Recentemente Marcello Flores (direttore scientifico degli Istituti per la Storia della Resistenza) ha ribadito in un’intervista al Corriere della Sera che per riscrivere la storia della Resistenza servono prove. Il suo intervento nasce a commento di un’altra intervista, quella rilasciata da Pansa in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, che si è ispirato a fatti reali, però manipolati o esasperati dall’autore. Al proposito, infatti, Flores dichiara che quello di Pansa “È un libro disonesto dal punto di vista storico, non vengono indicate le fonti. Pansa stesso scrive che ‘molti passaggi sono ideati da me’. Questo lo rende molto più simile a un romanzo”. [1] Si potrebbero fare molti altri esempi, ma il discorso è chiaro: in Italia il problema della negazione dei fatti storici esiste. Un recente testo, “Biografia non autorizzata della Seconda guerra mondiale”, propone una drastica revisione di una serie di eventi storici; l’autore (esperto di “controinformazione”) mette insieme testi scientifici con pubblicistica dallo scarso o nullo valore scientifico, conferendo lo stesso peso a tutto ciò che cita, utilizzando le note per dare un’aura di scientificità al testo e sostenere l’esistenza di una storia dei “libri di testo” e allo stesso tempo di una verità nascosta.
In questo modo, attraverso una sorta di “cherry picking” delle fonti, distorce l’informazione che la letteratura utilizzata gli fornisce (forse consiste in questo la sua esperienza nel campo della controinformazione), nascondendo le conclusioni a cui i testi scientifici che pure cita giungono. [2]
Spesso di questi tempi si sente dire che non vi fu quasi resistenza in Italia contro l’occupazione tedesca e che si tratta perlopiù di un mito di fondazione dello Stato repubblicano. Una polemica famosa basata su affermazioni false che non hanno mai cessato di circolare è quella relativa ai gappisti romani che compirono l’attentato di via Rasella il 23 marzo 1944. In questo caso fu il giornalista televisivo Bruno Vespa ad accusare Rosario Bentivegna di non essersi consegnato ai tedeschi per impedire la rappresaglia: in realtà l’ordine di uccidere dei civili fu dato immediatamente dopo l’attentato e gli stessi gappisti ne vennero a conoscenza solo dopo l’esecuzione. Lo storico e americanista Alessandro Portelli ha scritto sul tema un testo dal titolo emblematico: L’ordine è già stato eseguito. [3] Non solo la manipolazione dei fatti ma la loro stessa negazione e la costruzione di un’altra “Storia” che alterna ai fatti le menzogne deve preoccupare gli storici ma anche la società tutta.
Altro argomento su cui si distorce la verità fattuale è il mito del tradimento italiano e della Regia Marina l’8 settembre. La questione è particolarmente odiosa poiché vengono ripresi tutti i cliché della propaganda tedesca e le argomentazioni dello stesso Mussolini. L’accusa venne portata avanti da determinati ambienti, sempre di estrazione neofascista.
In un articolo recente su Patria ho a mia volta denunciato la parzialità di alcuni storici, a cui si aggiungono oggi gli pseudostorici, gli appassionati e i dilettanti che, con una formazione improvvisata e basandosi su conoscenze approssimative, in alcuni casi operano a favore della negazione della realtà. In un’intervista al quotidiano online La Provincia Pavese, il bancario e dottore in legge Enrico Cernuschi, autore di un libro sulla guerra navale durante il secondo conflitto mondiale, ha per esempio sostenuto che il ruolo di Ultra (il sistema per decifrare Enigma, ovvero la macchina elettromeccanica per trasmettere i messaggi in codice usata dai tedeschi) “non fu determinante” e che anzi, a suo dire, in fondo la guerra “dei codici” fu vinta dagli italiani. In particolare un’affermazione di Cernuschi circa le sue ricerche merita di essere citata per esteso: “Tra l’altro ero accompagnato da due notai, a garanzia delle carte esaminate e quindi della qualità del lavoro”. [4] Risulta davvero difficile credere che, ai giorni nostri, per fare un buon lavoro storico ci si debba fare assistere da notai, come in una compravendita immobiliare. Piuttosto, in questo caso come in altri, ciò che conta non è soffermarsi sulla discussione di una tesi, quanto tornare ai fatti: la guerra, che piaccia o no, fu persa dalla Regia Marina Italiana. Purtroppo esempi di questo modo d’intendere la Storia sono sempre più frequenti. Sul tema della Regia Marina è recentemente uscito un saggio, “Fascisti sul mare”, di Fabio De Ninno, che propone una tesi convincente, quanto scomoda: quella del coinvolgimento dei vertici militari nel fascismo. Ne parliamo con l’autore, non soltanto per via dell’importanza del suo lavoro, ma anche come occasione per ritornare su temi più generali riguardanti il fascismo e la società italiana.
