Antonio Fanelli

Il 26 maggio l’Arci ha celebrato il suo sessantesimo compleanno con una cerimonia alla Camera dei deputati, alla presenza della presidente Laura Boldrini. Introdotta degli interventi della presidente dell’Associazione Francesca Chiavacci e della presidente onoraria Luciana Castellina, la discussione ha fornito ai presenti la traccia di un importante cammino di riflessione e di innovazione, le cui tappe fondamentali sono state raccontate in prima persona dai protagonisti: Paolo Beni, presidente dell’Arci fino al 2014, Ermete Realacci, presidente onorario di Lega Ambiente, Franco Grillini, presidente onorario di Arci Gay, Carlo Petrini, fondatore di Slowfood e l’attore e scrittore Moni Ovadia. Abbiamo parlato di questa ricorrenza con uno dei relatori, lo storico e antropologo Antonio Fanelli, con il quale abbiamo ripercorso alcuni momenti salienti della storia di un’organizzazione che, con oltre un milione di iscritti e 4796 circoli sparsi su tutto il territorio nazionale, costituisce una delle più importanti realtà associative del nostro Paese.

Nella relazione che hai tenuto il 26 maggio alla Camera dei deputati, hai definito la fondazione dell’Arci una “vera e propria scommessa” per di più di esito incerto. Vogliamo partire da questa “scommessa” di sessant’anni fa?

Sì, fu una nascita in sordina quella dell’Arci. Non tutti, anzi, in pochi erano convinti del buon esito della fondazione di questa ambiziosa struttura di coordinamento delle attività dei circoli e delle case del popolo. La sinistra usciva dalla stagione del “frontismo”, una fase storica troppo spesso bollata soltanto come l’epoca dello stalinismo, mentre fu anche un’epoca ricca di iniziative culturali che si proponevano di avvicinare le classi popolari all’alta cultura per democratizzare la fruizione del sapere umanistico e scientifico con strumenti divulgativi come Il Calendario del Popolo, la rivista fondata nel 1945 da Giulio Trevisani, e con la creazione di associazioni per la promozione della lettura e per la diffusione dei quotidiani e dei periodici politici e, soprattutto, dei libri in formato economico. Una grande battaglia per l’alfabetizzazione, che in alcuni casi, legittimava, anche agli occhi del mondo cattolico e liberale, la funzione democratica e pedagogica del movimento operaio.

La politica culturale era intesa anche in un’altra direzione, come occasione per porre i partiti di sinistra nel ruolo di paladini della libertà di pensiero e di strenui difensori del mondo artistico contro la censura clericale. E così il Pci e il Psi si prodigarono, nell’immediato dopoguerra, nel sostegno al neorealismo e alla letteratura impegnata, al teatro civile, alla sfera dell’arte realista. Il dogma zdanoviano del realismo sarà ben presto un limite dell’azione culturale del campo marxista, ma molti intellettuali “tradizionali” si avvicinarono alla sinistra proprio in virtù di questa sapiente politica di apertura verso un ceto sociale, quello intellettuale, ritenuto strategico nella politica togliattiana volta, sulla scorta dell’insegnamento gramsciano, alla costruzione di una egemonia culturale del campo progressista. Ma in questo progetto politico c’era ben poco spazio per la riflessione sulla cultura di massa e il tempo libero, spesso bollati in modo semplicistico come delle mere forme di dominazione culturale da parte del nascente neo-capitalismo. Una lettura fortemente critica delle trasformazioni sociali e culturali del dopoguerra (condizionata anche dalle teorie di Theodor Adorno e dei filosofi della Scuola di Francoforte), per lungo tempo (e forse ancora oggi) è stata molto presente in una sinistra assai sospettosa, non solo verso i nuovi media e la cultura di massa, ma anche verso i tentativi, come quello di Ernesto de Martino, di porre la cultura popolare al centro dell’interesse del mondo intellettuale, senza relegare più nella sfera dell’arcaico un mondo folklorico ricco di elementi “progressivi”.

