Da #WhatHappeningMyanmar

Oggi per il sesto giorno consecutivo le piazze del Myanmar probabilmente si sono riempite di studenti della Generazione Zeta, di lavoratori in sciopero, medici, insegnanti, monaci buddisti, donne e uomini di ogni età. L’avverbio dubitativo è d’obbligo nonostante le sei ore di differenza nel fuso orario, perché internet funziona a singhiozzo e così le immagini delle mobilitazioni arrivano in ritardo, diffuse quando possibile da reti private e social.

Fino a ieri si sono promossi cortei in ogni città, affrontando a mani nude la polizia che, dopo i cannoni ad acqua e i gas lacrimogeni, ha cominciato a usare proiettili veri. E ci sono i primi morti. Le foto e i video sul web mostrano una giovane ragazza colpita alla testa a Naypyidaw, la capitale.

Si sfila con le mascherine anticovid, i cartelli e le tre dita mostrate nel gesto simbolo che chiede la liberazione di Aung San Suu Kyi, arrestata il 1° febbraio con altri dirigenti del suo partito, la Lega nazionale per la democrazia.

#Wewantdemocracy

Ci informa Albertina Soliani, presidente dell’Istituto Cervi, vicepresidente nazionale Anpi, già senatrice e presidente dell’Associazione parlamentari amici della Birmania: «Sappiamo –– che i parlamentari eletti a novembre e ora agli arresti si sono riuniti clandestinamente online e hanno promesso di non cedere. Vogliono affidare un secondo mandato a San Suu Kyi. Inoltre, secondo le nostre fonti, il golpe organizzato dal generale Min Aung Hlaing non ha trovato compatto l’esercito. Forse si aprono spazi per una soluzione».

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Intanto si susseguono gli appelli della Comunità internazionale per il rilascio della numero uno birmana e di tutti i dirigenti. È tornato a chiederlo Biden minacciando di congelare i fondi militari depositati negli Usa, è arrivato l’appello dei vescovi affinché – scrive la conferenza episcopale – prevalga la pace, la giustizia e lo sviluppo del Paese. Christine Schraner Burgener, inviato speciale dell’Onu, sta cercando di entrare in Myanmar e le Nazioni Unite hanno chiesto alle forze di sicurezza il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Ha condannato il golpe anche l’Unione Europea, brandendo sanzioni contro il regime.

#Wewantdemocracy

Aveva già protestato la Gran Bretagna, che in passato ha rimosso i ritratti di San Suu Kyi – sebbene per anni fosse stata motivo di vanto la sua laurea al St Hugh’s College di Oxford – perché giudicata troppo timida nel condannare la persecuzione dei rohingya, popolo musulmano di minoranza nella Birmania buddista. «La giunta militare – prosegue Soliani – sta provando in ogni modo a screditare la figura della leader che ha stravinto le elezioni, nel tentativo di impedirle in ogni caso un ritorno sulla scena politica, se la situazione dovesse cambiare». L’hanno accusata di alto tradimento, con pene dai venti anni di carcere alla morte, e successivamente di aver acquistato illegalmente un walkie-talkie, trovato in casa sua.

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Ora anche l’Occidente deve fare i conti con un atteggiamento che ha isolato la Consigliera di Stato mentre il suo Paese si misurava per la prima volta con la democrazia. «C’è stata una visione strabica e miope – dice Soliani – che ha trasformato la leader ora sotto scacco in una paladina dei diritti umani, premio Nobel per la pace nel 1991, osannandola e consegnandole il ruolo di punta avanzata dei valori occidentali contro la Cina. Un’assurdità».

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Senza accettare che nell’agire politico in uno scenario interno e internazionale non esistono il bianco e il nero ma molte sfumature. San Suu Kyi come qualunque altro capo di Stato doveva misurarsi con le condizioni reali e un lustro è nulla per costruire una democrazia in un Paese vissuto per sessant’anni sotto un regime militare feroce. “La numero uno birmana aveva una via stretta per affermare la giovane democrazia e la coscienza civile che si manifesta in questi giorni nelle strade del Paese, operava in concreto, scegliendo di farlo nella modalità più pacifica possibile in quel contesto”.

Proprio in questi giorni una consistente parte della stampa nostrana e internazionale ha ricordato che la Lady, così chiamano rispettosamente San Suu Kyi in Myanmar, avrebbe voltato la testa e non impedito il genocidio dei rohingya.

