiamo, a tale riguardo, di contrapporre, ad ognuno di essi, alcune considerazioni di principio. Quelle che nascono e si fortificano dall’orgoglio di non essere come i pavidi, i corrotti, gli opportunisti, i grassatori ma anche gli illusionisti del tempo corrente o cos’altro. Nonché gli illusi. Di tutte le epoche. Allora come oggi. Tanti, troppi. Poiché dietro ogni autoritarismo non c’è solo la forza dei potenti ma, soprattutto, la fragilità dei molti, i subordinati. Tali poiché cercano una qualche “protezione” barattando, a favore di essa, la propria autonomia. Beninteso, non cerchiamo facili ancoraggi: semmai ci muoviamo in uno spazio dove il vero obiettivo è quello di generare un’etica comune. Vi potete anche prendere beffa di noi ma, vi sia chiaro, mai ci dominerete. Non è successo nel passato, non succederà da adesso in avanti.

Le banderuole che si muovono, a seconda della direzione del vento, infatti, non ci appartengono. Ossia, quello stato di cose, condotte, pensieri e atteggiamenti che da sempre si dispongono in posizione prona e china ai potenti di turno, ci è estraneo. Poiché ciò che sta alla radice dell’essere «partigiani» è semmai un’esigenza elementare e che, come tale, si ripete nel tempo: non la ribellione fine a se stessa bensì la rivendicazione di dignità umana. La propria come quella altrui; in Italia, in Europa, ovunque. Quindi, sempre e comunque. Non si è partigiani una sola volta. Lo si è a prescindere dai tempi. Quindi, nel corso stesso del tempo. Ci fu chi allora lottò con le armi alla mano. C’è chi, oggi, continua a lottare con le idee e l’impegno civile. Rifiutando le compromissioni di comodo.

(Imagoeconomica)

Ciò avviene quand’anche, non avendo più vissuto l’esigenza e la priorità di contrapporsi con il ricorso alle armi, ne è invece recuperata, da subito, l’eredità civile e morale. Lo diciamo a quei corifei, di ogni genere e risma, anche di una sinistra che non esiste più, essendo molto spesso una pallida replica di un liberalismo inerte, inerme e, quindi, senza spirito né corpo. Se alla critica delle armi si sostituiscono le armi della critica, rimane il merito che nessuna opposizione cesserà. Non è un auspicio. Si tratta di un riscontro di fatto. Che piaccia o meno.

Il tutto è successo, per occorrenza e necessità storica, durante la Seconda guerra mondiale. Ma non è finito, in alcun modo, con quell’arco di tempo. Posto che, se mai si dovesse ripresentare l’urgenza, tanti saranno presenti. Ben di più di quanti, tra i molti opportunisti, di allora così come di oggi, vorrebbero invece negare. In quanto esiste una differenza incolmabile tra coloro che si piegano e quanti, invece, tengono la schiena dritta. Non per orgoglio fine a sé ma per senso di responsabilità e reciprocità. Ovvero, quella miscela che concretamente fonda le società libere in quanto pluraliste. Dopo di che, veniamo al dunque:

  • La nostra Costituzione è partigiana: tale non poiché di “parte” bensì perché – al medesimo tempo – intende coniugare pluralismo (l’essere in tanti e quindi – tra di loro – “diversi”), al rifiuto di qualsiasi forma di totalitarismo ideologico (ossia, il diventare tutti omologati ad un’unica identità, quella che fa comodo alle esigenze del regime). In Italia, per capirci, quest’ultimo elemento si è storicamente manifestato con Mussolini e i suoi accoliti. Si tratta di un riscontro storico. Rifiutare l’eredità del fascismo storico non è un mero esercizio politico, rimandando piuttosto alla dimensione dell’esistenza personale: semmai, quindi, indica quali siano le tanti radici di un «essere italiani» (ed europei) liberi e di conseguenza indipendenti. Tali, in ultima istanza, perché capaci di pensarsi come cittadini e non come espressione di un qualsiasi regime. Se ragliate come asini imbelli sui «crimini del comunismo», per cercare di coprire quelli della vostra parte, sia ben chiaro che vi risponderemo a tono appropriato: non c’è nulla da nascondere, se non la vostra invereconda impudicizia;
  • L’italianità, per ciò che essa concretamente implichi – a partire dal fatto che costituisce un risultato della storia dei popoli, tra di essi comunque solidali, ben diversamente da ciò che ci dice invece un esercizio imperialistico e razzista – è quanto deriva dalla reciprocità non tra identici e omologhi bensì tra persone distinte, che coltivano la propria identità. L’idea di nazione (che è cosa ben diversa dall’ideologia novecentesca del nazionalismo fascista), va quindi sottratta alle destre illiberali e post-costituzionali: poiché non è un residuo del passato bensì, invece, un elemento della costruzione di identità collettive, quelle che si basano su una comune cittadinanza di diritti (e di obblighi, verso la comunità), in chiave europea e, quindi, continentale, nonché inclusiva;
  • Benito Mussolini

