In memoria del grande studioso, pubblichiamo un’intervista a Claudio Pavone apparsa su Patria Indipendente dell’inverno 2013. Si tratta di un documento davvero interessante e attuale, dal quale emerge non solo una profonda competenza, ma anche una grande umanità: un uomo libero e laico, che ha profondamente interiorizzato i valori per cui ha combattuto da giovane, ha mantenuto fino in fondo una rara passione civile e assieme osserva le sue stesse esperienze di vita con oggettività e razionalità.
«Signorina, per favore, può spegnere la luce dell’ingresso?».
Claudio Pavone, 93 anni il 30 novembre, è venuto personalmente ad accogliermi alla porta: alto, dritto, seppur aiutato dal bastone, mi ha preceduto nel suo studio. Docente e storico capace di imprimere svolte nell’indagine e nel racconto del passato, partigiano, il prof è ora al lavoro per scrivere un’autobiografia. Gli occhi azzurri brillanti, è lui a farmi un sacco di domande, vuole capire quale può essere l’interesse per la Resistenza nelle nuove generazioni: «Noi partigiani ci siamo, sì, ma ancora per poco. È una constatazione semplicemente realistica».
E così, realisticamente, è importante per noi sapere qual è l’eredità lasciata dalla Resistenza alla società di oggi, secondo chi la lotta di Liberazione dal nazifascismo prima l’ha fatta e poi l’ha studiata.
«In maniera specifica, la Resistenza ci ha lasciato poco; basta guardare come si commemorano stancamente gli anniversari. Tuttavia è fondamentale che il 25 aprile sia una festa pubblica, qualcuno si può incuriosire sul perché della ricorrenza».
Perché la Repubblica è nata dalla Resistenza, no?
«Sì, ed è stato un grande fatto storico. Va ricordato che il 25 luglio 1943 uno dei primi proclami di Badoglio stabiliva che entro sei mesi dalla fine della guerra sarebbero state indette le elezioni per la Camera dei Deputati secondo le leggi di Giolitti. Quindi chi fece il colpo di Stato – benemerito, beninteso – pensava a una restaurazione del prefascismo. Approdare alla Repubblica e a una Costituzione nuova di zecca, anche se poi poco attuata, ha rappresentato un bel passo avanti, maturato nel corso dei venti mesi della lotta di Liberazione nazionale. Grazie alla consapevolezza che indietro non si poteva più tornare: non era ammissibile il ripristino della situazione che il fascismo lo aveva generato. Occorreva qualcosa di nuovo. In questa determinazione pesò sia la lunga compromissione di Vittorio Emanuele con Mussolini, sia il fatto che furono pochissimi i monarchici a fare la Resistenza in nome del Re. I Savoia erano gente piccola e gretta, ma poniamo il caso che il giovane principe Umberto si fosse fatto paracadutare fra i partigiani. Forse la monarchia si sarebbe salvata, non avrebbe lasciato un ricordo così meschino».
La memoria, appunto, la traccia che gli uomini lasciano con il loro esempio e le loro scelte a chi viene dopo, l’eredità trasmessa alle nuove generazioni di cittadini.
«Non molto tempo fa, fui invitato a un incontro con gli studenti che si mostrarono interessatissimi alla storia della Resistenza. Mi colpì, in particolar modo, la riflessione di una ragazza: “Beati voi, vi è stato facile scegliere la strada giusta. Noi, oggi, siamo confusi e smarriti”. Beh, le feci una bella ramanzina perché si trattava, a ben vedere, addirittura di una sorta di nostalgia della guerra. Dover rimpiangere una situazione con milioni di morti per potersi orientare con più nettezza mi pare un assurdo. I giovani devono compiere le proprie scelte in base ai problemi attuali, che non sono pochi, per quanto complessi possano essere».
Senza trascurare il passaggio di testimone rappresentato dai ricordi e dalla tradizione familiare.
«Sì, certo, anche se numericamente sono stati una minoranza gli italiani che hanno partecipato attivamente alla Resistenza. Restano però le tante innovazioni che ne sono scaturite, come il diritto di voto esteso alle donne».
Ma nel panorama desolante in cui prevale e si afferma l’idea della politica come disbrigo di interessi privati, nel clima di corruzione che ha dominato la gestione della cosa pubblica in questi anni, a volte con il profilo di volgare sfacciataggine e in uno scenario di sfrontata impunità, cosa resta della moralità e dell’etica della Resistenza?