Il generale Min Aung Hlaing

E va detto che chi ha guidato il golpe, il generale Min Aung Hlaing, non è un militare qualunque. Soprannominato “colpo di stiletto” per l’indole tagliente, lastricò il colpo di stato del settembre 1988, secondo le stime più accreditate, con 500 morti nelle strade nelle prime sei settimane di proteste a favore della democrazia a cui si aggiunse l’uccisione di altre 3.000 persone.

Il popolo rohingya, minoranza musulmana, in un campo in Bangladesh

Nell’agosto 2017 tornò a far parlare di sé per una brutale campagna che costrinse oltre 740.000 rohingya a trovare rifugio oltre confine, in Bangladesh, Paese che adesso non li vuole più. «Questo era il nemico in casa con cui doveva fare i conti Aung San Suu Kyi», continua l’ex senatrice. Alla fine del 2019, i generali del Tatmadaw, l’esercito del Myanmar, erano stati chiamati a rispondere dell’accusa di genocidio davanti alla Corte penale internazionale per i crimini contro l’umanità dell’Aja. È stato però riferito che in quella sede San Suu Kyi non si sia pronunciata in difesa della minoranza.

«Ho assistito all’udienza – risponde Albertina Soliani –. San Suu Kyi ha affermato di voler perseguire con la giustizia del suo Paese i responsabili del genocidio. Min Aung Hlaing ha capito benissimo quale sarebbe stato il suo destino: fra poco, al compimento dei 65 anni, andando in pensione perderà l’immunità, per questo ora aspira alla presidenza».

Albertina Soliani, presidente Istituto Cervi e vicepresidente nazionale Anpi (Imagoeconomica)

Senza dimenticare che l’esercito in Myanmar ha sempre fatto affari con il traffico di armi e droga. Insiste la presidente del Cervi e vicepresidente nazionale dell’associazione dei partigiani: «L’Occidente limitandosi a pretendere parole di condanna per la repressione della minoranza ha sprecato l’occasione per affiancare in concreto San Suu Kyi».

C’è una narrazione distorta dietro tutto ciò, «condizionata da troppi interessi economici e alimentata da chi denuncia violazioni dei diritti umani ma poi non opera per trovare una soluzione o semplicemente non può farlo». Il risultato è lo smarrimento dell’opinione pubblica di cui forse è complice «una visione antica, superata del cosiddetto Terzo mondo».

Di più. Una parte del mondo arabo con molti interessi in Occidente ha sempre agitato la vicenda di quel popolo martoriato, vittima di una vicenda complessa, quasi per contrastare l’immagine degli attentati che hanno fatto strage in molti Paesi. Peggio. Vicino alla regione settentrionale della Birmania dove vivono i rohingya, lo Stato di Rakhine, l’Isis ha allestito una base. E la grande paura dei birmani è di ritrovarsi accanto uno stato islamico che si confronta con la Cina. Oltre a ciò si stanno ridisegnando nuovi rapporti di forza nello scacchiere globale.

La Cina e la Russia non hanno condannato il golpe. «Hanno tuttavia consentito l’approvazione di risoluzione delle Nazioni Unite per la liberazione di San Suu Kyi e di tutti gli arrestati” – replica Albertina Soliani –. Il terreno per un dialogo c’è». La diplomazia ha i suoi codici, in altre parole. Per di più in quella regione del mondo la pace è necessaria. Un esempio, fra i tanti: «Solo un anno fa la Cina ha lanciato la strategia della Belt and Road Initiative, la Via della Seta per una leadership nel XXI secolo. Il Myanmar è il primo passo del cammino verso occidente. Vorrebbe veder camminare gli eserciti sulla Via della Seta?».

#WhatHappeningMyanmar

La sfida politica dei prossimi decenni è lasciar vivere e far crescere la democrazia negata, mai decollata o compromessa in troppi luoghi del pianeta.

«Il popolo birmano ha votato in massa per San Suu Kyi e chi è dalla parte della pace e della libertà non può restare alla finestra – conclude la presidente del Cervi e vicepresidente nazionale Anpi –. L’opinione pubblica, soprattutto nell’UE e in Italia deve far sentire la sua voce per la liberazione di tutti gli arrestati, al pari di quanto chiede all’Egitto o alla Turchia, ed essere accanto a quei ragazzi, a quelle donne e uomini che forse in questo momento sono in piazza opponendosi alla polizia».

Chi sta dalla parte dei diritti umani e della democrazia ha il dovere di sostenere la loro resistenza.