Nella finzione teatrale, il meccanismo narrativo viene avviato dalla vista della più famosa foto di Aldo Moro. E per te, per voi (il regista Dall’Aglio), qual è stato l’impulso che ha generato il lavoro?

La curiosità che nasce nel tempo su questo argomento, leggendo anche documenti delle Brigate Rosse, saggi su quegli anni, a partire da L’affaire Moro di Sciascia, che è uno dei primi usciti ad avvicinarsi maggiormente, nonostante le poche informazioni di cui allora si poteva disporre, ad una ipotesi plausibile dell’accaduto. La curiosità, dunque, ma anche l’esigenza di ricucire uno strappo. Quella di Moro con dietro la stella a cinque punte è una foto che genera uno stato di smarrimento molto forte in chi ha vissuto quegli anni, anche se ero molto piccolo. Io per esempio, che nel ‘78 avevo poco meno di quattro anni, ricordo perfettamente il clima che si respirava in casa durante i giorni del rapimento. Faccio parte di quella generazione troppo giovane per capire cosa stava accadendo, eppure troppo grande per ignorarlo. Siamo stati segnati inconsapevolmente, personalmente avevo bisogno di colmare questo vuoto. Ma anche la casualità ha giocato nella genesi di questo lavoro: casualmente mi sono trovato, infatti, ad una conferenza su Moro di Gero Grassi [vicepresidente seconda Commissione parlamentare sul caso Moro, ndr] a cui ho partecipato sino alla fine anche perché avevo visto – tra le varie proiettate dal relatore – un’immagine che mi ritraeva nei panni del brigatista Casimirri per una fiction che avevo fatto diversi anni prima. Mi sono incuriosito, ho atteso Grassi e gli ho chiesto se si poteva avere del materiale: puntualmente mi ha inviato tutto il lavoro della commissione parlamentare che mi ha sconvolto per gli elementi di novità che conteneva. Da lì ho avuto l’idea di cominciare: occorreva innanzitutto raccogliere il materiale esistente, una ricerca durata due anni; poi ho lavorato alla stesura del testo assieme al regista Dall’Aglio per la parte prettamente teatrale, e allo stesso Gero Grassi per garantire precisione e correttezza storica della ricostruzione. Casualità per casualità, sempre studiando e approfondendo il caso, ho scoperto che mio padre aveva frequentato l’istituto tecnico di Fermo negli stessi anni del brigatista Mario Moretti. Insomma, molte cose si sono incrociate, possiamo dire che questa storia ed io ci siamo cercati.

A chi parla ancora la più famosa foto di Moro rapito, quella con la stella a cinque punte alle spalle?

Ancora oggi dopo anni, la foto di Moro resta inquietante: il taglio stretto che non fa vedere altro che la faccia particolare di Moro, non sconfitta ma neanche vincitrice, in una sorta di limbo piuttosto, e poi quella stella a cinque punte. Eppure la cosa più inquietante è che non è Moro il protagonista principale di quella foto, ma è tutto quello che non si vede, tutto ciò che sta ruotando intorno a Moro e resta fuori dall’inquadratura. Quella foto parla a chi la vuole ascoltare e ha ancora tantissimo da dire.

Il lavoro è frutto della collaborazione con Grassi e dello studio delle carte della seconda Commissione parlamentare d’inchiesta: da quale vulgata e cliché resta lontana la storia e a quale filo invece prova a restare ancorata?