Fabio De Ninno è assegnista di ricerca e professore a contratto di storia della storiografia presso il dipartimento di scienze storiche e dei beni culturali dell’Università di Siena. Si occupa prevalentemente di storia navale e militare, attualmente lavora anche a un progetto sulle vittime civili della Seconda guerra mondiale e alla compilazione della bibliografia italiana di storia militare nell’ambito del Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari. Tra i suoi lavori ricordiamo, I sommergibili del fascismo (2014), la collaborazione alla realizzazione del Dizionario storico della Prima guerra mondiale (2014) e Fascisti sul mare, La marina e gli ammiragli di Mussolini (2017) e di imminente uscita la biografia del padre della storia militare italiana Piero Pieri. Il pensiero e lo storico militare (2018)
Il tuo libro “Fascisti sul mare” ha una tesi che si distanzia dall’ortodossia storiografica sulla Marina Militare; vorresti spiegare qual è la novità rispetto al passato?
L’ortodossia storiografica, se di ortodossia si può parlare, quella che risaliva alle generazioni di studiosi cresciuti negli anni della prima Repubblica, aveva sostenuto che la Marina avesse pagato le conseguenze della politica militare del regime a causa del distacco che c’era tra il vertice dell’istituzione e il fascismo.
La mia ricerca è partita da un presupposto differente, ovvero in senso clausewitziano, che la politica è la “continuazione della guerra con altri mezzi” e quindi le istituzioni militari, anche la Marina dovevano riflettere in qualche modo la penetrazione del fascismo nella società italiana. Una capacità di penetrazione e controllo che la ricerca storica aveva rivisto a partire dagli anni Ottanta, evidenziando maggiormente i successi (e ribadendo i limiti) del regime nel conquistare e plasmare la società italiana.
In tal senso l’interazione tra le élite tradizionali dello stato liberale e il fascismo fu fondamentale per forgiare “compromessi”, aprire o limitare le porte delle istituzioni al regime. Il recente volume di Melis sulla “macchina imperfetta” dice molto a riguardo.
Gli ammiragli, i protagonisti del libro, che interagirono con il fascismo erano uomini di grande cultura e competenza, ma cresciuti con un preciso modello educativo e culturale che esaltava la grandezza della patria e le funzioni autoritarie del comando. Un modello che condividevano con i loro omologhi stranieri, in particolare tedeschi, francesi e giapponesi.
Nel primo dopoguerra, questa élite, ponendo al centro della sua azione il ruolo della Marina come chiave di volta della politica estera, si trovò “spaesata” dalle difficoltà interne ed esterne che il Paese attraversò. Il fascismo apparve allora come una risposta alla crisi dell’Italia liberale, motivo per il quale il vertice dell’istituzione (come quello dell’esercito) appoggiò la marcia su Roma.
