Si discute da decenni di fascismo, con tutti i suoi vari prefissi (post, neo, parafascismo ecc…), eppure questo suo ultimo libro, L’antifascismo non serve più a niente, nonostante il titolo provocatorio, spiega con chiarezza come e quanto l’antifascismo abbia senso e importanza e “brilli di luce propria” a prescindere dal fascismo storico che lo ha generato: in che modo? Alla luce di questo, Greppi, perché allora alcuni docenti, come lei ha avuto occasione di ricordare in una recente intervista radiofonica, si sentono a disagio a spiegare l’antifascismo e la Resistenza a scuola? E qual è la soluzione da mettere in pratica, culturalmente – sul lungo periodo – e didatticamente?

Studiare la parabola dell’antifascismo storico ci aiuta a pensare, e non è una vuota formula retorica: la strabiliante capacità di formazione e autoformazione alla partecipazione politica – in senso stretto e in senso esteso – che hanno avuto gli antifascisti nel ventennio è uno dei ruoli fondamentali loro riconosciuti anche da chi è fortemente scettico sulla possibilità di renderlo attuale. Rivitalizzarlo potrebbe, sul lungo periodo, sconfiggere la generale disaffezione nei confronti della politica, e mettere le basi per una rinnovata partecipazione.

“L’antifascismo non serve più a niente”, si dice, eppure ha sconfitto il fascismo e la sua eredità è cruciale, oggi, per noi. Negli anni del regime prima, e poi durante la guerra civile, un pugno determinato di uomini e donne ha saputo andare controcorrente, pagando a carissimo prezzo un’opposizione intransigente al fascismo con il carcere e il confino, l’esilio, la vita stessa, e mostrando che un altro mondo era possibile. Quel mondo, a fatica e non senza un’amarezza forse fisiologica per i molti compromessi che ci sono stati e per i conti mai fatti veramente con il passato fascista, è sorto sulle ceneri del ventennio e della guerra, ed è in effetti “condensato” nella nostra Costituzione, che dovrebbe ricordarci quotidianamente quel bagaglio di valori che è il patto fondante della nostra comunità. Gli ultimi decenni hanno però visto una costante offensiva anti-antifascista che ha dato, ahinoi, i suoi frutti: diversi e diverse docenti mi hanno di recente manifestato il loro disagio perché a parlare di antifascismo e di Resistenza a scuola si rischiano polemiche, frizioni, scontri. È desolante, in effetti, perché quei valori vanno sovente, di nuovo, in direzione contraria rispetto al clima di un’epoca – questa volta è la nostra.

L’antifascismo storico ci ha affidato un mosaico di valori compositi e plurali, anche conflittuali ma radicalmente avversi a ogni pulsione parafascista: soprattutto i venti mesi resistenziali, con solide radici nei due decenni precedenti, attivarono una radicalità fino a quel momento impensabile in una porzione niente affatto irrilevante della società italiana, frantumando barriere di genere, di ceto, persino di nazionalità (nella Resistenza erano molti gli stranieri). Sono fortemente convinto che sia necessario insistere su questa radicalità, anche per fare chiarezza su chi vuole ricordare cosa: chi squalifica la memoria dell’antifascismo e della lotta partigiana lo possiamo chiamare in molti modi, certo, ma tutto questo proliferare di prefissi sul moderno fascismo (neo, post, cripto, para, ecc.) suggerisce che non è proprio la stessa cosa, ma neanche così diverso. È ovvio che il fascismo come l’Italia l’ha conosciuto tra il 1922 e il 1943, e poi tra il 1943 e il 1945, è morto e sepolto, ma è altrettanto ovvio che i fascisti, e chi a loro si ispira o con loro tesse legami, esistono eccome. Come ha scritto lo storico Mauro Canali, “Certo che QUEL fascismo non può tornare! Ma è questo che un democratico teme? Certo che no! Il cittadino democratico teme molto più realisticamente le versioni aggiornate del fascismo, una espressione aggiornata al contesto moderno”. E il compito di ogni docente in una scuola che sia davvero democratica è di vigilare sulla tenuta della democrazia, sapendo riconoscere senza tentennamenti che quel nemico è ancora – di nuovo – presente. Vivo, agguerrito, determinato a spazzare via ogni voce contraria.