«Capisco perfettamente quando qualche partigiano si interroga, e si domanda chi glielo ha fatto fare. Su un tema del genere è facile cadere nella retorica, ma quel che conta di più è proprio il concetto che bisogna impegnarsi in politica per il bene di tutti. Per la mia generazione è stato un cavallo di battaglia indicare cosa era successo a non occuparsi di politica. Se gli italiani fossero stati più attenti non ci sarebbero stati tutti i morti causati dal fascismo e dalla seconda guerra mondiale. I guai di cui oggi soffre il nostro Paese, e che contraddicono i grandi ideali di democrazia della Resistenza, derivano da fatti accaduti dopo. Berlusconi non è frutto del fallimento degli ideali della Resistenza. Purtroppo l’Italia, fin dal Risorgimento, non è mai riuscita ad avere nel suo corpo sociale una maggioranza compatta di carattere democratico. E infatti abbiamo inventato il fascismo, questo non va mai dimenticato. La Resistenza non ha fallito: questa idea l’ho sempre combattuta. Forse il suo progetto è rimasto incompiuto, forse proprio negli obiettivi più alti che si era data, ma non si è trattato di un fallimento. Affermarlo è una vera stupidaggine.
Ricordo cosa significava vivere nel fascismo, più ancora che essere fascisti in senso proprio e con le varie gradazioni. Ed è stato così da molto prima, fin dai tempi dei Borboni o degli austriaci in Lombardia».
Già, ecco il tema spinoso del consenso al regime.
«La repressione e la galera non bastano a spiegare un regime che dura vent’anni. Su qualcosa deve aver fatto presa, deve averci azzeccato nel presentarsi alla gente. C’era tanto opportunismo. Per tutti gli altri il governo era quello, e amen. Il conformismo di chi si adegua all’esistente e non vuole rogne. In seguito la guerra ha cambiato le cose. Un conto era mandare i propri figli ai raduni di balilla e avanguardisti, un altro vederli andare al fronte e poi cominciare a morire. Fu una dura lezione di realismo. L’8 settembre non tutto il popolo insorse contro i tedeschi, così come furono una minoranza coloro che aderirono con convinzione alla Repubblica sociale. La gente magari non mosse un dito, non andò in montagna, non stampò volantini, però stava ad aspettare l’arrivo degli Alleati. La grande maggioranza aveva capito come andava a finire: a parte qualche fascista fanatico, accecato, o ormai incastrato nella catena degli eventi, a cominciare da Mussolini stesso, tutti sapevano che la guerra era perduta. È un dato che emerge anche in uno dei libri scritti da Carlo Mazzantini, evidenziato già nel sottotitolo: Non volevamo perdere. C’era insomma il senso di onore per la patria in guerra, e va in qualche modo riconosciuto. Faccio un paragone forse un po’ eccessivo, ma che serve a rendere l’idea: per alcuni fu come se i cattolici dicessero che Cristo non è il figlio di Dio. Un bello choc. Credo che alcune pubblicazioni di memorie degli ex repubblichini siano state un passo avanti per la conoscenza della storia d’Italia. Alcuni fascisti erano violenti, altri erano delinquenti, molti erano conformisti e attendevano gli angloamericani. Alcuni altri però erano convinti e c’era chi addirittura credeva alla balla delle armi segrete di Hitler. Davvero, anche a Milano, dove mi trovavo, giravano queste voci. Fino alle ultime settimane prima della Liberazione, e qualcuno le pigliava sul serio».
La personale parentesi biografica di resistente del Professor Pavone ce la siamo fatta anticipare rispetto all’uscita del libro a cui sta lavorando, che prenderà avvio dall’infanzia nel Cilento, a Torchiano, vicino ad Agropoli, in una famiglia con dei buoni precedenti. Suo nonno partecipò ai moti del 1848 e sopportò per questo dieci anni nelle galere borboniche e l’esilio in Inghilterra. Rientrato in Italia fu magistrato e concluse la carriera a Roma.
«Qui sono nato e vissuto fin quando non sono partito militare, per fortuna non al fronte. Poi morì mio padre. Ed ero in città, in licenza per lutto, quando arrivò il 25 luglio».
Il giovane Pavone entra in contatto con il Partito socialista, distribuisce ciclostilati clandestini.
«Ero aiutante di Eugenio Colorni, poi ucciso dai fascisti alla vigilia della Liberazione della Capitale. Era un uomo eccezionale, al quale devo molto. Con noi c’era anche un mio compagno del liceo, Giuseppe Lo Presti, Medaglia d’Oro della Resistenza. Giuliano Vassalli ricordava sempre che quando lo arrestarono era sicuro che non avrebbe parlato, c’era da fidarsi. Infatti non parlò, fu torturato a via Tasso e trucidato alle Fosse Ardeatine».