Da allora ciascuna delle fasi di evoluzione del fascismo, secondo i grandi spartiacque che ne caratterizzarono la storia (1925, 1929, 1933, 1936 e 1940) segnò il passo dello sviluppo della marina come interazione regime-istituzione, con il primo che finì conquistare un proprio spazio capace di determinare sempre più lo sviluppo della politica navale. A differenza del passato però nella mia interpretazione è centrale la connivenza che il gruppo dirigente della Marina dimostrò, con tempi e modi diversi a seconda dei personaggi, nei confronti del regime. La crescita della flotta negli anni Venti e primi anni Trenta, che fece della Regia marina una forza navale di primo piano negli equilibri geopolitico europei (e forse mondiali), creò molti consensi nel vertice navale, che sembrò vedere realizzate le proprie aspettative. Questo conferì a Mussolini la capacità di proporsi come interlocutore politico unico, scalzando anche il sovrano, nei confronti degli ammiragli, conferendogli al tempo stesso però la legittimità per influire a sua volta sulle scelte istituzionali.
Se non si capisce l’interazione fascismo-marina secondo le fasi di penetrazione del regime nell’istituzione, che io definisco alleanza (1922-1925), compromesso (1925-1933) e subordinazione (1933 -), non a caso coincidenti appunto con gli spartiacque della storia del regime, non si può capire come mai furono gettate le basi del disastro (parte di quello più complessivo del Paese) nel 1940-43.
Questa tesi com’è stata ricevuta dagli “specialisti” di Storia Navale e negli ambienti della Marina?
Il titolo, forse un po’ provocatorio, ha suscitato qualche perplessità, ma andando oltre la quarta di copertina, gli storici navali (e non) italiani e stranieri che lo hanno letto espresso elogi per la qualità della tesi e della ricerca. Lo stesso vale per molti membri della Marina con cui ho parlato, pur non concordando con alcuni giudizi, hanno riconosciuto il valore del volume e del lavoro che c’è dietro.
Alcuni pubblicisti, i cui lavori sono caratterizzati da una visione apologetica della storia della navale italiana, hanno espresso critiche feroci, basate prevalentemente su attacchi personali, seguendo la tecnica retorica dell’“avvelenamento dei pozzi” e inconsistenti sul profilo scientifico.
A tuo giudizio vi sono altri importanti istituzioni dello Stato italiano che caddero nella stessa tentazione della Marina? In pratica: pensi che quella condivisione di obiettivi possa esserci stata tra altre istituzioni dello Stato e il fascismo?
Una cosa che mette in evidenza il libro, e che la ricerca storica aveva già sottolineato, è che il radicalismo nazionale presente in una parte delle élite liberali ebbe una importanza decisiva nel fornire credibilità alle pretese imperiali del regime. Da questo punto di vista la Marina e il ministero degli Esteri possono offrire interessanti parallelismi sul rapporto istituzioni-fascismo, ma credo che su questo tema si possa ancora ricercare molto. Un collega sta lavorando ad una ricerca sul ruolo degli addetti militari italiani e dai primi risultati si evidenzia una progressiva conformazione alla visione “ideologica” della politica estera mussoliniana nelle loro valutazioni, che pure avrebbero dovuto essere “tecniche”. Sui motivi di questa conformazione c’è molto da interrogarsi, se fosse consenso, conformismo o adattamento, ma si tratta di un filone di ricerca che offre ampi spazi di approfondimento.
Secondo te, oggi si può fare Storia del ventennio senza cadere nelle rispettive retoriche pro e antifascista? Se sì, quali sono i maggiori ostacoli per chi fa ricerca?
La ricerca storica ha fatto molti progressi in settanta anni dalla caduta del regime. Le generazioni di studiosi che si sono susseguite hanno maturato un progressivo distacco che si riflette anche nella qualità delle loro analisi. A mio avviso, più che il problema della qualità della ricerca, oggi è rilevante quello della diffusione della stessa, gli studi storici in molti casi (non tutti si badi) si confinano in una dimensione accademica.
Un amico e collega, mi disse qualche tempo fa che era stanco del fatto che la memoria storica in questo Paese fosse determinata da pubblicisti e giornalisti, sottintendendo che questo impoverisce la stessa a causa delle minori competenze. Secondo me, il problema è rilevante, oltre a fare ricerca, per gli storici diventerà sempre più importante anche diffondere la conoscenza che producono fuori dell’ambito accademico, questo è il vero ostacolo che affrontiamo oggi e che sarà quello a cui dovremo rispondere in futuro.