Emilio Gentile intitola un suo saggio Chi è fascista?, alla fin fine rispondendo che forse nessuno, dopo il 1945, ha più titolo per esserlo; rimodulo la domanda per vedere se – posta così – ci aiuta a capire qualcosa in più: chi è, oggi, anti-antifascista? A chi e perché antifascismo e antifascisti danno sempre tanto fastidio?

Andando oltre l’osservazione lapalissiana che il fascismo storico è finito a piazzale Loreto a testa in giù, 75 anni fa, non so se le decine di migliaia di persone – probabilmente di più – che oggi non hanno problemi a definirsi “fasciste” sarebbero d’accordo con Gentile. Norberto Bobbio, scrivendo a Claudio Pavone alla fine del 2000, notava vividamente e con preoccupazione come già allora andasse di moda dire che “il fascismo non era poi così male” mentre si prendeva a bersaglio la Resistenza armata, dicendosi “pienamente d’accordo” con Pavone sul respingere l’idea della storia “come generale patteggiamento tra i diversi opposti”. Il fascismo storico e l’antifascismo storico sono finiti? Certo. Ma dell’antifascismo non sono affatto superate le ragioni, le convinzioni, né devono esserlo le sue riflessioni e le sue pratiche contro ogni forma di torsione verso regimi criminali e “tutte le forme di fascismo, larvate o aperte, represse o trionfanti” (sono parole di Angelo Tasca, del 1938), anche se questo dovesse significare la cospirazione, l’esilio, il carcere, la disobbedienza, la lotta: perché solo l’intransigenza e l’unità d’azione possono sconfiggere il lupo, se dovesse tornare in “espressioni aggiornate al contesto moderno”.

L’“auto-intervista” di Emilio Gentile Chi è fascista chiude diligentemente a doppia mandata il lemma “fascista” all’interno del ventennio, ma all’estremo opposto Il fascismo eterno di Umberto Eco, tratto da una conferenza del 1995 a un pubblico statunitense, ci metteva in guardia: il pericolo del ritorno di fiamma è sempre dietro l’angolo, e per questo, ne sono convinto, essere antifascista ha senso ora come allora, anche e soprattutto se dà fastidio. Contro Eco, come sappiamo, c’è stata una levata di scudi post mortem, nonostante il suo pungente libercolo affermasse fin da subito che “possiamo dire con tranquillità” che sarebbe difficile vedere “i governi totalitari che dominarono l’Europa prima della seconda guerra mondiale” ritornare “nella stessa forma in circostanze storiche diverse”. Ma “dietro un regime e la sua ideologia c’è sempre un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni”, ammoniva Eco. “Si può giocare al fascismo in molti modi, e il nome del gioco non cambia”, diceva prima di ipotizzare una lista di caratteristiche tipiche del suo “fascismo eterno”, dal culto della tradizione a quello dell’azione indipendentemente dalla sua sostanza, dalla paura della differenza all’appello alle classi medie frustrate, dalla pulsione verso la morte (“nella sua impazienza, va detto in nota, gli riesce più di frequente di far morire gli altri”) al machismo (e relativa “invidia penis permanente”), dal disprezzo per la democrazia alla sfacciataggine di un leader che pretende di essere l’interprete di una presunta “volontà comune” – solo per citare le caratteristiche che più saltano all’occhio un quarto di secolo dopo. E, in conclusione, Eco aggiungeva: “Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: ‘Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane!’. Ahimè, la vita non è così facile”. Lo ha ribadito di recente Canfora nel suo pamphlet Fermare l’odio: “finché ci sono anticorpi (e ce ne sono), si deve reagire: nonostante l’irridente frastuono giornalistico proteso ad enfatizzare le differenze tra ‘ora’ e ‘allora’”. Perché “anche ‘allora’ si scivolò per gradi”.

