Della necessità di una lettura che tenga conto della complessa natura e della storia di questo istituto politico, nonché della conseguente difficoltà a ridurlo entro lo schema di un modello ideale, dà conto l’ampio e meditato saggio di Enzo Fimiani “L’unanimità più uno”. Plebisciti e potere, una storia europea (secoli XVII-XX), Le Monnier, 2017, che propone una riflessione sia metodologica sia storica delle ambivalenze e delle antinomie che ne hanno accompagnano la nascita e i successivi sviluppi.

Nel corso della sua lunga vita, peraltro, l’istituto plebiscitario si è rivelato uno strumento estremamente flessibile e adattabile a situazioni sociali e giuridiche tra loro molto differenti, e in diverse circostanze ha svolto un ruolo essenziale come fattore di risoluzione di contraddizioni non altrimenti componibili: è emblematico, a questo proposito, il caso dei plebisciti che accompagnarono la formazione del regno d’Italia e che, in virtù dell’espressione di un consenso pressoché unanime da parte di un corpo elettorale molto esteso, conferirono al nuovo Stato la credibilità e la forza di cui aveva bisogno per interpretarne le più profonde e reali aspirazioni e affermare la propria legittimità di fronte all’opinione pubblica interna e nel consesso delle potenze europee. La vicenda italiana, la cui peculiarità consiste proprio nella fusione di temi di politica interna e internazionale, evidenzia inoltre quella che l’autore indica come “la comune caratteristica” della pur varia casistica plebiscitaria europea, quella appunto di “costringere l’individuo-cittadino a una sorta di bivio (uguale in sostanza sotto qualsiasi cielo, cronologico, spaziale, politico): pronunciarsi cioè su un quesito determinato, scelto non dalla base ma dai detentori del potere, e farlo attraverso una risposta secca, affermativa o negativa, in una logica, per così dire, da tertium non datur. Visti da questa prospettiva, in effetti, i plebisciti organizzati dal 1848 al 1870 nelle diverse regioni della Penisola, non solo assicurarono la sanzione popolare al fatto dell’unità nazionale e alla forma statuale che essa assunse, ma servirono alla classe dirigente liberale per escludere in via definitiva possibili percorsi alternativi, a partire dall’idea di una costituente nazionale che fondasse su basi diverse dallo Statuto albertino (una costituzione octroyée, concessa dal sovrano e non deliberata da un corpo rappresentativo), l’ordinamento del nuovo Stato.

Per questo profilo, la “via italiana” al plebiscito appare, per finalità e circostanze, differente da quella francese, dove il plebiscito stesso, da Napoleone in avanti, si venne affermando soprattutto con il carattere di strumento privilegiato di politica interna, al quale ricorrere quando fosse stato necessario rivestire con i panni democratici ereditati dalla tradizione rivoluzionaria mutamenti istituzionali ad essa antitetici. Al tempo stesso, non sembra casuale che, in un arco temporale che va dalla fine del XVIII secolo alla seconda metà del secolo successivo, l’istituto plebiscitario, come peraltro ricorda l’autore, segni soprattutto la vita pubblica di due realtà statuali come l’Italia e la Francia, accomunate, nel panorama del costituzionalismo europeo ottocentesco, da un elevato livello di centralizzazione politico-amministrativa, che, per questo aspetto, offrì un contesto particolarmente favorevole all’affermazione di una pratica, quale appunto quella plebiscitaria, mirata a realizzare forzosamente il massimo grado di omogeneità politica in seno alla società civile, in momenti di grave e acuta crisi istituzionale, attorno a opzioni già precostituite e comunque prive di alternative concrete. Nei casi in cui la pratica referendaria si intreccia storicamente a modelli istituzionali fortemente decentralizzati (come in Svizzera, dove peraltro anche le modifiche della Costituzione federale sono di norma soggette all’approvazione popolare), essa opera peraltro in modo differente per finalità e contenuti, in quanto viene utilizzata come modalità di risoluzione di questioni anche gravi e importanti, ma non tali da coinvolgere l’insieme dell’indirizzo politico e dell’assetto istituzionale del Paese.
Impegnato in un difficile lavoro di classificazione, reso scivoloso dalla natura ambigua dell’oggetto, l’autore si sofferma su un altro aspetto dell’istituto plebiscitario, che, oltre a costituire un importante strumento di politica interna, ha trovato un esteso campo di applicazione nella regolazione di questioni di diritto internazionale, dove “[è servito] a dirimere – scrive – non poche volte in malo modo, questioni legate alle appartenenze di nazionalità e a mutamenti territoriali o statuali”. Il coinvolgimento del corpo elettorale per decidere controversie territoriali e di confine è stato molto frequente soprattutto nel ventennio tra le due guerra mondiali, elemento emblematico della fragilità del “concerto europeo” emerso dalla Pace di Versailles e al tempo stesso strumento efficace per l’affermazione delle rivendicazioni delle nazioni revisioniste: l’Anschluss fu approvato con plebiscito e il colpo di mano contro la Cecoslovacchia fu sancito dal voto plebiscitario per l’elezione dei rappresentanti nazisti dei Sudeti nel Reichstag. Questi e altri esempi di cui dà conto la minuziosa analisi storica contenuta nella seconda parte del volume, offrono più di una conferma dell’assunto iniziale dell’autore, sul carattere mutevole e proteiforme di un istituto che nella sua applicazione ha incarnato spesso il lato oscuro della forma democratica di organizzazione dei poteri fondata sul principio della sovranità popolare.

