Leonardo Becchetti (Imagoeconomica)

Leonardo Becchetti, 57 anni, dal 2006 insegna Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata ed è direttore del Festival dell’Economia civile (prossimo appuntamento: 15-17 settembre, a Firenze). Autore di oltre 500 pubblicazioni scientifiche e di una quindicina di testi divulgativi che attraversano i temi dell’economia civile e sociale, ha particolare voce in capitolo sui rapporti tra etica e finanza, tra responsabilità sociale di impresa e la cosiddetta “economia della felicità”. Lo abbiamo intervistato sulle ricadute della guerra in corso su quella “cittadinanza attiva” di cui si occupa da sempre, con particolare riferimento alle numerose questioni economico-energetiche che fanno da gigantesco corollario al frastuono delle armi.

(Imagoeconomica)

Professor Becchetti, qual è il principale riflesso geopolitico del conflitto in Ucraina, che si sta protraendo nel tempo?

Dal punto di vista politico-economico ci stiamo riavvicinando a un mondo diviso in blocchi, che rimetterà in discussione le “aperture” connesse all’idea di globalizzazione a 360° vissuta negli ultimi vent’anni; quelle “aperture” che hanno indotto il cosiddetto Occidente a trascurare i pericoli di natura strategica connaturati ai Paesi con regimi autocratici. In concreto, ciò significa che alcune filiere andranno ridefinite strategicamente: si inizierà a prestare maggiore attenzione ai prodotti provenienti da Russia o Cina; se possibile, si cercherà proprio di farne a meno.

(Imagoeconomica)

Quali filiere andranno via via a ridursi?

Penso innanzitutto alla produzione dei materiali propedeutici alle fonti rinnovabili, dalle batterie ai pannelli, o anche a ciò che serve per realizzare i telefoni cellulari.

Non sarà però semplice ridimensionare i mercati globalizzati, immaginando nuovi blocchi contrapposti. Cina e Stati Uniti, per esempio, hanno scambi fittissimi, caratterizzati da produzioni a basso costo contro salari ridottissimi…

Se ne può ragionare, per ora, soltanto empiricamente: io ritengo che le aziende occidentali incorporeranno il rischio strategico, di cui precedentemente non dovevano tener conto, che renderà meno conveniente inserire nella filiera prodotti cinesi o russi. Quanto poi la nuova tendenza sarà in grado di modificare gli assetti commerciali globali, dipenderà dal livello di incidenza dell’assunzione di quel rischio in relazione ad altri fattori di costo.

(Nasa su Unsplash)

Sui social network ha espresso grande preoccupazione in merito alle modalità comunicative scelte dalle democrazie occidentali per descrivere la guerra in corso. In cosa sbagliano?

Auspico si torni alla saggezza che caratterizzava le prese di posizione durante la Guerra Fredda. Nessuno, all’epoca, avrebbe mai pensato di sconfiggere con le armi una potenza nucleare, ancorché se ne riconoscessero tutti i limiti o i difetti. Nessuno avrebbe mai pensato di sconfiggere militarmente l’Unione Sovietica: ci si conviveva, adoperandosi talvolta con strumenti di deterrenza e di contenimento, lavorando contestualmente per provare a farla implodere dall’interno, come poi è accaduto. Oggi mi pare proprio che quella saggezza sia svanita e ci si fa prendere da una trance agonistica bellicista che reputo pericolosissima.

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Chi ha lanciato strali in questi due mesi si è accanito contro le tanti voci del movimento pacifista, a cominciare da quelle che si alzano dalla quasi coralità del mondo cattolico…

I cattolici non si stanno sottraendo a giocare un ruolo di critica al bellicismo. Mi sembrano impegnati nella richiesta appassionata di un “cessate il fuoco” che possa essere propedeutico alla costruzione della pace, attirando a sé critiche e talvolta addirittura insulti. I cattolici riconoscono le colpe di Putin e non giustificano nulla; il punto è come arrivare alla pace.

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Torniamo alle ricadute economiche, a iniziare dalla crisi del gas.

La crisi del gas rappresenta un’opportunità e si sta iniziando a comprendere che occorre accelerare il percorso già intrapreso verso la transizione ecologica, da completare entro il 2050. Le fonti rinnovabili sono migliori da vari punti di vista: dalla tutela della salute (meno decessi da inquinamento) alle minori emissioni di CO2, fino ai costi contenuti (essendo molto più convenienti delle fonti fossili), anche sotto il profilo della volatilità dei prezzi.