L’offensiva anti-antifascista degli ultimi trent’anni viene innanzitutto dalle destre (moderata, nazionalista, neofascista…) ma ha anche una forte componente che è – in origine, se non altro – anticomunista: è un detrito novecentesco in gran parte estraneo alla mia generazione ma che rende incandescente il dibattito che assomiglia molto, a tratti, a una resa dei conti tra le varie sinistre del secolo scorso, una parte considerevole delle quali è scivolata pericolosamente, appunto, a destra. Facendo propri gli strali e le argomentazioni proprio di quella destra nostalgica alla quale dice – timidamente, di rado – di volersi opporre. Come ha osservato Filippo Focardi, la “memoria grigia” anti-antifascista del Paese è tradizionalmente stata “per alcuni aspetti contigua alla contronarrazione rancorosa e identitaria di matrice neofascista”. Non è facile rispondere con nettezza alla tua domanda, ma l’impressione è che chi adesso si sgola a sottolineare le differenze tra ieri e oggi – spesso mosso fondamentalmente da vis polemica – corre il rischio di non cogliere le tremende assonanze che scuotono il senso comune e lo spazio pubblico, e sottovaluti il peso che il referente “fascismo” ha nell’Italia odierna, percorsa da profonde inquietudini e continui rimandi a quel passato in apparenza così distante. Il fascismo – come memoria, come possibile “soluzione” – è tornato di moda, e dar contro all’antifascismo farfugliando distinguo che (nella migliore delle ipotesi) mostrano solo inutili narcisismi, secondo me svela una sola bruta realtà: chi lo fa non è particolarmente turbato dal pericolo autoritario che aleggia sull’Italia e sull’Europa di questi anni.

In questo libro (vero e proprio bestseller estivo della saggistica politica) vi è un continuo rimando, non solo in nota, ad opere fondamentali della storiografia resistenziale e del Novecento: come mai? Forse questo tanto parlare di ventennio e fascismo è del tutto o quasi scollato dai fatti?

Assolutamente: il frastuono dei mass media tradizionali e dei sopraggiunti social ha dato la spallata decisiva a un senso comune grossolano e male informato su fascismo, antifascismo e Resistenza. Ritengo che il recente emergere su scala macroscopica dell’anti-antifascismo sia stato favorito proprio dall’affievolirsi di temi che, dati sovente per scontati tra gli storici, sono di conseguenza svaniti dallo sfondo del discorso pubblico, lasciando ampio spazio all’agenda della destra, alla legittimazione del fascismo – del regime e della Repubblica di Salò – e alla conseguente delegittimazione di valori e pratiche dell’antifascismo storico. Perché ci si è opposti a un regime che, in fondo, “non era così male”? Era proprio necessario l’uso della violenza? Per questa ragione, ad esempio, considerato che – come osserva la storica Chiara Colombini in uno dei prossimi libri della serie Fact Checking di Editori Laterza, Anche i partigiani, però… – “alcuni elementi del racconto che mette in stato d’accusa la Resistenza sono filtrati anche nel discorso che oggi intende difenderla (e che ovviamente è e resta diverso nei suoi intenti)”, siamo costretti a tornare su questioni per molti e per molte ovvie. Ma che non lo sono per moltissime persone che nella vita non si occupano di storia. È lecito fronteggiare con le armi un regime criminale e disobbedirgli? Può esistere una violenza “giusta”? La risposta a entrambe le domande è ovviamente positiva, e tra i tanti basta rileggersi Calvino, Fenoglio o Pavone per delinearne i contorni.

Lo storico e scrittore Carlo Greppi e il suo ultimo libro, “L’antifascismo non serve più a niente”, edito da Laterza, 2020

Ricordare l’eredità fondativa dell’antifascismo, ripescando stralci biografici, azioni, scritti e discorsi di protagonisti di quella stagione e attingendo al prezioso lavoro di chi l’ha studiato, è un modo per ribadirne le traiettorie, le difficoltà, le conquiste. Annegate in un mare di retorica, di ritualità, poi di indifferenza e infine di dileggio, le celebrazioni di chi sconfisse il fascismo a durissimo prezzo vanno riempite di nuovo di significato – coriaceo, vero, reale come reali furono le vite spese nella battaglia. Ritrovando parole e immagini già presenti nei libri che giacciono nelle nostre biblioteche: devono essere riproposte con forza in uno spazio pubblico antropologicamente mutato a persone che, come osservi giustamente, distorcono all’inverosimile il rapporto tra fatti e “opinioni”. Le opinioni rimangono tali solo all’interno di una determinata cornice: quello che noi sappiamo del passato lo conosciamo perché qualcuno/a ha scavato e ha studiato delle fonti (attraverso il suo sguardo, ma con metodo), proponendone un racconto documentato e un’interpretazione (personale, ma verificabile), proseguendo un dialogo a distanza con altri lavori di colleghi e colleghe del presente o del passato. Sulle ricostruzioni documentate e verificabili di fatti, poi, possiamo formare le nostre opinioni.