Nel corso della tua attività di studioso ti sei occupato soprattutto della Toscana e in particolare della presenza delle case del popolo nell’area fiorentina, alla quale hai dedicato un libro, A casa del popolo (Donzelli, 2014).

L’associazionismo di base è un fenomeno risalente a molto tempo prima della fondazione dell’Arci, e affonda le sue radici nelle prime forme di socialità popolare, dal mutualismo alle associazioni di resistenza di fine Ottocento. Dopo la Liberazione, le case del popolo, trasformate in case del fascio dal regime, tornarono nelle mani delle forze democratiche e popolari, ma questa riappropriazione non avvenne senza contrasti, soprattutto negli anni del centrismo, con le forze conservatrici intenzionate a tenere ferma la separazione tra la gestione del tempo libero e l’attività politica e sindacale.

Quale ruolo svolge l’Arci in questo conflitto? E attraverso quali passaggi si giunge al riconoscimento, anche legale, dell’Associazione e alla sua definitiva legittimazione come soggetto attivo nella gestione delle attività ricreative e culturali?

Il conflitto tra i circoli, le case del popolo e lo Stato negli anni 50 ha una duplice natura: da un lato, la vertenza sulla proprietà degli immobili, dall’altro, lo status giuridico delle associazioni di volontariato e il dibattito sulla legittimità dello svolgimento di attività culturali e politiche negli spazi dell’associazionismo popolare. Già il governo Badoglio aveva decretato la requisizione dei beni del disciolto Pnf, e tra questi si trovavano anche le sedi delle organizzazioni operaie e popolari requisite dal regime e dopo la Liberazione rivendicate dai legittimi possessori: in tal modo si apriva un contenzioso assai lungo e complesso, con i governi centristi intenzionati a non lasciare alle forze dell’opposizione un patrimonio immobiliare piuttosto consistente. Con Mario Scelba alla guida del ministero dell’Interno e poi, per un breve periodo, del Governo (1954-55), lo scontro si acuisce e a fronte degli sfratti eseguiti dalle forze dell’ordine, in alcune zone dell’Italia “rossa”, la reazione popolare fu così forte da innescare un processo di costruzione dal basso di nuove case del popolo in quei rioni operai e nelle frazioni mezzadrili e bracciantili, che costituivano lo zoccolo duro dell’insediamento popolare dei partiti di sinistra, e del Pci, in particolar modo. Per dare un sostegno giuridico e organizzativo alle nuove strutture e gestire questa fase di grande slancio dell’associazionismo, venne costituita, proprio a Firenze, a metà anni 50, l’Arp (Associazione per la ricreazione popolare), una sorta di antesignano dell’Arci e di ‘sindacato’ delle case del popolo.

Lo scontro politico sulla proprietà degli immobili costituì una vera e propria epopea di auto-organizzazione popolare, con sottoscrizioni e lavoro volontario in misura tale da rappresentare una delle pagine più belle della partecipazione politica delle classi popolari nel nostro Paese. In questo quadro, il dibattito sulla natura giuridica dell’associazionismo fu assai complicato. Alla fascista Opera nazionale dopolavoro era seguito, caduto il regime, un nuovo e quasi identico ente, l’Enal (Ente nazionale assistenza lavoratori) e tra questo organismo centrale e le strutture periferiche si aprirono subito dei contrasti. L’Enal intendeva controllare l’associazionismo e limitarne il carattere politico. Le forze di sinistra provarono in Parlamento a riformare questo ente, per sottrarlo al monopolio democristiano e favorire pluralismo e autonomia delle strutture locali; vi furono delle iniziative promosse dalla Cgil e dallo stesso Di Vittorio, per includere le attività ricreative tra le finalità delle Camere del Lavoro, ma fu, soprattutto, Alberto Jacometti a impegnarsi in prima persona per il riconoscimento dell’autonomia dei circoli e delle case del popolo dalla tutela dell’Enal. Così grazie a questa battaglia politica, Jacometti, socialista novarese e finanche segretario del Psi tra il 1948 e il 1949, divenne il promotore della nascita dell’Arci e il suo primo e storico presidente. I militanti di base della sinistra si adoperarono per fare conoscere ai circoli questa nuova opportunità di collegamento e di programmazione e non fu una passeggiata l’azione politica nei territori per far aderire i circoli alla nuova associazione. Solo con il centro-sinistra e con l’interessamento di Nenni, l’Arci ottenne un pieno riconoscimento giuridico – che mise i circoli in condizione di ampliare la loro attività – che attesta la prima vittoria formale e normativa dell’associazionismo e della società civile, finalmente riconosciuti come momenti cruciali per l’esercizio della democrazia.

