L’associazione “Famiglie accoglienti” nasce a Bologna lo scorso 2018 a seguito del primo decreto sicurezza, con lo scopo di promuovere l’accoglienza diffusa e una cultura che metta al centro l’inclusione e l’integrazione delle persone immigrate, e in generale dei nuovi poveri, nonché la tutela dei loro diritti e il miglioramento delle loro condizioni di vita. L’Associazione prova così a mettere in atto i principi contenuti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, approvata 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con particolare riferimento all’articolo 13: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese” e di concretizzare il dettato della Costituzione italiana, con particolare riferimento all’art. 10 sul diritto d’asilo. Abbiamo intervistato la sua presidente, Antonella Agnoli.
Le famiglie che accolgono esistono da prima di questa associazione: quando e perché avete sentito la necessità di costituirvi in associazione?
Le famiglie che costituiscono la nostra associazione avevano aderito, ormai tre anni fa, attraverso la cooperativa Camelot (che oggi si chiama Cidas) al progetto VESTA, un progetto che si occupa, tra le altre cose, di trovare accoglienza e ospitalità almeno per nove mesi a quei ragazzi che – raggiunta la maggiore età – sarebbero poi dovuti uscire dagli SPRAR, interrompendo così un percorso di inserimento e integrazione. Gli incontri tra noi famiglie si erano avuti in occasione di alcuni corsi di formazione sull’esperienza che stavamo per intraprendere e in qualche momento di informale convivialità, come delle pizze in compagnia. Tuttavia quando nel 2018 è diventato legge il primo decreto sicurezza voluto dal ministro dell’interno Salvini, la cooperativa Camelot ha convocato noi famiglie per metterci al corrente di tutto ciò che questa nuova legge avrebbe comportato, è stato allora che abbiamo deciso di costituirci in associazione, per cercare di essere più strutturati e preparati ad affrontare la situazione che si stava complicando, innanzitutto per coloro che cercavano rifugio e un futuro in Italia, ma anche per chi come noi desiderava aiutarli in questa ricerca. Accanto a noi, voglio comunque ricordarlo, operano da sempre non solo le cooperative, ma anche una validissima e generosa squadra di avvocati di strada che, grazie al suo operato, ha ottenuto sentenze positive e importanti per agevolare il lavoro dell’accoglienza.
Quali obiettivi si pone l’associazione per le persone che accoglie e di quale particolare significato si carica il suo operato nell’Italia di oggi?
Innanzitutto voglio ricordare che le ragioni che spingono le famiglie ad accogliere sono le più disparate: dagli studenti che accolgono in una delle stanze del loro appartamento un ragazzo che ne ha necessità, a famiglie che desiderano che i loro figli possano fare esperienza diretta di culture diverse attraverso la condivisione della quotidianità con qualcuno che viene da regioni e storie lontanissime dalla loro, e molte altre ancora. L’obiettivo però per tutti è il medesimo: far sì che questi giovani possano realizzare i loro sogni, non solo trovare il loro posto in questa società, ma esserne partecipi e artefici. Tutto questo è possibile soltanto se si ottengono però i molti documenti necessari per avere la residenza, solo così infatti è consentito prendere la patente, studiare, lavorare, realizzarsi insomma, come previsto dall’articolo 3 della nostra Costituzione che indica anche, all’articolo 10, come comportarsi con gli stranieri cui sia impedito, nei Paesi d’origine, l’effettivo esercizio delle libertà democratiche.
Ma in questo preciso momento storico, in Italia, dopo il primo decreto sicurezza del 2018, gli scopi della nostra associazione sono diventati politici e culturali in senso ampio, sappiamo cioè di essere impegnati in una battaglia che per noi deve portare a una maggiore, più diffusa e consapevole accoglienza e integrazione in un Paese a cui sono stati iniettati dalla propaganda politica paura e sospetto.
Qual è il vostro rapporto con le istituzioni?
Noi non abbiamo rapporti diretti con le istituzioni, poiché questi sono mediati dalla cooperativa di riferimento, appunto la Camelot-Cidas. Tuttavia le istituzioni dovrebbero essere messe nella condizione di poter fare di più e meglio per gestire la cosiddetta questione immigrazione. Una volta raggiunta la maggiore età, ad esempio, i ragazzi richiedenti asilo possono essere accolti esclusivamente dai CAS o dalle strutture della Caritas, che è accreditata a farlo. Il comune di Bologna, per esempio, non può facilmente destinare fondi ad associazioni o progetti come il nostro; tuttavia è davvero vasto l’indotto dei servizi che le istituzioni anche non direttamente competenti in materia di immigrazione potrebbero mettere in piedi per agevolare l’accoglienza e l’integrazione, penso a percorsi di studio, di formazione professionale o linguistica…
Si potrebbe credere che con una vasta ed efficiente rete di associazioni e volontariato si possa sopperire gratuitamente a queste mancanze, ma la questione è più complessa e chiama in causa un aspetto quasi mai considerato, ossia la grande quantità di giovani italiani preparati e formati per fare da mediatori e gestire l’accoglienza che – anche come conseguenza dei decreti sicurezza – si vedono privati dell’opportunità di svolgere il mestiere che avevano scelto. Abbassare le quote destinate alle associazioni per gestire i pacchetti di servizi da destinare a ciascun migrante significa anche tagliare occasioni e posti di lavoro per i ragazzi italiani.