L’aiuto di Grassi è stato prezioso: lavorandoci da anni, lui mi ha fornito una linea precisa di informazioni da seguire. In due anni ho incrociato i resoconti della commissione che lui mi passava con una mia ricerca personale, leggendo libri sul caso e i risultati di altre commissioni, come quella sulla P2, seguendo anche strade parallele che di volta in volta si aprivano. Poi tornavo a confrontarmi con Grassi che mi confidava le sue perplessità rispetto a certe soluzioni che erano state date nel corso degli anni. Per evitare cliché, mi sono imposto di non andare dietro alle supposizioni: il succo del testo è una messa nero su bianco – poi ordinata cronologicamente e rielaborata per il teatro – soltanto di ciò che è certo e accertato. Non si tratta neanche di attenersi ad una verità processuale, in quanto questa viene smentita – dopo otto processi e due commissioni – dai documenti resi disponibili. La seconda Commissione infatti è nata nel 2014, dopo che il precedente governo aveva desecretato importanti documenti. Alcuni fatti certi escono anche da nuove indagini che sono state svolte: gli abiti di Moro, la Renault 4, i colpi di arma da fuoco recuperati in via Fani, le fotografie, insomma tutto il materiale repertato è stato ri-esaminato dal RIS di Parma con strumenti recentissimi, non quelli di 40 anni fa. La cosa forte che scaturisce da questi nuovi esami e ricerche è la smentita di buona parte del racconto e delle ammissioni delle Brigate Rosse, di quel “memoriale Morucci”, fatto arrivare a Cossiga nel 1986 e sottoscritto poi da altri brigatisti, che aveva costituito la base, che oggi sappiamo inattendibile, di molti processi. Per esempio le BR dicono che Moro fu ucciso nel bagagliaio della Renault 4 avvolto da una coperta, mentre è stato rilevato che la coperta non presenta i buchi di entrata dei proiettili; a Moro manca la prima falange del pollice sinistro, colpita da un proiettile e non presente nel bagagliaio, probabilmente questo significa che mise le mani davanti a sé per difendersi… insomma, le nuove perizie mettono in luce contraddizioni rispetto al memoriale e alle ricostruzioni fino a pochi anni fa ritenute valide. La conclusione a cui giunge la seconda Commissione è a mio avviso davvero clamorosa e, come ripete spesso Grassi, a rapire Moro furono “anche” le BR. Dietro questa vicenda c’era tutto un mondo, ciò lo dimostra anche un’analisi minuziosa del luogo del rapimento. Basti pensare all’intrico di personaggi, storie e mistero che attraversa il Bar Olivetti, che dalle foto dell’epoca appare chiuso, mentre altri testimoni giurano di avervi fatto colazione la mattina del rapimento e di aver usato il suo telefono per avvertire la redazione Rai della sparatoria appena avvenuta. Basti segnalare il fatto che i rapitori sanno fin dal giorno prima e prima di Moro stesso che la sua auto passerà di là, tanto che la notte precedente tagliano, per non correre il rischio di averlo tra i piedi, le gomme del camioncino di un fiorista che è solito recarsi a vendere in zona e che quando il brigatista Morucci viene arrestato si rinviene nei suoi pantaloni un biglietto con i recapiti di Antonio Esposito, commissario di polizia iscritto alla P2, che la mattina del rapimento è in servizio all’ufficio radio-scorte, ossia l’ufficio che indica in tempo reale alle auto di scorta i percorsi da seguire; purtroppo non sappiamo chi abbia indicato agli uomini di Moro il percorso perché sono spariti i brogliacci dal Ministero dell’Interno.

Francesco Gerardi (da https://www.rbcasting.com/ rb/web/francescogerardi)

Questo spettacolo che parla di cose “vecchie” di 40 anni cosa ha da dire a un ragazzo nato negli anni 90 o Zero? Cosa di nuovo viene a sapere del suo Paese che gli serva nella terza repubblica? Perché questa è ancora una “ferita” nascosta e dolente?

Sa di nuovo che c’è stato un momento in cui si tentò un avvicinamento tra forze diverse che volevano una determinata politica di dialogo sia in Italia che in Europa e sa che ci sono state altre forze, per lo più occulte, che hanno negato quel tentativo. Questa negazione, senza giocare di fantasia ma andando semplicemente a vedere cosa è successo negli anni fino a Tangentopoli e dopo, ha dato un segnale e impresso un cambiamento di rotta all’Italia che subiamo anche adesso. Si è messo fine, allora, a qualcosa che poi non si è più verificato o che sta avendo un iter molto più lungo e accidentato: Moro era un europeista convinto, per capirci.

Moro risulta ai ragazzi forse più estraneo e lontano di Garibaldi e Mazzini, che perlomeno occupano diverse pagine nei loro manuali di storia; tuttavia si può dire che proprio il suo assassinio getti le premesse del presente politico-culturale che viviamo, un presente di tifoserie politiche che contrastano il civile dialogo e compromesso nell’interesse comune?