    Il fascismo storico, e ciò che non si è esaurito con esso (ossia con il colpo di Stato monarchico del luglio 1943, insieme al successivo delirio criminale della Repubblica sociale italiana, fino alla fine dell’aprile del 1945), non è il prodotto di un malinteso senso dell’onore nazionale bensì la somma delle corruttele, dei precipizi e dell’abiezione dell’essere umano nell’età presente: dicendo ciò, non rimandiamo ad un facile e gratuito giudizio morale, bensì ad un riscontro di fatto, quello che deriva dal confronto tra umanità e disumanità. L’auto-organizzazione partigiana, dal settembre del 1943 in poi, ha cercato di ricostruire, in Italia, la tela – altrimenti sbrecciata – della civiltà. Parole, queste ultime, troppo grosse? Francamente no. Non si è partigiani in quanto «di parte»; semmai si è di parte, e quindi anche partigiani, per ricostruire un’unità umana unitaria che, altrimenti, sarebbe stata per sempre cancellata. Ciò facendo, non si rivendica nessuna primazia che non sia quelle che deriva dalla coscienza del tempo che si sta vivendo. Allora come oggi;

  • Scrive ancora lo storico Fulvio Cammarano: “Non c’è dubbio che gli esponenti del governo [di oggi] siano disposti, in molti casi anche convintamente, a condannare il fascismo-regime, vale a dire il sistema di potere dittatoriale crollato ottanta anni fa verso cui, si sostiene, non c’è alcuna nostalgia. Più problematica, anche alla luce della miriade di recenti esternazioni pubbliche e private, risulta essere la questione del riferimento ideologico che sorregge l’azione politica degli esponenti di Fratelli d’Italia. Il motore effettivo di quell’area politica non è certamente il conservatorismo e neppure l’anticomunismo, obiettivo che dagli Anni 80 non ha più alcuna forza emotivamente aggregante. Il vero riferimento ideale che caratterizza l’attuale compagine di governo è l’anti-antifascismo”. L’autore di queste note, quindi, prosegue con arguzia e cognizione nelle sue riflessioni, che facciamo nostre: “Ecco, dunque, perché l’eterno nodo della permanenza del fascismo in Italia continuerà a rimanere ben saldo: se il fascismo non rappresenta più un regime politico riproducibile, l’antifascismo non è mai diventato il minimo comun denominatore della Repubblica italiana, il che ha reso, e renderà sempre di più, molto ambiguo il confronto sulle fondamenta valoriali della nazione”.
  • Camicie nere

    E ancora: “lo squadrismo, il ripudio del pluralismo, l’autoritarismo, prima e dopo la marcia su Roma, furono presentati come indispensabili strumenti per arrestare il fenomeno della disordinata “incontentabilità” operaia e contadina in nome di un interesse collettivo più alto, quello della Patria. Un obiettivo che in realtà mirava a ripristinare le pericolanti gerarchie sociali e culturali e a cui il fascismo diede, a differenza di quanto aveva fatto il nazionalismo, le sembianze di una rivoluzione anti-sistema ricorrendo a immaginari di mobilitazione generazionale e di rifondazione, anti-democratica, del rapporto costituzionale tra la sfera pubblica del comando e quella dell’obbedienza. La Patria si rivela dunque il pass partout ideologico fondamentale di tale processo”. Come non vedere, in tutto ciò, qualcosa che demanda al nostro presente? È presente, ancora una volta per capirci appieno, non ciò che ripete pedissequamente il passato bensì quanto di quest’ultimo ne riesca a cogliere, a proprio beneficio di parte, gli elementi più vincolanti, stringenti, coercitivi per il resto della società. In fondo, è questo il lascito testamentario del mussolinismo;

  • Milano, 6 maggio 1945. Nel corteo aperto dal Comando CVL (ritratto nella celebre foto) sfilano le formazioni partigiane. Nello scatto, componenti delle formazioni dell’Oltrepo pavese. La ragazza con la bandiera è Eva Colombo “Susi”, staffetta partigiana, sullo sfondo si vedono Italo Pietra “Edoardo” e Alberto Mario Cavallotti “Albero” (ringraziamo Antonio Corbeletti, presidente Anpi Voghera e vicepresidente provinciale Pavia, per le informazioni sui protagonisti ritratti)

