Regeni: parla il partigiano Gastone Malaguti, penultimo sopravvissuto della 7ª Gap di Bologna, tra i protagonisti della mitica battaglia di Porta Lame. Allontanato dalla scuola nel ’38 per aver protestato contro l’espulsione dei compagni di classe ebrei. Dopo la Liberazione fece parte delle missioni in Germania per il recupero dei beni razziati dai nazisti
Gastone Malaguti, partigiano 7a Gap Garibaldi di Bologna
Nomi di battaglia ne ha cambiati molti Malaguti, classe 1926, Gaston, Efistione, il Biondino. Una vita intensa, nato a Bologna, una militanza antifascista cominciata presto, poi la clandestinità, la partecipazione alla Resistenza nella 7ª brigata Gap, nel dopoguerra operaio fornaciaio. In seguito l’impegno nel sindacato e il trasferimento a Roma. Ha un carattere gioviale, Gas, tendente alla risata, però al ricordo si rabbuia, e il nodo alla gola è difficile da camuffare.
L’Anpi ha promosso l’iniziativa #partigianipergiulio, che idea si è fatto Malaguti sulla vicenda del giovane ricercatore italiano torturato e ucciso al Cairo 5 anni fa?
Sarà durissima per i genitori conoscere la verità e avere giustizia. Abbiamo capito che bisogna fare i conti con interessi economici e geopolitici. Questa brutta storia mi ha fatto ripiombare nel passato. Ho rivissuto l’ultima volta in cui ho visto “Mimma”, Irma Bandiera, su un tavolo di marmo a medicina legale. L’hanno torturata per sette giorni e sette notti, ininterrottamente. I nostri comandanti ci chiedevano di resistere almeno 48 ore, lo stretto tempo necessario per trovare un’altra base, era una guerra in città. Mimma ha retto una settimana. Alla fine l’hanno portata davanti alla porta di casa: “hai l’ultima possibilità per dirci i nomi degli altri e rivedere i tuoi”. Non ha parlato, le hanno cavato gli occhi, poi l’hanno crivellata di colpi e lasciato il suo corpo per due giorni lì in strada, un monito a noi partigiani”. Ecco, ho subito pensato a Irma sapendo di Regeni.
Ora c’è una richiesta di rinvio a giudizio per quattro agenti segreti egiziani, il caso è arrivato nel Consiglio europeo dei ministri degli Esteri.
Un primo scalino, positivo certamente, ma bisognerebbe coinvolgere l’Onu, c’è una sede a Ginevra, è una questione mondiale e in passato le Nazioni Unite hanno ottenuto risultati. In Italia i partigiani, l’Anpi, si sono battuti per avere una legge sulla tortura. È stata lunga. Rispettare la dignità dell’uomo è il primo articolo della legge fondamentale tedesca del dopoguerra. Un principio ripreso dalla Convenzione europea sui diritti umani. Arrigo Boldrini “Bulow” nel 1953 si spese moltissimo per farla ratificare e così nell’89 per quella dell’Onu. Avevamo una legge ma nel nostro Paese la tortura è reato solo dal 2017, fino a quattro anni fa non c’erano punizioni per gli aguzzini. Dopo la Diaz con Massimo Rendina, il comandante Max, abbiamo contattato altre associazioni, ci siamo mobilitati, coinvolto le più sensibili forze progressiste in Parlamento. Avevamo messo insieme un dossier, documentando l’aberrazione della tortura a partire dalla Magna Carta. E c’è il Codice di Norimberga. Quelle norme etiche nascono dalle carte del processo contro i medici nazisti colpevoli di torture e sperimentazioni nei campi di sterminio.
La 7ª Gap è divenuta un mito, mettevate in conto la possibilità di essere torturati?
Sono entrato nella 7ª nell’autunno del ’43, mi ero iscritto al Pci, avevo 17 anni all’epoca della prima azione. Eravamo in guerra ma abbiamo sempre protetto i civili. Prima di far saltare un deposito di armi ed esplosivi, tra i più grandi dell’Alta Italia, passammo ad avvisare di casa in casa, travestiti da operai e rischiando di essere scoperti. A Bologna le brigate nere erano belve, c’era la banda Tartarotti, a pronunciare quel nome si tremava. Ho visto troppi compagni e compagne di lotta torturati dai fascisti. Non credevo di poter sopportare quarantotto ore di sevizie senza parlare. Avevo sempre un colpo in canna e durante i combattimenti l’ultimo lo conservavo per me. Più volte ho creduto di doverlo usare quel proiettile, per fortuna è andata bene.
Dal dopoguerra un’intera vita nel sindacato, esponente anche della Federazione mondiale.È stato mai in Egitto?
Due volte. Nel 1972, c’era Sadat. La Federazione era un organismo di tutto rispetto, la Cgil ne faceva parte, uno dei presidenti è stato Di Vittorio. Si tenne un riunione per le categorie del commercio al Cairo, era settembre, un caldo incredibile. In altre città, in altre occasioni simili, le delegazioni venivano accolte con grande formalità e cortesia. Ci lasciarono all’aeroporto per ore, riuscimmo ad avere una bottiglia d’acqua dopo 24 ore. Ricordo una grandissima disorganizzazione. Capodelegazione era Domenico Banchieri, cognato di Giancarlo Pajetta, aveva contatti con la Lega Araba. Così riuscimmo a venirne fuori. Restammo al Cairo un paio di settimane per la conferenza, girando anche parecchio. Tra francese e inglese riuscivo a farmi capire. Da un ambulante comprai un frustino animato, è uno scudiscio con dentro un pugnale. Lo tengo tra i cimeli di una esperienza non proprio felice. Tornai al Cairo con mia moglie nel ’90, da turisti è un altro paio di maniche.