Come associazione Famiglie accoglienti stiamo tuttavia dialogando con istituti come Banca etica per trovare i fondi necessari affinché l’esperienza di accogliere non debba essere riservata ai pochi che se la possono permettere, ma possa coinvolgere più persone possibile. Ecco perché è stato importante e significativo che, attraverso la cooperativa Camelot e il comune di Bologna, si siano potuti garantire a chi accoglieva 350 euro mensili: solo così per esempio gli studenti cui accennavo sopra hanno potuto scegliere di non affittare la loro stanza ad altri studenti ma di accogliere un loro coetaneo africano, sia pure per pochi mesi.
Nel vostro sito si dice chiaramente che occorre ripartire non dai voti, ma dai volti: torno con la memoria alle parole che il troiano Ilioneo, profugo e naufrago sulle rive di Cartagine, rivolge a Didone, regina di quella città: propiusres aspice nostras, guardaci, consideraci più da vicino.
Infatti occorre proprio trovare il modo di guardare in faccia, dritto negli occhi queste persone, ascoltarne le storie (senza pretendere però che ci raccontino sempre e solo della terribile esperienza del viaggio, della traversata cui sono scampati): conoscerli insomma, instaurare un rapporto personale con loro. È questa la chiave che “disinnesca” la paura e il sospetto verso lo straniero trasformandolo in una delle persone con cui condividiamo parte della nostra esistenza: una casa, un tratto di strada, un’aula di scuola…
Sempre nel vostro sito si legge che “l’Italia non è quella che ci viene mostrata ogni giorno negli schermi televisivi”: quanto occorre creare e diffondere, a questo proposito, una contro-narrazione che sia antidoto alla vulgata mainstream, soprattutto quella della Tv e dei social?
È fondamentale farlo, partendo per l’appunto dal rapporto a tu per tu che noi famiglie abbiamo con i ragazzi che ospitiamo, raccontando questa nostra esperienza proprio laddove la paura è maggiore: nelle periferie, a quelle fasce di popolazione che tanto più avvertono lo straniero come pericolo e minaccia quanto più sentono fragile e incerto il loro stesso futuro. Sono loro che dobbiamo rassicurare, per esempio pensando a campagne che agiscano dove maggiore è il rischio di conflitto, per esempio negli autobus (il caldo, lo spazio ridotto, l’obbligata vicinanza sono fattori scatenanti rabbia e comportamenti razzisti e discriminatori); o dove – a causa della fragilità e dell’insicurezza percepita – è più facile che si generino e consolidino i pregiudizi, per esempio nei circoli per gli anziani. Sarebbe davvero importante far fare in questi luoghi esperienza diretta dell’effettiva alternativa che può avere la convivenza tra culture e generazioni diverse.
Noi poi, come famiglie accoglienti, abbiamo la possibilità di giocare l’importante ruolo di “garanti” di questi giovani stranieri: mostrandoci assieme a loro in condominio, al supermercato, in quartiere, a fare la spesa o a passeggio abbiamo l’occasione non tanto di rassicurare e inorgoglire i nostri ospiti, quanto di dimostrare ai nostri connazionali che un’altra strada e un’altra storia sono possibili, stanno già accadendo.
È capitato per esempio proprio alla mia famiglia, Agnoli-Tonello: Moussa è dei nostri da ormai tre anni, da molto più tempo cioè dei nove mesi previsti dal progetto, e la sua presenza – assieme a quella dei suoi amici – è divenuta consueta e gradita nel condominio dove abitiamo.
Una delle vostre recenti campagne è stata a sostegno di Rayane, il ragazzino divenuto simbolo dello sgombero a Primavalle di metà luglio scorso, ma anche di tutti gli altri studenti, circa una trentina. Perché proprio questa storia vi ha colpiti?
Per il valore simbolico fondamentale che possiede: ciò che mi dà dignità è studiare. Abbiamo raccolto in poco tempo molti fondi grazie al crowdfunding, a breve ci incontreremo con l’associazione Nonna Roma, che seguiva i ragazzini di Primavalle da tempo, per capire come investire al meglio questo denaro. Purtroppo il fatto che siano stati dispersi in diversi centri di accoglienza non aiuta, non è possibile per esempio pensare di costituire per tutti loro in un unico luogo, una biblioteca, ma qualcosa si farà comunque.
Accogliere: quasi un appello.
Credo che quella di accogliere qualcuno sia un’esperienza da fare, ricordando però che l’accoglienza può essere multiforme e adeguarsi alle caratteristiche e circostanze di ciascuno di noi. Accogliere, infatti, non significa soltanto avere lo spazio e la disponibilità di tenere con sé, in casa propria un’altra persona. Penso per esempio a un anziano “ciapinaro” bolognese, ossia uno di quei sempre più rari aggiustatutto dalle mani d’oro che risolvono ogni tipo di problema in casa, ebbene quest’uomo da qualche tempo porta con sé nelle sue uscite un giovane africano, con cui gira per le case – garantendo lui e per lui – e facendo sì che possa imparare il suo mestiere. Anche così si fa accoglienza.
Pubblicato giovedì 31 Ottobre 2019
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