Per chi ha vissuto in prima persona gli eventi che racconta, il passo tra storia e vita è molto breve e, a differenza del testo scritto, nel corso della nostra chiacchierata i piani tendono a sovrapporsi. Dalla rievocazione del fatto personale, in un istante, all’analisi dello storico di professione.
«A proposito di memoria, un po’ di striscio, la vicenda del mio amico aiuta a comprendere le cose. Un giorno gli hanno intitolato una strada, in un quartiere sperduto dopo l’Eur, tutto di militari. Con Graziella, la sua fidanzata di allora che aveva collaborato con noi nella clandestinità, andammo a vedere di persona. Sulla targa c’era scritto ‘Via Giuseppe Lo Presti, tenente di artiglieria’. Era vero, da militare aveva fatto il tenente, ma Graziella ebbe un accesso d’ira perché Giuseppe non fu ammazzato come tenente ma come antifascista e socialista. Ecco, si erano appropriati della sua memoria. Un modo di assorbire la Resistenza, depotenziandola. E così avvenne nelle cerimonie per i tanti anniversari, quando cominciarono a esserci il prefetto, il vescovo e via dicendo. La Resistenza diventava ordinaria amministrazione».
Arrestato a Roma il 22 ottobre 1943, Claudio Pavone rimase a Regina Coeli fino a Natale e poi venne trasferito nel carcere di Castelfranco Emilia.
«Era una vecchia fortezza papalina dove rimasi prigioniero fino all’agosto ’44. In tanti provenivamo da Roma, dal Lazio, dall’Abruzzo e ricordo che quando subimmo un interrogatorio il primo che riuscì a comunicare con gli altri ci informò che i nazifascisti non sapevano nulla e potevamo raccontare quello che volevamo. Dopo la Liberazione della Capitale e il gran disordine che ne era seguito non avevano documentazione sulle catture e le singole responsabilità. Inventai sull’istante che ero stato rastrellato sul tram 8 che passava da piazza Bologna. Mi mandarono a Milano con un salvacondotto di quattro giorni per presentarmi all’arruolamento nell’esercito della RSI, altrimenti sarei stato considerato disertore».
E, sul portone del carcere, Claudio Pavone dovette scegliere per la seconda volta.
«Ancora oggi mi chiedo se ho fatto la scelta giusta: tornare a Roma non aveva senso naturalmente, il fronte era vicinissimo. Avevano già liberato Firenze, Bologna, era il periodo delle stragi, sull’Appennino, a Marzabotto, a ridosso del fronte, con i tedeschi disturbati nelle retrovie. Mi trovavo nel modenese, a un passo».
Andare a Milano, dove viveva un fratello del padre, o salire in montagna a cercare i partigiani, questo fu il dubbio. Da risolvere subito.
«Decisi per Milano. Mio zio poteva aiutarmi, ognuno aveva i suoi santi protettori, alcuni avevano poca voce in capitolo, altri… Era un privilegio di classe, sia chiaro».
Lo zio Cesare Pavone era un ingegnere e piccolo imprenditore sessantenne, persona molto influente, che faceva parte della rete attiva nell’aiutare gli ebrei a fuggire in Svizzera.
«A tal proposito, non capire dell’esistenza di persone come mio zio, ecco, è stato un grande errore di Renzo De Felice, che pure ha detto delle cose giuste. Un uomo di sessant’anni poteva andare in montagna? Zio Cesare salvò anche Gustavo Colonnetti, primo presidente del Cnr dopo la Liberazione di Roma. Anni dopo lo incontrai e quando capì che ero il nipote dell’ingegner Pavone mi abbracciò, dicendomi che Cesare aveva salvato tutta la sua famiglia. Tornando ai miei primi tempi a Milano, mio zio mi procurò documenti falsi e abiti perché i miei erano a brandelli. Sembra incredibile ma anche in un carcere, dove hai solo un’ora d’aria e non fai nulla tutto il giorno, i vestiti si lacerano. Rimasi per un po’ isolato, vagavo per la città, non si può capire se non si è vissuta l’occupazione. Poi incontrai amici di Roma coi quali avevamo covato un antifascismo non organizzato e mi unii a loro. Facevano parte di uno dei tanti gruppetti minori attivi che poi in parte si sono sciolti, in parte confluirono nei partiti più grandi. È una parte di storia che andrebbe approfondita. Il nostro era il Partito italiano del Lavoro, con base in Romagna. Facevamo azioni di città, con un piccolo gruppo di operai di Sesto San Giovanni, stampavamo un giornale, distribuivamo manifestini in giro. Non ho mai sparato un colpo, per questo a volte penso di non essere meritevole di far parte dell’ANPI».