Parla molte lingue Malaguti?
Ero bravo a scuola, ed ero predisposto allo studio delle lingue, durante il regime era obbligatorio il tedesco, l’inglese era proibito. Però nel 1938 ho lasciato la scuola. Ero in seconda media, avevo 12 anni, quando il regime fascista promulgò le leggi razziali e nel mio istituto, in via dei Giudei, la metà della classe era di religione ebraica. Arrivò un signore in orbace con una lista, la leggeva in tono roboante, un nome dopo l’altro “espulso”. Da “fumantino” protestai, “cos’è questa cag…?”, dissi proprio, il professore mi prese per un orecchio e mi buttò fuori. Dissi a mio padre che non volevo più andare a scuola. Comprese. Tutta la mia famiglia era antifascista, uno zio confinato politico, mio padre stesso venne malmenato dalle camicie nere. Nello studio ho recuperato dopo. Il francese l’ho imparato da dischi regalati da mio nonno. Il tedesco è stato utile alla Liberazione, ho fatto parte, come poliziotto, delle missioni alleate in Germania per il recupero dei beni razziati dai nazisti.
Bologna, Porta Lame
Un gappista in polizia?
La maggioranza della 7ª entrò in polizia dopo la Liberazione di Bologna. Il paradosso era essere un giovane che si sentiva un rivoluzionario nel corpo di polizia. Durò un anno appena, poi gli americani ci buttarono fuori, di una quarantina provenienti dalla mia brigata ne restarono tre o quattro, i meno in vista.
Alcuni tra i partigiani durante la guerra collaborarono con l’Oss, i servizi segreti statunitensi.
Non io, anche se ho conosciuto qualcuno di loro e c’è chi è ancora in vita. Mi sono occupato dei servizi segreti, sì, ma di quelli italiani e molto più tardi, ero già pensionato. Eravamo un gruppo di studio e lavorammo sullo stragismo mafioso e neofascista. Fu dopo la strage di via dei Georgofili a Firenze. Ci siamo divisi le ricerche: Portella della Ginestra, Piazza Fontana, Piazza della Loggia. Essendo di Bologna mi interessai della strage alla stazione. Allora il ruolo dei servizi segreti e di apparati dello Stato in quegli eccidi era poco più di un’intuizione. Stiamo parlando di una strage che ora è al quarto processo, oltre a quello per depistaggio. Raccolsi una grossa documentazione, venni in possesso anche di un video realizzato da un operatore televisivo ex allievo di mia moglie. Filmò i primissimi minuti dopo l’esplosione.
21 aprile1945, Bologna è libera
Un altro tuffo nel passato?
In una guerra senza tregua contro nazifascisti spietati. Della mia brigata che ha liberato prigionieri politici, fatto saltare l’hotel Baglioni, sede del comando tedesco, che ha combattuto a Porta Lame siamo rimasti io e “Italiano”, Renato Romagnoli, partecipò in prima persona alle azioni clamorose. Ne ho ancora una grandissima stima. Il 7 novembre 1944, a Porta Lame c’ero. Gli americani avevano sfondato la Linea Gotica e si erano attestati a Rastignano, a 15 km da Bologna. Il commissario della 7ª era Lino Michelini “William”. Il comando era in una palazzina, a poche decine di metri dalle rovine dell’ospedale Maggiore. Noi eravamo lì nei sotterranei. Un gruppo di partigiani sappisti aveva avuto uno scontro a fuoco con le brigate nere vicino alla palazzina. All’interno dell’edificio sentendo gli spari credettero di essere stati scoperti, uscirono e cominciarono a combattere anche loro. C’erano uomini del distaccamento della 7ª gap di Medicina, comandati da Pippo Bacchilega “Drago”. E poco dopo dall’ospedale Maggiore, guidati da Luigino, combattente delle brigate internazionali in Spagna, andammo tutti a dare loro rinforzo e circondammo i fascisti. L’esercito tedesco arrivò con carri armati e autoblindo per schiacciarci. Noi eravamo in 300. A Porta Lame la battaglia fu terribile. Ricordo Sauro Ballardini “il Topo”, un mosaicista e docente universitario prestigioso. Fu colpito al braccio sinistro. Lo portai in salvo sulle spalle. Tanti di noi caddero, ma sul campo abbiamo vinto. Purtroppo non era finita lì, ci furono esecuzione, rastrellamenti, come quello della Bolognina dove morì Amos Facchini “Ciccio”. Eramo cresciuti insieme. Con i suoi compagni furono accerchiati, ci fu un conflitto a fuoco, Ciccio stava per cadere nelle mani dei fascisti, tirò l’ultimo colpo con il mitra, poi tirò fuori la pistola e si sparò alla testa. Porta Lame è però un grande orgoglio. Sulla sinistra della Porta, in alto, c’è ancora una macchia scura, è il segno di una bomba incendiaria che ho lanciato io.
Se incontrassi i genitori di Giulio Regeni, c’è qualcosa che vorresti dire loro?
Parole? Non so. Desidererei solo abbracciarli e stringerli forte.
Pubblicato mercoledì 27 Gennaio 2021
Stampato il 27/01/2023 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/interviste/giulio-come-la-mdo-irma-bandiera/
Periodico dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
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