Sei molto attivo sui social, quale pensi sia il grado di conoscenza dell’utente medio interessato alle forze armate italiane durante l’ultimo conflitto mondiale e in particolare del fascismo?
Naturalmente si tratta di un’impressione, non posso fornire una valutazione obiettiva scientificamente di questo fenomeno, non avendo condotto una ricerca a riguardo.
La mia personale opinione è che nel grande pubblico italiano persistano una serie di miti che la storiografia ha da tempo smentito. Se posso fare un breve elenco di alcuni “peggiori”, mi si passi il termine, in ordine sparso e riguardanti la storia militare della Seconda guerra mondiale italiana:
- “Mancò la fortuna non il valore”, ovvero che la sconfitta dell’Italia sia stata dettata unicamente da condizioni materiali.
- Mussolini che fu “trascinato” in guerra dalle circostanze, quando il regime stesso intendeva la guerra come banco di prova della società italiana e il conflitto per la creazione di uno spazio vitale nel Mediterraneo un passo decisivo per la realizzazione dei suoi progetti politici.
- “L’invincibile Wehrmacht” che è stata sconfitta dalla soverchiante superiorità numerica nemica mentre i suoi leader erano i migliori strateghi del mondo, mentre è da decenni che sappiamo che si trattava di una macchina militare viziata da alcuni problemi di fondo, tra cui una scarsa cognizione proprio del piano strategico del conflitto.
- Il “tradimento” della Marina. Nonostante siano passati decenni da quando questa tesi, prodotto degli ambienti dell’estrema destra del dopoguerra, è stata demolita, prima dalla memorialistica e poi dalla ricerca accademica (si pensi al volume di Santoni su Ultra), i volumi del suo principale propugnatore, Antonio Trizzino, continuano a godere di una straordinaria popolarità.
Potremmo aggiungerne molti altri, ma mi fermo per brevità. In ogni caso, la persistenza di tali “miti” è collegata anche alla bassa qualità della pubblicistica divulgativa che spesso si trova sugli scaffali delle librerie.
Molti “storici” senza formazione accademica arrivano a pretendere che la guerra dalla parte dell’Asse potesse esser vinta. Qualcuno crede in queste tesi?
Molto spesso queste analisi partono da presupposti anche ingenui. Ad esempio, se Hitler si fosse concentrato nel Mediterraneo anziché andare ad etc… etc…che non tengono in considerazione che certe scelte hanno delle cause politiche di fondo non aggirabili: Hitler invase l’Unione Sovietica perché era una necessità storica per il suo regime: non era una scelta possibile, era l’unica scelta possibile. In molti altri casi, queste speculazioni sono dettate da una scarsa conoscenza della complessità del conflitto… esempio: nel 1940 la Gran Bretagna sarebbe potuta essere stata invasa se la RAF fosse stata battuta, non considerando che il dominio del mare britannico e la scarsa capacità anfibio-logistica dell’esercito tedesco avrebbero reso impossibile questa operazione. A questo punto però verrebbe da chiedersi, ma allora l’esito era scontato? A mio avviso nessun esito è scontato.
Richard Overy, uno dei più importanti storici viventi, mette in evidenza nei suoi volumi che la vittoria degli Alleati nel 1942 era tutt’altro che scontata. Questo non significa che l’Asse avrebbe potuto vincere, almeno secondo me, ma che gli alleati avrebbero potuto perdere, se avessero compiuto delle scelte sbagliate.
