Ripassare ogni tanto la Storia fa bene. Oggi che i massacri sistematici di ebrei, di diversi, di antifascisti della metà del 900 in Europa ad opera della furia hitleriana, sembrano bersaglio della volontà di dimenticare, un film li ripropone con forza rievocativa all’attenzione facendo perno sulla figura di Reinhard Heydrich, leader nazista detto “il macellaio di Praga”. È “L’Uomo dal cuore di ferro”.
Il regista Cedric Jimenez ispirandosi al libro di Laurent Binet “HHhH, storia dell’agguato a Reinhard Heydrich” (Premio Gouncourt 2012) racconta la figura di Heydrich, con il valido contributo interpretativo dell’attore australiano Jason Clarke, ma anche l’iter dell’Operazione Anthropoid, l’attentato del 2 maggio 1942 a Praga conclusosi con la sua morte. A compierlo saranno due caporalmaggiori in esilio a Londra, lo slovacco Jozef Gabcik e il ceco Jan Kubis (Jack Reynor e Jack O’Connell), addestrati appositamente dalla Royal Air Force e paracadutati in territorio boemo.
Il film alterna uno stile narrativo di primi piani e dettagli a scene d’azione documentarie e un’ultima parte molto concentrata sull’effetto. È una ricostruzione di fatti reali, di momenti tragici nel turbine di una guerra ora aperta ora clandestina in cui il ritratto di Heidrych è sempre più focalizzato sul suo agire. Dapprima il protagonista appare nel contesto familiare in una cartolina idilliaca. L’obiettivo di Jimenez ci mostra l’ambivalenza non nuova in gerarchi nazisti: da un lato la paternità ludica e benevola coi figli e dall’altro la spietatezza dell’ufficiale delle SS pronto alle imprese più efferate.
Vedremo precisarsi gradualmente nel suo cammino esistenziale, con un tocco del regista anche psicologico, un giovane contradditorio, amante del violino ma anche della scherma, fragile all’interno, violento all’esterno. Espulso dalla Marina in seguito a una storia deplorevole di sesso, troverà un solido appoggio nella fidanzata Lina, di nobile famiglia (Rosamund Pike), figlia di un alto ufficiale dello Stato Maggiore e fanatica ammiratrice di Hitler. La ragazza, innamorata di lui, lo convince all’iscrizione al partito dove troverà protezione. Il passo successivo sarà un incarico nell’Intelligence. Da questo momento la carriera di Reinhard è in ascesa. Carico di rancore represso, divenuto un meticoloso archivista di notizie riservate sui potenziali nemici del Reich, stilerà anche liste di alti ufficiali e personalità politiche ricattabili. Piacerà a Himmler, bisognoso di “uomini nell’ombra”, e ben presto diverrà suo stretto collaboratore. Sarà il Fuhrer a definirlo “L’uomo dal cuore di ferro”. Promosso a capo della RSHA, che ha il controllo di tutto il sistema di polizia e di sicurezza della Germania nazista, il gerarca procede nella scalata al potere, non inficiata dalle dicerie su sue presunte origini ebraiche. L’uomo si è rivelato ormai troppo utile alla causa del sistema repressivo nazionalsocialista.
Le sequenze mostrano le tappe successive della sua carriera. Nel gennaio del 1942 è consulente di primo piano lucido e freddo alla conferenza di Wansee dove i funzionari nazisti discutono della “soluzione finale” della questione ebraica. In sostanza, suggerirà come eliminare un popolo, come testimonia il verbale redatto da Eichmann basato sulle sue istruzioni.
Ben presto sarà nominato governatore di Boemia e Moravia, già proditoriamente invase dalla Germania, e si guadagnerà l’epiteto di boia di Praga per la ferocia delle repressioni e persecuzioni antisemite e di avversari politici.
Scorrono davanti a noi fotogrammi di scene reali degli eccidi nazisti pianificati dalla sua metodica crudeltà, mentre l’immagine della Mercedes-Benz decapottabile con cui percorre con tracotanza ogni angolo del Paese diviene simbolo del trionfo dell’occupante. Perfino la moglie Lina lamenta la distanza del suo uomo, dedito ormai esclusivamente a quell’unico impegno devastante. Scovare gli oppositori del Reich, annientare ogni forma di resistenza. L’interpretazione dell’attore Clarke riesce a trasmetterci un ritratto indovinato di tale maniacale volontà distruttiva.
Il film ci porta fino al traguardo dell’attentato del 27 maggio. L’episodio è solo un’anteprima, perché un flash back ci fa risalire alle origini dell’azione, decisa a Londra dal governo cecoslovacco in esilio. La missione Anthropoid è una risposta ritenuta necessaria contro il terrore instaurato da Heydrich concordata con le organizzazioni interne di resistenza clandestina, col parere sfavorevole della parte comunista che prevedeva disastrose rappresaglie. Il commando di militari cecoslovacchi addestrati in Scozia parte per essere paracadutato in patria. Ci sono i protagonisti, il binomio Jozef e Jan. Altri si aggiungeranno dopo.