A quel punto chiedo al prof cosa pensa dell’ultimo libro di Gianni Oliva, L’Italia del silenzio, 8 settembre 1943, dove si sostiene che la “vulgata” della Resistenza è stata “pettinata” per ragioni di politica interna e internazionale, mitizzando troppo il bel partigiano e l’Italia in armi.
«Non l’ho ancora letto. Però la retorica c’è stata, e un po’ di gonfiamento. Una cosa è se nei giornali del 26 aprile, a Milano, si scriveva “L’Italia insorge”, altro è dire che tutti gli italiani sono insorti. C’è voluto tempo per vedere cosa è davvero successo. La retorica del coraggio e dell’eroe comunque non hanno giovato. Spesso la sorte dei resistenti fu anche frutto della fortuna o del caso. Una volta, a Castelfranco, vennero a prelevare venti persone tra noi prigionieri politici per fucilarle. Eravamo 25, io rimasi fra i 5. Potevo finire tra gli altri e magari ora avere una medaglia d’oro alla memoria».
E il 25 aprile fu o no un bel giorno?
«Eccome! Al di là delle cose scritte da disgraziati tipo Pansa, personalmente ho un ricordo di vera liberazione, di gioia: il bagno all’Idroscalo, poi tutta la notte all’osteria. Ci sarà pure stato qualcuno che ha voluto regolare le faccende personali, ma è davvero una sciocchezza parlare di terrore».
Chissà se ci sono filoni della storia ancora del tutto inesplorati.
«Innanzitutto, credo che De Felice da sinistra sia stato trattato troppo male. L’ho conosciuto quando era iscritto al Pci e mi bacchettava perché non mi iscrivevo al partito, sono stato sempre un indipendente di sinistra. Va rivalutato, e in parte lo è stato; poi Emilio Gentile, suo allievo, è un bravo storico. Penso che la storia va avanti e, per esempio, andrebbe avviata una ricerca per sapere cosa fecero i partigiani nel dopoguerra, nella vita, soprattutto i giovani, le persone comuni. I giornalisti, i politici, i dirigenti sindacali, quanti hanno avuto una vita pubblica, sono una piccola minoranza. I partigiani sono stati almeno 220mila, più quelli che non hanno impugnato armi. Ho fatto parte del direttivo dell’Istituto nazionale storico della Resistenza, fondato da Parri, e proposi lo studio molti anni fa, ma lo considerarono troppo difficile perché molti partigiani e patrioti non chiesero il riconoscimento, di altri si conosceva solo il nome di battaglia. Credo ancora che questa ricerca andrebbe fatta, prima che sia troppo tardi. Già adesso è più difficile, ma ci sono i figli e potrebbero essere un canale. Magari scopriremmo che sono stati più onesti nel lavoro. Per ora possiamo solo immaginarlo, ma non abbiamo certezze. E non c’è da aver paura se si scoprono falsi partigiani. Va detto, infatti, che il riconoscimento dell’attività partigiana diede vantaggi nei concorsi statali e anche nelle aziende private, tenute ad assorbire persone che avevano le qualifiche previste dalla legge. Anch’io feci un concorso riservato ai reduci, pur non avendo mai sparato un colpo. Chiesero il riconoscimento soprattutto i giovani e chi cercava lavoro. Al mio anziano zio non venne neppure in mente di farlo. Di sicuro alcuni figurano indebitamente, le liste furono molto inflazionate. È difficile misurare l’onestà ma, supponiamo che la media italiana dei ladri sia 4, si potrebbe sapere se tra i partigiani è minore. Chissà? Ho molto a cuore un’espressione nata in Francia: la Resistenza civile, cioè di coloro che non hanno impugnato le armi o partecipato a organizzazioni politiche. In Italia è stata un’espressione usata un po’ troppo vagamente. È molto difficile stabilire con esattezza quanti furono. C’erano i contadini, per esempio, che nascondevano i partigiani per dieci giorni e poi li mandavano via perché in paese si spargeva la voce. In che categoria li inserisci? Oppure, chi distribuiva i giornali clandestini e se veniva acchiappato, come accadde a me, moriva, e a me andò bene. Furono un numero di gran lunga maggiore rispetto ai resistenti in armi, ma pur sempre una minoranza».
E la storia dal punto di vista dei saloini, può fornire altri spunti?
