Aldo Tortorella è presidente onorario dell’Associazione per il rinnovamento della sinistra, da lui fondata insieme a Giuseppe Chiarante ed altri alla fine degli anni 90, e direttore di Critica marxista. La sua vicenda politica coincide con la storia della sinistra italiana del dopoguerra: aderisce, ancora studente universitario, alla Resistenza; nel dopoguerra lavora come giornalista all’Unità, di cui diventa direttore dal 1970 al 1975; deputato dal 1972 al 1994, ricopre incarichi di responsabilità all’interno della segreteria del Pci, di cui diventa presidente tra il 1990 e il 1991. Oppositore della cosiddetta “svolta della Bolognina”, dopo lo scioglimento del Pci, aderisce al Pds e poi ai Ds. Le sue posizioni critiche lo porteranno a distaccarsi dai Ds nel 1999, in dissenso con la scelta del governo di centro-sinistra di partecipare alle azioni militari contra la Serbia durante la crisi del Kosovo. Con lui discutiamo di riforme costituzionali, di Italia ed Europa, di globalizzazione e nuove prospettive della sinistra democratica.
Ti proporrei di cominciare questa conversazione con il tuo personale ricordo di Pietro Ingrao.
Negli anni in cui se ne iniziò a parlare, non facevo parte del gruppo cosiddetto ingraiano all’interno del Pci; nell’XI congresso del Partito, del 1966, aderivo alle posizioni sostenute da Longo, che era stato il mio capo durante la Resistenza e con il quale avevo un rapporto quasi filiale. Con Ingrao ci siamo trovati assolutamente d’accordo nel momento della “svolta” che ha portato alla scomparsa del Pci. Entrambi respingevamo la denominazione della nostra parte come quella del “No”: in realtà Ingrao sosteneva la necessità di un grande e profondo rinnovamento della sinistra, ma capiva che una certa forma di innovazione avrebbe portato alla rimozione di alcune delle ragioni fondamentali della sinistra stessa, dei suoi presupposti ideali e storici. In quel tempo la mia vicinanza a Ingrao fu grandissima, ma avevo già imparato in precedenza ad apprezzare le sue doti umane, oltre che politiche, quando fu mio direttore all’Unità: ci ritrovammo insieme in quella e in tante altre occasioni.
Qualcuno parla di Ingrao come di uno sconfitto, ma in realtà fu un anticipatore, purtroppo inascoltato, su temi essenziali, dalla democrazia all’interno del Partito al rapporto con i Paesi del cosiddetto socialismo reale, dove espresse apertamente il bisogno pressante di superare un’esperienza da cui, per la verità, il Pci aveva preso le distanze; fino al problema dell’immigrazione, di cui scorse, insieme a Berlinguer, il carattere di dramma epocale, di manifestazione del divario crescente tra Nord e Sud del mondo, da colmare con un profondo mutamento dei rapporti tra Paesi ricchi e Paesi poveri. Se si fosse dato più ascolto a Ingrao, forse la sinistra avrebbe evitato qualche sconfitta.
Parlando di Pietro Ingrao e dell’attualità del suo approccio ai temi della modernità, si parla anche della continuità di scelte esistenziali e politiche che appaiono profondamente segnate dall’esperienza resistenziale. Oggi è diffusa l’opinione che i valori della Resistenza siano appannati, soprattutto tra le giovani generazioni.
Non c’è un appannamento dei valori, bensì di una retorica sulla Resistenza, che ha offuscato proprio la verità e la profondità di quei valori. La Resistenza non è stata soltanto una guerra patriottica, ma una grande lotta per una società più libera, più egualitaria, lotta nella quale si è rispecchiata un’aspirazione al rinnovamento ideale e morale del Paese, diffusa tra i giovani della mia generazione. Erano ideali condivisi da forze di ispirazione politica diversa, che sono sintetizzati efficacemente nelle deliberazioni del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia in cui si affermava la volontà che la nuova Italia si fondasse sulla liquidazione delle radici materiali e ideologiche del fascismo: questa impostazione, pur recepita nella Carta costituzionale, è rimasta poi purtroppo lettera morta in sede di attuazione, con le conseguenze che conosciamo.