Dalle righe di questo libro traspare in maniera forte e nitida, come forse non ci si aspetterebbe da un saggio, il coinvolgimento emotivo da parte dell’autore: possiamo considerarlo compatibile col mestiere dello storico o, in qualche modo, un aspetto della ricerca stessa?

Il coinvolgimento è connaturato al mestiere di storico, perché nella storia c’è sempre un forte tasso di soggettività – ne ho scritto ampiamente in un libro (La storia ci salverà. Una dichiarazione d’amore, Utet 2020). Detto in maniera più brusca: la storia non può essere “oggettiva” o “neutrale”, semplicemente perché è fatta da persone in carne e ossa che scelgono di cosa occuparsi e come occuparsene. Certo esiste l’onestà intellettuale, con la quale si dichiara che tipo di ricerca si è fatta e per che tipo di messa in scena si è optato, se no ci troveremmo a navigare tra fatti superficialmente “oggettivi” senza comprendere assolutamente nulla. Ma contrapporre conoscenza ed emozione, come a volte si è fatto, rischia di essere ridicolo. La storia è spesso, se non sempre, terribile e meravigliosa: parla di e a noi umani, di ciò che siamo capaci di fare – nel bene e nel male. Chiunque abbia un cervello in testa e un cuore nel petto si commuove o si indigna a scavare nel nostro passato più o meno recente: il punto è che alcuni non ritengono legittimo dichiararlo, io invece credo che sia sempre importante rivelare il proprio grado di coinvolgimento quando si studia l’uomo nel tempo. A volte, parlando di storia, ci si dimentica che la materia di cui si tratta è la vita reale: si parla di vicende che hanno riguardato persone che hanno camminato su questo pianeta prima di noi.

Anteo Zamboni
Anteo Zamboni all’età di circa 7 anni (da wipedia)

Come si fa a non fremere di rabbia leggendo del linciaggio che lasciò in terra, con 14 pugnalate, un colpo di pistola e innumerevoli sputi e calci, il corpo seminudo di Anteo Zamboni, un ragazzino di 15 anni e mezzo massacrato dalla folla, dalle forze dell’ordine e da un gruppo di fascisti dopo che un colpo di rivoltella mancò di un soffio Mussolini a Bologna? I militi fascisti che arrivarono in ritardo all’appuntamento con l’orgia di violenza, per aggiungere un altro dettaglio terrificante, conficcarono i loro pugnali ancora nel cadavere, per poterli mostrare come trofei, lordi di sangue. Si possono fare incalcolabili esempi, ma per rimanere sul tema di questa conversazione vorrei citare uno degli incipit più pacatamente strazianti tra le ultime lettere dei condannati a morte della Resistenza, a firma dell’azionista Paolo Braccini, assassinato al Poligono di tiro del Martinetto di Torino all’alba del 5 aprile del 1944. Sono parole che andrebbero scolpite a caratteri cubitali all’ingresso di ogni scuola, di ogni edificio pubblico d’Italia, e che ogni giorno mi ricordano perché mi occupo di questa storia.

“Gianna, figlia mia adorata, è la prima ed ultima lettera che ti scrivo e scrivo a te per prima, in queste ultime ore, perché so che seguito a vivere in te.

Sarò fucilato all’alba per un ideale, per una fede che tu, mia figlia, un giorno capirai appieno”.

“Cara Gisella, quando leggerai queste righe il tuo papà non sarà più”, gli fa eco il comunista Eusebio Giambone prima di essere fucilato con lui, aggiungendo: “Per me la vita è finita, per te incomincia, la vita vale di essere vissuta quando si ha un ideale, quando si vive onestamente, quando si ha l’ambizione di essere non solo utili a se stessi ma a tutta l’Umanità”. Furono persone così – figure immense – a vincere il fascismo: vogliamo forse dimenticarle? Come si fa, leggendo queste parole, a dire che l’antifascismo non serve più a niente? Dalla capacità di arrivare unito e determinato alla battaglia finale che ebbe questo pugno di uomini e donne controcorrente abbiamo ancora molto, moltissimo, da imparare.