    Non esiste, pertanto, nessuna esigenza di “riconciliazione” nazionale: men che meno, per capirci, di “parificazione”. Richiesta che, invece, sempre più spesso si ripeterà, per parte delle forze dell’attuale esecutivo, tutte di destra. Non di “centro”, come altrimenti simuleranno di essere. Le quali aspirano a fingere di volere unificare il passato (“tutti combattenti, quindi, tutti eguali”) per poi estromettere la controparte. Accettare realisticamente che la lotta di Liberazione (parola, quest’ultima, che si scrive sempre e comunque con la maiuscola) sia stata anche, tra le altre cose, una guerra civile, non implica in alcun modo affermare che le parti contrapposte fossero equivalenti. Attenzione: la destra di governo, erede degli sconfitti del 1945, si sta invece adoperando in tale senso. Poiché, così facendo, ne ricaverebbe un beneficio di legittimazione al presente. Tutto ciò non va in alcun modo concesso. Non per astio irrisolto (come invece verrà detto dai postfascisti) bensì per la semplice comprensione di un meccanismo, in sé tanto banale quanto fondamentale: nei più importanti momenti della storia, tali poiché fanno da spartiacque tra un prima e un poi, la vera linea di divisione non è tra ideologie contrapposte bensì tra il continuare ad essere umani e, invece, il negare tutto ciò.

  • Partigiani della Brigata Crespi a Pavia

    Quanto allora chiamavamo – continuando a farlo a tutt’oggi – con il nome di “fascismo”, è esattamente quel che ha negato, storicamente, la radice dell’umanità. Lo fece ai suoi tempi. Lo continua a fare adesso, ai nostri giorni. No, quella storia non è quindi per nulla finita o esaurita. Sta ad ognuno di noi continuare a rivendicarne gli antidoti, in coscienza e consapevolezza. Non certo per obbligo bensì per riconoscimento di diritto. Quello che deriva dall’umanità di ognuno di noi. Poiché quest’ultima esiste in quanto non gentile concessione di un qualche sovrano dalla volontà imperscrutabile, bensì per assunzione di responsabilità da parte della concreta collettività che, come tale, si rigenera nel suo essere assemblea di costituenti. Nella Resistenza, infatti, si manifestava già da sé la necessità di rigenerare e trasformare l’Italia: non solo quella fascista ma anche la liberale e monarchica, che del suo aveva invece concesso ai fascisti medesimi, forza minoritaria di opposizione, uno spazio altrimenti impensabile;

  • Se quel che è successo non potrai mai ripetersi in tutto e per tutto, rimane il fatto che elementi di quei trascorsi siano destinati a ritornare, ognuno a modo proprio: il fascismo storico non costituisce una parentesi nella continuità della storia d’Italia. Semmai ne è parte. Rivelando, con ciò, di essere una sorta di calco profondo, destinato a ripresentarsi quando il Paese si dovesse trovare in crisi da trasformazione. Economica, sociale e civile. Cosa implica questo riscontro? Non di certo la riproposizione di una dittatura politica, oggi completamente anacronistica, anticaglia di altre epoche. Piuttosto, la consunzione della democrazia sociale e partecipativa, quella che è invece postulata dalla nostra Costituzione. È tale, a conti fatti, quello stato di cose per le quali all’enunciazione del diritto formale e di principio non si accompagna nessuna concreta politica per la sua traduzione in condizioni di fatto. Si parla di eguaglianza e si realizza la diseguaglianza; si enuncia la giustizia e si compie l’ingiustizia. E così via.
  • Il presidente nazionale Anpi, Gianfranco Pagliarulo

    Non basta dire, dinanzi a ciò, che quasi sempre è stato così, nella storia. Quel che è avvenuto non costituisce una premessa obbligata di quel che potrebbe essere. Anche a partire da quest’ultimo elemento, quindi, occorre riformulare il senso comune dell’adesione al partigianato. Non per irrisolta nostalgia bensì per la necessità di “tenere la schiena dritta”. Non è poco, a ben pensarci, laddove ai servi e agli schiavi di turno, ossia di sempre, si contrappongono coloro che, invece, senza nessuna sicumera né, tanto meno garanzia, chiedono di essere se stessi. Continuare a rimanere partigiani, allora, indica anche questo bisogno insopprimibile: di sentirsi pienamente in accordo con la propria etica umanistica, quella che promana da sé, senza che ci sia un qualche regime, non importa di che genere o colore, a definirne contenuti e delimitazioni. Proprio per questo, in fondo, “essere partigiani” è un qualcosa che non si esaurisce con un qualche tempo. Poiché mai e poi mai si sono esaurite le insopprimibile esigenze che si accompagnano alla necessità di scegliere la propria parte, quella del continuare ad essere umani.

    Claudio Vercelli, Università cattolica del Sacro Cuore, Istituto di studi storici Salvemini