A proposito di Costituzione e dei suoi fondamenti, l’Associazione per il rinnovamento della sinistra che tu presiedi si è rivolta ai senatori e ai deputati con una lettera che esprime forti riserve sui contenuti della legge elettorale e della riforma costituzionale in discussione al Senato
Purtroppo l’attuale riforma costituzionale si fonda su principi molto discutibili, e si risolve in una autentica mortificazione della partecipazione democratica. In sostanza, attraverso la riforma costituzionale, si afferma il principio della concentrazione dei poteri di decisione in capo al Governo e, per esso, al Presidente del Consiglio. Anche il superamento del bicameralismo perfetto, di per sé meritevole di considerazione, viene giustificato con argomenti infondati come la presunta lentezza dell’attuale procedimento legislativo, un vero e proprio luogo comune, convincentemente confutato, di recente anche da costituzionalisti di parte moderata.
Il meccanismo introdotto dalla legge elettorale è complementare alla riforma costituzionale, dato che consente al singolo partito (e non più alla coalizione) di pervenire alla maggioranza assoluta in Parlamento, a partire da una base elettorale molto più ristretta. L’esasperazione della logica maggioritaria rende inoltre sempre più aleatori tutti i contrappesi istituzionali, considerato anche che l’elezione dei principali organi di garanzia, a partire dal Presidente della Repubblica , diventa appannaggio della maggioranza parlamentare, poiché non vengono adattate al nuovo assetto parti della Costituzione che sono state concepite nel quadro di un sistema elettorale proporzionale. Per questo aspetto, peraltro, si può affermare che il cosiddetto Italicum esaspera i vizi già presenti, anche se in forma meno accentuata, nei sistemi elettorali maggioritari vigenti in precedenza.
In una certa misura, i motivi ispiratori della riforma attualmente in discussione non sono distanti da quelli della riforma varata dalla destra e bocciata dall’elettorato. È l’effetto di un mutamento del sistema politico, dove ruoli e collocazioni delle varie compagini appaiono affetti da una forte instabilità?
La Costituzione del 1948 è stata fatta pensando non solo a un Parlamento come “specchio del Paese”, eletto quindi con un sistema proporzionale, ma anche all’esistenza di un potente filtro tra istituzioni e popolo quale quello costituito dai partiti politici.
Oggi i partiti non sono stati cancellati del tutto, ma sono scomparsi come organizzazioni di massa, come canali della partecipazione democratica. Con il sistema elettorale maggioritario, si passa fatalmente da un regime di partecipazione popolare ad un regime notabilare; in tutti i Paesi in cui vige il sistema maggioritario, è l’élite economica dominante a garantire la stabilità del sistema politico. Basta guardare agli Stati Uniti (e in misura minore anche alla Gran Bretagna), dove ogni elezione, da quelle parlamentari a quella presidenziale, richiede un massiccio impiego di denaro: la continuità istituzionale è quella garantita dal grande capitale. In Italia si discute una riforma costituzionale che mira a sancire questo stesso principio. Paradossalmente, viene stravolto il significato stesso del termine riforma: non più percorso di cambiamento, anche graduale, della realtà economico-sociale, ma appunto, garanzia della sua intangibilità.
Da questo punto di vista, sembra cambiato poco rispetto a venti anni or sono, quando la destra politica ed economica realizzò un vero e proprio sfondamento …
Questo è stato possibile in assenza di alternative; la crisi della Prima Repubblica ha coinciso in larga misura con la crisi dei partiti, oggetto, in quegli anni, di un generale accanimento. Naturalmente, le critiche non erano infondate e nei partiti c’erano difetti anche molto gravi. Ma una cosa è correggere i difetti, e altra cosa è quello che è avvenuto successivamente. La prima breccia è stata aperta, purtroppo, da una forza di sinistra importante come il Partito socialista, che con la segreteria Craxi ha abbracciato la logica del decisionismo, cioè non tanto una correzione del sistema, ma la sua liquidazione; una vicenda analoga si è realizzata con la metamorfosi del Pci. Una delle conseguenze più gravi di questo processo, segnalata da molte parti del mondo sindacale, è che il lavoro dipendente si è trovato del tutto privo di rappresentanza politica.