«Beh, a volte è stato considerato un sacrilegio, però come esistono le lettere dei condannati a morte della Resistenza, esistono le lettere dei caduti fascisti, e non sono tutte indegne. Una volta, a Verona, un capo partigiano mi raccontò un episodio. Era convinto di aver ucciso un fascista poi, come d’abitudine, necessitando dei vestiti, lo aveva spogliato. Nel portafoglio trovò una lettera non spedita alla fidanzata, in cui scriveva: “Domani avremo sicuramente un combattimento, anche se devo morire per l’Italia non mi dispiace”. Una lettera molto nobile. “Avrei potuto scriverla io, pensai allora”, mi disse quel partigiano. In questo senso bisogna essere spregiudicati, non nell’equiparare le due parti come nel libro Partigia di Sergio Luzzatto. È un testo che sta proprio al confine con l’equivoco, in molti casi. Nelle lettere private davvero partigiani e fascisti possono essere uguali, perché no? Si deduce che i casi personali sono anzi una delle tragedie, in particolare delle guerre civili, e che persone spesso in buona fede vengono incanalate. Bisogna trovare le differenze non nei sentimenti ma nei legami ideali. Quelli meritano un’indagine particolare, per cui alcuni sono proprio aguzzini e si capisce anche quando scrivono alla fidanzata. E non va confuso il giudizio sui singoli col giudizio generale. Anche i combattenti del Piave: tutti eroi. Ma non è vero. C’era un libro bellissimo di padre Agostino Gemelli, allora cappellano militare, poi ha fatto carriera ed è stato uno dei peggiori ecclesiastici, rettore della Cattolica, fascistone. Però il suo libro è la cosa più seria che abbia letto sul Piave, scriveva che gli eroi sono pochi e i soldati non combattono da eroi ma come rassegnati, e non li possiamo biasimare per questo. Un libro coraggioso, scritto nel 1916, a guerra ancora in corso. Certo, da prete lui se lo poteva permettere, se lo avesse affermato qualcun altro lo avrebbero fucilato. Comunque nella memoria collettiva di un popolo è una cosa importante avere un elemento come la Resistenza, anche se non tutti ne coltivano la memoria, o addirittura molti non ne sanno nulla, anche con tutte le polemiche, anche con i detrattori. L’importante è che se ne parli realisticamente. Come per il Risorgimento: abbiamo scoperto che fu in alcuni casi odioso. A Torino ci sono i fascicoli dei mille, che poi sono molti di più. Sa quanti si imbucarono per avere la pensione? Ci sono difficoltà a fare distinzioni soprattutto nelle guerre civili, è impossibile fare una cosa santa e giusta. In Spagna chiesi come avevano fatto loro. E uno storico mi parlò di suo padre che cominciò la guerra civile dalla parte repubblicana, perché era militare; poi fu preso dai franchisti e venne rieducato – questo accade solo nelle guerre civili, perché un austriaco non lo puoi mica rieducare – poi fu nuovamente fatto prigioniero e nuovamente rieducato. Un caso del genere dove lo collochi, dove lo conteggi, e quante volte, tre? Quando un regime dura molti anni, ci sono tanti di quei compromessi… Per cui, oggi, in qualche modo, trovo che anche l’amnistia di Togliatti, contro la quale tutti i bravi giovani allora si scagliarono aspramente, qualche motivo lo aveva. Fu frettolosa e troppo estesa, questo sì, continuo a pensarlo. Si poteva aspettare due anni e non farla così ampia. Mi ricordo la frase terribile “coloro che hanno compiuto sevizie particolarmente efferate sono esclusi dall’amnistia”. Sevizie particolarmente efferate: cioè, non bastava strappare un occhio bisognava averli cavati tutti e due. E poi per la violenza sulle donne è colpa della magistratura che ha assolto tantissimi fascisti con la motivazione – sono sentenze della Cassazione – che si trattava di un’offesa al pudore, non di un reato politico. In Francia si erano misurati col problema Vichy, come in Norvegia e nei Paesi con governi collaborazionisti. Dopo ne ho compreso la necessità, ma certo non andava fatta così: come succede in Italia, le cose si fanno male ed esagerando. E quell’amnistia ha nuociuto tanto al Pci».
Ci salutiamo. Il prof mi accompagna alla porta. Sempre impettito, nonostante la lunga conversazione. L’ho immaginato tornare nel suo studio e, passando, spegnere la luce all’ingresso.
Forse in memoria dei sacrifici imposti agli italiani dal fascismo e dalla guerra.
da PATRIA INDIPENDENTE n. 10-11 del novembre/dicembre 2013
Pubblicato venerdì 2 Dicembre 2016
Stampato il 11/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/interviste/claudio-pavone-partigiano-docente-e-studioso-la-sua-voce/