Certo. Ebbi la fortuna di conoscere Oscar Luigi Scalfaro dopo che era stato Presidente, nel suo giro per l’Italia in difesa della Costituzione. Era portaborse di De Gasperi all’indomani della nascita della Repubblica: mi raccontava che nonostante le diversità e gli scontri forti in parlamento sulla Costituzione e sulle leggi che vennero dopo, vi era comunque un grande rispetto anche degli avversari politici perché si era consapevoli che tutti uscivano da un momento comune di sofferenza e lotta. Questo rispetto stava alla base di tutto e Moro faceva parte di quella generazione politica. Una delle cose più belle che stanno nella Costituzione la dobbiamo proprio a Moro, uomo di grande pensiero che seppe far proprie anche alcune idee della sinistra: nella Costituente si accende una grande diatriba attorno ai diritti dell’uomo; nello Statuto Albertino si diceva che era il re a concedere i diritti al cittadino, questo significava: primo, che i diritti potevano essere revocati, secondo, che essi spettavano a chi pagava le tasse, non a un esule o a un bambino che ancora deve nascere. Moro, con l’appoggio di Togliatti, propone e ottiene che la Repubblica Italiana riconosca i diritti alla “persona”: cosicché non possano essere tolti e non occorrano precisi requisiti per goderne, al contrario di quel che invece oggi molti vogliono, perché la Costituzione garantisce l’essere umano. Negli anni 60 è Moro, durante il governo insieme a Nenni, che attiva quel grande processo contro l’analfabetismo in Italia, mettendo tra l’altro un comunista come Manzi a condurre Non è mai troppo tardi. Nazionalizza l’energia elettrica nel ‘63, un evento epocale. Tutto questo disturba una certa Italia che, seppur rinata dalla lotta partigiana, ha ancora in sé diversi fascisti all’interno delle istituzioni e una borghesia ancora in gran parte reazionaria, e Moro la paga cara: infatti nella sua vita subisce altri due tentativi di omicidio, come ricorda sempre Gero Grassi nelle sue conferenze: durante il golpe del piano Solo e nel ‘74, quando sale sull’Italicus per scenderne due minuti prima della partenza, richiamato da due funzionari del ministero degli Esteri.

Un’immagine della casa-museo Cervi

A questo proposito ricordo che La ferita nascosta è stata rappresentata lo scorso 29 settembre alla casa museo Cervi: cosa lega la storia di Moro alla storia dei Cervi e della Resistenza?

Lo spettacolo è stato rappresentato in luoghi autorevoli come Aule magne universitarie e importanti rassegne nazionali come l’Estate Fiorentina. Quella al Museo Cervi è stata tuttavia la recita più suggestiva proprio per il valore simbolico di quel luogo. Moro e la famiglia Cervi hanno molte affinità, prima tra tutte il non cedere alle minacce e continuare a perseguire quell’ideale di società che hanno in mente. Pagano con la vita il fatto di proporre una visione rivoluzionaria del mondo, fatta di dialogo e confronto di idee. Se la foto più famosa di Moro è quella scattata durante il rapimento, la più importante a mio avviso è quella che lo ritrae in quella cordiale stretta di mano con Berlinguer, in un momento storico in cui si contrapponevano due visioni del mondo apparentemente in opposizione e inconciliabili. Era un messaggio che a qualcuno faceva paura. Dall’altra parte, in un altro momento storico in cui in Italia vigevano l’autarchia, le leggi razziali e slogan che ricordano molto il recente “prima gli italiani”, i Cervi andavano in giro con un trattore su cui avevano installato un mappamondo, lo stesso trattore che adesso è simbolo della casa-museo. I Cervi non seguivano le linee guida del regime, obbedire al leader che pensa e decide per te, ma condividevano innovazioni agricole e nuove idee politiche per il bene della loro comunità. Anche questo faceva paura. Sia Moro che i Cervi erano a loro modo dei rivoluzionari del quotidiano. Un altro luogo dove adesso vorrei portare lo spettacolo su Moro è Riace. Anche lì si sta cercando di portare avanti un modello rivoluzionario di società, che allo stesso modo viene perseguitato.

Cosa consente la trasposizione teatrale di simili contenuti? Rispetto a saggi o a conferenze, che strumenti in più fornisce il teatro? Tu e il regista Dall’Aglio su cosa contate, in questo senso?

Il saggio e la conferenza sono ottimi strumenti per passare informazioni. Nel teatro invece la cronaca si trasforma in racconto, quelle stesse informazioni vengono affabulate, non si punta a essere esaustivi sugli argomenti ma a creare una forte empatia tra il pubblico e la storia che si racconta. Non è importante che uno spettatore, quando esce da teatro, si ricordi tutte le informazioni che ha ascoltato. È molto più importante che abbia impresse le sensazioni che ha provato ascoltando, e se lo spettacolo è ben fatto, quelle sensazioni non si dimenticano più. Faccio un esempio. Possiamo studiare tutte le regole della gravità scoperte da Newton, possiamo capire qualcosa e qualcosa no, possiamo ricordarci alcuni passaggi e dimenticarne altri. Quello che però crea un legame emozionale tra noi e lo studio di Newton, che si imprime nella nostra immaginazione, è il racconto della mela che gli cade in testa. Si cerca cioè di creare un legame emozionale con l’argomento, ed è quello che abbiamo provato a fare io e Gigi Dall’Aglio con la storia di Moro. Del resto il teatro nasce non per dare risposte, ma per fornire a chi guarda gli strumenti per farsi delle domande.