Il concetto di tempo libero è al centro di una continua riflessione. Da un lato, negli anni 60 e 70, è stato oggetto di discussione e anche di divisioni all’interno del movimento operaio e popolare; dall’altro, nel corso di questi anni, ha subito modificazioni profonde, legate alle trasformazioni del mondo del lavoro…

Il tempo libero è una grande conquista della modernità e per seguirne la nascita e gli sviluppi il riferimento obbligatorio è il classico volume di Alain Corbin, L’invenzione del tempo libero, tradotto in Italia da Laterza. È il mondo dell’industria e con esso la regolazione del tempo di lavoro che permette la nascita di un tempo libero dal lavoro, un tempo per sé, per la crescita culturale e per i propri interessi. Nei paesi anglosassoni nasce l’industria del tempo libero, in Francia e in Italia gli intellettuali più radicali teorizzano il tempo libero come momento di lotta politica. Una lettura “apocalittica” della cultura di massa, per usare una definizione di Umberto Eco, sarà dominante nel mondo intellettuale e nel dopoguerra, in seno alla cultura politica del movimento operaio, lo scetticismo verso l’Arci sarà duro da estirpare. Esso era il frutto della diffidenza verso una associazione che in qualche modo legittimava le attività ludiche e ricreative e si poneva l’ambizioso obiettivo di dare un segno politico di condivisione critica e di libera fruizione al tempo libero, a partire dal ballo e dalla visione in comune della tv e del cinema. In tal senso l’Arci è stato un grande mediatore collettivo rispetto alle trasformazioni della vita quotidiana e della socialità dei ceti popolari, vincendo la sfida più delicata, quella di tenere assieme la cultura pop e quella militante.

Questo connubio delicato e assai fragile deve oggi fare i conti con le nuove forme di fruizione della cultura e del tempo libero legate al web e ai social network, che scavano una distanza enorme tra le generazioni, e soprattutto con le maggiori difficoltà di sintesi e di sinergia, e a volte anche di semplice dialogo, tra le arti sperimentali, i movimenti politici e le classi popolari. Tornano poi, come accennavi alla fine della domanda, degli scenari di deprivazione del lavoro e del tempo libero che mettono a dura prova le associazioni basate sul volontariato. Pertanto, il tempo libero va oggi riconquistato e sarebbe un grande errore quello di relegare questa battaglia al rango secondario di una attività tutto sommato superflua rispetto ai temi più urgenti e alle battaglie politiche più necessarie. La qualità del tempo libero è uno dei punti di osservazione più pregnanti per capire gli umori di una società e la tenuta del tessuto civile e democratico.

Nell’evento del 26 maggio si è sottolineata la capacità dell’Arci di fare da battistrada su temi come la lotta per la pace, la difesa dell’ambiente, i diritti civili, l’accoglienza dei migranti, etc. Hai detto che la storia dell’Arci è stata snobbata, sicuramente declassata al ruolo di storia minore, Come spieghi questa situazione? E come è possibile superarla?