La coalizione del Tripartito invece era viziata da alcuni limiti di fondo, il primo era che non aveva un obiettivo strategico comune: la Germania guardava alla conquista dell’Europa orientale; l’Italia fascista al Mediterraneo; il Giappone al dominio dell’Asia-Pacifico. Ciascuno dei tre regimi era fortemente nazionalista e incapace sia di cooperare adeguatamente con gli altri due, sia di controllare i territori conquistati in maniera efficiente, concependo innanzitutto la propria presenza in senso razzialmente gerarchico e legittimando lo sfruttamento schiavistico delle popolazioni soggette che era per sua natura poco efficiente. Nel fronte interno poi le dinamiche di conflittualità policratica che caratterizzavano i tre Paesi (pure con le loro particolarità) impedirono una piena mobilitazione delle risorse a disposizione e il caso dell’Italia fascista forse è quello più emblematico da questo punto di vista. Ancora una volta perciò se non consideriamo la relazione politica-società-guerra non possiamo capire la complessità del conflitto e delle scelte e delle opzioni dei contendenti.
Rispetto alla storia del fascismo, cosa pensi possa essere fatto per migliorarne la conoscenza, credi che il momento attuale sia pericoloso?
Penso che in un momento di crisi come quello che attraversiamo si avverta un forte senso di smarrimento e la seduzione dell’autoritarismo – parafrasando il titolo di un volume di Angelo Ventrone, (ndr, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Donzelli editore, 2003) – si stia facendo largo in un pezzo della società italiana, che cerca una risposta forte e a tratti anche violenta contro le difficoltà che attraversa. Più che il rischio della ricomparsa del fascismo temo che ci sia una strumentalizzazione della memoria dello stesso per giustificare questa seduzione.
Recentemente un Comune lombardo ha stanziato 3.000 euro per supportare una rievocazione storica di un campo della Wehrmacht. Ormai i crimini dell’esercito tedesco e la sua diretta associazione al nazionalsocialismo sono noti, mi chiedo perciò cosa vogliano dimostrare gli amministratori locali supportando queste iniziative. Le possibili risposte mi sembrano due: o sono nazisti, oppure non hanno una idea chiara di cosa fosse l’esercito tedesco nella Seconda guerra mondiale. Spero che sia la seconda, perché mi sembra più rispondente all’immagine del fascismo presente in un pezzo della società italiana, quella di un regime “morbido” ed edulcorato che produceva progresso sociale e materiale. Fatti che in realtà sono smentiti dalla storia stessa del regime, che negli anni Trenta contribuì a deprimere le condizioni di vita del paese per supportare un militarismo che alla fine portò ad una guerra che devastò l’Italia e causò un numero di vittime che ancora oggi non sappiamo quantificare precisamente.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Nell’ambito navale sto iniziando a studiare la Marina della Guerra fredda e ho iniziato uno studio sulla costruzione del mito del tradimento della Marina frutto del lavoro di Antonio Trizzino. Resta il grande sogno di scrivere una storia complessiva della Regia marina sullo sfondo, ma occorre tempo e stabilità per riuscirci.
Infine, in collaborazione con il supporto dell’Associazione nazionale vittime civili di guerra sto per far uscire un volume in cui si analizza per la prima volta complessivamente il problema delle vittime civili italiane nel secondo conflitto mondiale.
Davide Franco Jabes, PhD in Storia alla The University of York (UK), ha lavorato a numerosi progetti come consulente e ricercatore di Storia Moderna e Contemporanea per l’Università di Siena e molti altri Istituti di ricerca e case editrici (Rizzoli, Bompiani, Guanda)
[1] https://www.corriere.it/cronache/18_febbraio_23/flores-storia-resistenza-pansa-618aa13e-180f-11e8-b6ca29cefbb5fc31.shtml (visto il 23 – 05 – 2018).
[2] L’autore ha ripreso quasi per intero una parte di un post di Fabio De Ninno.
[3] Su questo tema si veda: https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2008/08/31/introduzione-di-sergio-luzzatto-a-via-rasella-la-storia-mistificata-di-rosario-bentivegna/ (visto il 5 – 10 – 2018).
[4] http://ricerca.gelocal.it/laprovinciapavese/archivio/laprovinciapavese/2014/04/03/VG_48_01.html?ref=search&refresh_ce (visto il 23 – 05 – 2018).
Pubblicato venerdì 26 Ottobre 2018
Stampato il 13/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/interviste/fascismo-e-vertici-della-marina/