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Quindi la guerra in Ucraina può, in tal senso, “aiutare” indirettamente?

Abbiamo avanzato da tempo il proposito di eliminare le fonti fossili e, specificamente, di utilizzare il gas ancora per non più di dieci anni. La guerra in Ucraina ci induce ad accelerare, dovendo il nostro Paese abbandonare rapidamente le forniture garantite dalla Federazione Russa, che fornisce il 40% del gas importato dall’Italia. Nei giorni scorsi il ministro Cingolani ha stimato che si possa realizzare questo obiettivo in un anno e mezzo o due, mentre altri osservatori ipotizzavano tempistiche anche più brevi; considerando tra l’altro che è la Russia stessa ad aver interrotto le forniture di gas ad alcuni Paesi “ostili”, come la Polonia o la Bulgaria.

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Lei ha recentemente affermato che “la transizione ecologica è fondamentale per il clima, la salute e la pace”. Come declinare questa affermazione in tempo di guerra?

Noi non ci stiamo rendendo conto del fatto che le dittature nascono laddove ci sono risorse naturali strategiche. Dunque, più noi rendiamo quella tale risorsa naturale come strategica, più attiviamo, in una determinata zona, appetiti o poteri di chi cerca di concentrare la rendita che deriva da quelle risorse. La pace si costruisce passando da un modello di produzione di energia caratterizzato da chi detiene giacimenti di gas o di petrolio, a un modello diffuso, partecipato, nel quale ciascuno di noi è produttore di una piccola parte di energia; così come succede nell’eolico o nel fotovoltaico, perché il vento e il sole non appartengono a nessuno, o appartengono a tutti, e permettono di “destrategicizzare” l’energia. Le fonti rinnovabili consentono a chi le produce e a chi ne usufruisce di non sottostare ad alcun ricatto.

(Imagoeconomica)

La fase di transizione ecologica si preannuncia però molto complessa. È stato invocato un nuovo scostamento di bilancio per fronteggiare i costi altissimi a carico dei cittadini.

“Stiamo affrontando il grande problema dell’inflazione, quasi interamente legata alla questione energetica: senza l’aumento dei prezzi del petrolio e del gas l’inflazione si attesterebbe attorno al 2%, ossia a un livello fisiologico per il nostro Paese. La risposta è una sola: fare a meno di quei due prodotti. Già oggi, là dove sono attive le Comunità energetiche (pensiamo a esempio alla Valle di Primiero in Trentino o ad alcuni Comuni sardi), il costo del gas non è più un problema. Lo stesso discorso vale per tutte le aziende, anche grandi, che si sono nel tempo rese autonome nella produzione di energia, con i loro impianti fotovoltaici, e che dunque non hanno subìto le ricadute degli aumenti dei prezzi”.

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Chi subisce invece quelle ricadute sono le aziende che necessitano di molta energia per mettere sul mercato prodotti di prima necessità. Come rispondere alla crisi di questi settori?

Tutte le produzioni che necessitano di molta energia, pensiamo a chi coltiva in serra, sono in grande sofferenza. È l’ennesima prova della necessità di ridisegnare le filiere e lo si può fare partendo dalla rivisitazione dei settori produttivi e della loro complessità, a iniziare da quelli alimentari: non tutto il grano proviene dall’Ucraina. Anzi, buona parte del grano duro, per esempio, arriva dal Canada. Se da un lato dovremo fare a meno di prodotti provenienti dalle zone interessate dal conflitto, occorrerà dall’altro implementare le importazioni da altri Paesi, aumentando inoltre la produzione interna.

 

Paolo Repetto, giornalista


(Imagoeconomica)

La crisi alimentare andrà inoltre a ripercuotersi pesantemente sull’intero continente africano: se l’Onu ha lanciato l’allarme per le 4,5 milioni di tonnellate di cereali bloccate nei porti ucraini sul Mar Nero a causa del conflitto, la Fao ha già denunciato gli effetti destabilizzanti dell’aumento record del costo dei prodotti alimentari nella vita concreta di milioni di africani che patiscono già di per sé la crisi alimentare. Temi giganteschi che vi racconteremo.

PR