Jimenez ci fa rivivere nella narrazione il clima di azzardo, di eccezionalità, di coraggio, di paura in cui si muovono i personaggi di quel tempo. Dall’atterraggio alla rischiosa entrata in Praga, all’ospitalità nelle case di elementi della resistenza, i protagonisti vivono alla giornata, sempre guardandosi alle spalle. Il ritmo serrato delle immagini riesce a comunicarci come in quelle condizioni trovare un indirizzo, passare un messaggio, una notizia, aprire una porta significasse mettere in gioco la vita. Come fosse importante ogni minimo gesto per sostenere l’opposizione alla soverchiante oppressione nazista.
Le figure intorno ai protagonisti, colte nel quotidiano, sono le stesse così ben descritte dallo scrittore praghese Julius Fucik, nel libro toccante redatto in carcere “Scritto sotto la forca”. Gente comune, con un lavoro, un’attività, uomini e donne modesti di tutti i tipi, religiosi, casalinghe, impiegati, operai, capaci di osare e di offrirsi generosamente per una causa. Il film riesce a evocare con verosimiglianza questa battaglia audace e sotterranea per la libertà del Paese in quegli anni tenebrosi che oggi sembrano quasi incredibili. Eppure fanno parte di ciò che è stato. Scopriamo anche che, pur nella morsa del male, le persone non cessano di ridere, di sognare, di amare, come la giovane parrucchiera invaghita del paracadutista Jan e ricambiata. Inteneriscono lo spettatore quei minuti d’amore strappati all’angoscia.
Ma giungiamo ai momenti culminanti dell’attentato. Un appuntamento forse temerario pur meticolosamente studiato a tavolino, con i suggerimenti di František Šafárik, impiegato nell’amministrazione del castello di Praga (sede del governo del protettorato) sull’itinerario consueto del capo nazista. La cabriolet che si affaccia sotto tiro in mezzo al mercato, lo sparo di Jozef con il mitragliatore Sten, l’arma che si inceppa, Heydrich che reagisce con la pistola in dotazione. Il lancio della granata da parte di Jan, il Reichprotektor ferito nell’esplosione che tenta di inseguire gli aggressori, prima di accasciarsi. Sequenza coinvolgente, attimi frenetici. La fuga dei partigiani.
Heydrich trasferito all’ospedale di Praga morirà una settimana dopo per una setticemia. Così commenta Hitler: «È stato stupido e idiota. Un uomo come lui non doveva esporsi a simili rischi».
Il funerale grandioso fu anche l’inizio di atroci vendette. I tedeschi inaugurarono una caccia all’uomo furibonda nella città, casa per casa e dintorni. Incendiarono e rasero al suolo il villaggio di Lidice, vicino Praga, dopo aver trucidato tutti i maschi di età maggiore i 16 anni e imprigionato le donne e i bambini, imperversando anche nelle campagne. Il capitolo di questi massacri è in realtà ben più esteso di quanto ci mostri lo schermo, ma si può trovare nel materiale del grande panorama documentario.
I paracadutisti braccati trovano rifugio nella chiesa di san Cirillo e Metodio, grazie al prete ortodosso Vladimir Petrek e ad altre autorità ecclesiali che verranno condannate a morte. Ma esistono anche i traditori come Karel Curda che non regge alla pressione del terrore a cui è sottoposta la città. Con la sua delazione consente ai tedeschi di snidare il gruppo di sette paracadutisti nascosto nel luogo sacro.
Lo scontro è accesissimo. Due battaglioni di SS circondano la chiesa e abbattono la porta entrando armi in pugno. Il film a questo punto si tramuta in sequenze adrenaliniche, di genere, sul dramma degli ultimi istanti di una lotta impari. Il plotone capeggiato dal tenente Adolf Opalka risponde all’assalto combattendo strenuamente dal patio della chiesa fino al primo mattino, per salvare i compagni nascosti nella catacomba. Cadranno molti tedeschi e anche i difensori ad uno ad uno. I nemici, scoperto il nascondiglio segreto, cercano i superstiti inondando i sotterranei. Josef e Jan non hanno più scampo. Sono giovani, anelano alla vita ma scelgono il suicidio per non cadere vivi nelle mani dei nazisti. Il ricordo della loro amicizia, sbocciata casualmente mentre fuggivano dalla prigionia ci riporta alle scelte decisive che la Storia impose alla gioventù dell’epoca e nel film suona come una citazione nostalgica e incisiva della passata solidarietà tra cechi e slovacchi che forse solo le “generazioni militanti” possono comprendere e non dimenticare.
Uscendo dalla proiezione di “Un uomo dal cuore di ferro”, dopo questo tuffo nel terribile passato su cui consigliamo di riflettere, non possiamo non pensare allo spettro preoccupante dei nazionalismi di alcuni Stati dell’est europeo, oggi indulgenti verso il razzismo e il nazismo dei quali dovrebbero aver recepito abbastanza la violenza e la barbarie.
Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice
Pubblicato mercoledì 20 Febbraio 2019
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