Da un lato scontiamo dei ritardi nel mondo accademico, sia in ambito storiografico, sia in quello antropologico, poiché sono prevalsi nel primo caso, gli studi sulle istituzioni e i partiti, e nel secondo, le analisi della cultura folklorica, con scarsa attenzione verso il tema del tempo libero e verso i progetti politici volti a organizzarlo, mentre gli spunti più interessanti li ritroviamo piuttosto nel versante della sociologia e della politologia, in quei lavori che si sono adoperati per superare i pregiudizi sul presunto carattere di arretratezza delle culture politiche territoriali del nostro Paese. Il dibattito sulla “subcultura rossa” è un punto di riferimento utile da cui partire ed è stata soprattutto la monografia dell’antropologo David Kertzer sui comunisti bolognesi a cogliere l’importanza dei riti, dei simboli e delle pratiche quotidiane del mondo associativo di sinistra. Ma una critica dobbiamo rivolgerla anche alle associazioni e alla stessa Arci: c’è stata una scarsa attenzione verso il patrimonio storico e archivistico dell’associazione e l’urgenza di agire nel presente fa avvertire, erroneamente, come superflue le attenzioni di carattere documentario verso la propria storia, per una sorta di ritrosia a volte o per una malcelata paura di apparire come un oggetto del passato.

Tom Benetollo, presidente nazionale dell’Arci dal 1995 alla sua morte (giugno 2004)

Sempre in tema di capacità di innovazione, tu indichi nella presidenza di Tom Benetollo uno dei momenti più significativi delle trasformazioni politico-culturali dell’Arci. Non solo l’Arci, ma l’intero mondo dell’associazionismo democratico è stato oggetto di sollecitazioni dall’autoscioglimento fino a quello di assumere nei fatti un ruolo di supplenza di partiti. Finora sia l’Arci sia l’Anpi sono riuscite a mantenere ferma la distinzione dei ruoli e a valorizzare la propria identità. Qual è il tuo parere in proposito?

Le tensioni politiche attuali, seppure laceranti e dagli esiti ancora incerti, non sono che l’ennesima e ardua prova a cui l’associazione è chiamata a rispondere. L’Arci, infatti, è riuscita a districarsi nei suoi 60 anni di vita fra tensioni politiche e scontri interni assai laceranti, dagli aspri contrasti tra i movimenti extra-parlamentari e il Pci, alle eterne diatribe tra socialisti e comunisti fino a quelle scaturite dalle numerose e lancinanti scissioni legate alla fine del Pci. La presidenza di Benetollo è stata decisiva, un vero e proprio spartiacque che ha ridato centralità all’associazione dopo una fase di maggiore subordinazione ai partiti, rilanciando la mission dell’Arci in una chiave movimentista, ambientalista e anti-globalizzazione. In tal modo l’Arci è sempre in prima fila nella battaglia politica per i diritti e l’accoglienza dei migranti. Forse, questa apertura, preziosa e decisiva non solo per l’Arci ma per tutta la sinistra italiana, ha relegato in secondo piano la programmazione culturale e la riflessione sul tempo libero delle classi popolari. L’Arci corre il rischio di essere un grande contenitore di eventi, senza una chiara impostazione unitaria (e a volte potrebbe anche essere un bene) di cosa possa essere oggi la cultura popolare e progressista basata sul volontariato, con il perdurante e sempre in agguato pericolo di separare le attività ricreative tradizionali da quelle più militanti e sperimentali. Su questa sottile linea di tensione e di dialettica interna, si staglia l’attuale momento dell’Arci, un’associazione che – così come è per l’Anpi – intende comunque tenere ferma la sua autonomia e operare dentro la specificità dei suoi ambiti di competenza, anche in un contesto che vede oggettivamente il logoramento della base di sostegno e della partecipazione alla vita dei partiti. Questo rende indubbiamente le cose più difficili e anche per questo motivo, all’Arci vanno i più cari auguri per questi primi 60 anni di vita e per il lavoro futuro da compiere.