Non si possono non richiamare, a tale proposito, le varie modalità con le quali il percorso plebiscitario ha assecondato, negli anni successivi al primo conflitto mondiale, la crisi e la liquidazione delle democrazie parlamentari e il consolidamento dei regimi totalitari, a partire dall’Italia fascista. In queste realtà, il pronunciamento del corpo elettorale svolse un ruolo “ideologico” di grande rilievo, non solo nella sanzione del carattere definitivo e irreversibile del rivolgimento istituzionale intervenuto, ma anche nella consacrazione del capo carismatico, palesandone il legame organico con il popolo. Il diritto di voto, elemento costitutivo della cittadinanza democratica, veniva così esercitato per porre fine ai regimi rappresentativi parlamentari, dei quali pure aveva costituito il presupposto: come scrive Hannah Arendt, “il plebiscito mette fine al diritto dei cittadini di votare, di scegliere e di controllare i governanti”.
Eppure, ci ricorda Fimiani commentando la citazione della filosofa tedesca, se il plebiscito è senza dubbio uno degli strumenti che meglio si presta a favorire lo sbocco autoritario di una crisi di regime, esso non è riducibile solo a questo pur rilevante profilo, e il suo naturale polimorfismo lo conduce a percorrere vie diverse da quelle precedentemente intraprese, nascondendo, per utilizzare una metafora dell’autore, diversi possibili esiti e nuove combinazioni nelle pieghe del suo mantello. È appena il caso di richiamare, a titolo di esempio, il caso della Francia nel secondo dopoguerra, quando, in momenti storci differenti ma accomunati da un contesto politico “aperto”, nel 1946 e nel 1969, l’elettorato bocciò i progetti di Costituzione e di riforma costituzionale ad esso sottoposti; e sempre restando oltralpe, non si può non richiamare la peculiarità del passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica, laddove il voto popolare, se diede legittimità, in coerenza con la più pura logica plebiscitaria, al rafforzamento del potere esecutivo a scapito di quello legislativo, lo fece però in forme e con esiti del tutto diversi da quelli registrati nel secolo precedente e nel primo dopoguerra, pur ridisegnando la dislocazione dei poteri in un senso comunque orientato ad accentuare il carattere decisionista e centralizzato dell’ordinamento.

In questo quadro, appare anche problematico tracciare una linea netta di separazione, perfino sul piano terminologico, tra il ricorso al voto popolare per legittimare un mutamento di regime politico o regolare una situazione di diritto internazionale (plebiscito in senso stretto) e la previsione costituzionale del ricorso al voto popolare in circostanze codificate (referendum); in linea di massima, si può affermare che il plebiscito si manifesta prevalentemente nella forma di un evento eccezionale, di rottura dell’ordinamento esistente, proprio in quanto di regola si cala in contesti di crisi istituzionale e di cambiamento di regime; mentre su un altro versante, il referendum si presenta come istituto integrativo e non oppositivo in regime di democrazia rappresentativa, componente fisiologica e non eccezionale all’interno del circuito della decisione politica. Ma una simile distinzione, se può essere utile per definire tipologie ideali, deve scontare numerose e significative eccezioni, a partire, ad esempio, dal referendum istituzionale del 1946, in Italia, un evento che, pur presentando i caratteri del plebiscito per il carattere alternativo della scelta sulla forma di Stato sottoposta al corpo elettorale, si svolse entro un contesto legale ben definito dalle norme che disciplinarono la transizione alla democrazia.
Di certo, l’indagine sui modelli plebiscitari e sulla loro possibile evoluzione non può essere considerata un discorso concluso una volta per tutte e da consegnare ai bilanci degli storici; anzi, nei travagli di un presente reso ancora più incerto dalla crisi economica e morale di questi anni, la tentazione plebiscitaria torna ad affacciarsi oggi come risposta possibile ed efficace alla crisi di consenso che scuote le democrazie moderne. Le nuove tecnologie informatiche aprono, per questo aspetto, prospettive nuove e inedite: tuttavia, ad oggi, la possibilità di consultare simultaneamente un numero indeterminato di soggetti su un numero indeterminato di questioni, non solo non è risultata migliorativa della qualità della partecipazione democratica dei cittadini alla vita pubblica, ma ha configurato prospettive non del tutto rassicuranti, di tipo, per così dire, neo oligarchiche, tali da prefigurare nuove e più inquietanti forme di leadership carismatica, in contesti nei quali la rete agisce più come moltiplicatore di stati d’animo emotivi che come canale di dialogo e partecipazione. A maggior ragione, dunque, è opportuna una riflessione critica su un fenomeno che proprio per la sua mutevolezza e flessibilità, non ha esaurito le proprie potenzialità di incidere sulla realtà politica del presente in forme certamente nuove, ma che non appaiono scevre dalle insidie che lo hanno accompagnato nella sua storia secolare.
Pubblicato giovedì 21 Dicembre 2017
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