Nel 2016 celebriamo il settantesimo della Repubblica. Questa ricorrenza cade in un momento di grandi difficoltà, in Italia e in Europa, dove la rinascita di correnti xenofobe e nazionaliste sembra allontanare il rilancio di un’Unione europea che trovi le proprie fondamenta su principi di democrazia, solidarietà e partecipazione, analoghi a quelli che animarono la Costituzione repubblicana.
Il discorso va preso alla lontana. Le speranze sorte con la sconfitta del fascismo e del nazismo, di una svolta radicale nella situazione mondiale e in particolare dell’Occidente, sono rimaste confinate in dichiarazioni di principio anche molto rilevanti, come la Carta dei diritti dell’uomo approvata dalle Nazioni Unite, ma non si sono tradotte in un mutamento del modello economico e sociale di riferimento, che ha continuato a generare contraddizioni sempre più gravi e a perseguire i propri obiettivi a prezzo di un deterioramento sempre più marcato della qualità dell’ambiente naturale, sociale e umano. Questi temi si ritrovano oggi anche nella riflessione di Papa Francesco, che nel suo recente viaggio negli Usa ha ripreso il tema di una Chiesa attenta soprattutto ai più poveri, mostrando una grande consapevolezza dei rischi che si corrono lasciando mano libera alla logica del profitto e delle responsabilità dell’Occidente cristiano nelle tragedie che la nostra società sta vivendo.
Per venire alla problematiche dell’Unione europea, non si può ignorare il contrasto esistente tra i principi fondamentali della nostra Costituzione e i Trattati europei, nella parte in cui questi ultimi mettono da parte i diritti sociali e del lavoro che costituiscono un caposaldo del nostro ordinamento. Questa latitanza sui grandi temi sociali ed economici è il segno del fatto che la “spinta propulsiva”, venuta meno, a suo tempo, per le grandi rivoluzioni comuniste del XX secolo, si sta esaurendo anche sul versante dell’Occidente, che ripiega su se stesso e punta sulla forza piuttosto che sull’egemonia per la conservazione del proprio predominio mondiale.
Si può parlare, in questo senso, di una dimensione globale dei valori essenziali della Costituzione repubblicana?
A suo tempo, il governo di centro-destra concentrò il suo attacco sulle parti della nostra Costituzione che stabiliscono il primato dell’interesse pubblico sull’interesse privato; dal suo punto di vista, non aveva torto, perché è proprio quest’affermazione di principio che è suscettibile di rendere effettivi i principi di democraticità, solidarietà, eguaglianza stabiliti dalla Carta del 1948. Ancora oggi, è la stessa possibilità di pervenire ad una profonda trasformazione del fondamento privatistico del modello economico e sociale dominante che viene negata (non soltanto in Italia, ovviamente), malgrado i costi sempre più pesanti che il suo mantenimento comporta. Il 70° anniversario della Repubblica, per questo aspetto, non può limitarsi alla celebrazione di una ricorrenza, ma deve essere tradotto in un impegno per la riaffermazione dell’attualità dei principi di democrazia, libertà ed eguaglianza sociale, e per la loro proiezione su scala europea e mondiale superando una dimensione nazionale sempre meno sostenibile a fronte del carattere globale assunto alle principali contraddizioni del nostro tempo.
Pubblicato venerdì 23 Ottobre 2015
Stampato il 13/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/idee/ulisse/tortorella-una-costituzione-ancora-in-gran-parte-inattuata/