Monsignor Giovanni Barbareschi (da https://youtu.be/MTz-G1o_kno)

Classe 1922, sguardo vivace e meditativo. Monsignor Giovanni Barbareschi è seduto sulla sua poltrona quando lo vado a trovare e mi accoglie amichevolmente, ascoltandomi con attenzione quando gli racconto dei gruppi di neofascisti che si prendono spazio anche nella nostra Milano e dei cosiddetti “moderati”, che certamente non sono fascisti, ma neppure vedono il rischio che questi tempi portano con sé. Mi ascolta in silenzio, ma dalla sua reazione intuisco che la voglia di resistere e impegnarsi non lo ha lasciato. A differenza di altri testimoni che ho avuto modo di incontrare, non faccio fatica a vedere in quel fisico da novantaseienne, pacato e insieme fiero, quello di un uomo che ha fatto della libertà la propria ragione di vita ribellandosi al fascismo. Di famiglia genuinamente antifascista, da ragazzo don Giovanni aderì al gruppo scoutistico clandestino delle Aquile Randagie, dopo che il fascismo nel 1928 aveva sciolto l’associazione. Da questo nucleo, dopo l’8 settembre, nascerà l’O.SC.A.R. (Opera Scoutistica Aiuto ai Rifugiati, corretta poi in “Opera Soccorso aiuto ai Rifugiati”), con l’obiettivo di organizzare l’espatrio di persone perseguitate e la produzione di documenti falsi. Si stima che l’organizzazione abbia portato in salvo al di là dei confini più di 2.000 persone, tra cui Indro Montanelli e molti ebrei. Per questa ragione don Giovanni, Medaglia d’Argento al Valor Militare per la Resistenza, è stato dichiarato “Giusto tra le nazioni” dallo Yad Vashem.

Don Giovanni, oggi le organizzazioni neofasciste stanno avendo sempre più legittimazione, insidiando vari gruppi della popolazione; qual è il ruolo della società civile consapevole di fronte a tutto ciò? Come rispondere?

Resistere e cercare di diventare persone libere! Anche se oggi resistere è più difficile, perché non siamo di fronte a mitra puntati, ma siamo coinvolti in un clima di subdola persuasione, di fascinosa imposizione mediatica, che è come una mano rivestita di un guanto di velluto, ma è sempre una mano che cerca di strangolarti e di toglierti la libertà.

Quegli anni di lotta, mi confida, furono i momenti più intensi e veri di tutta la sua vita per la pienezza con cui visse ogni istante e per la consapevolezza che la morte poteva sopraggiungere da un momento all’altro. Perché la libertà va conquistata e difesa e questo ovviamente comporta un rischio, ma, come scriveva Mazzini, “più che la schiavitù, temo la libertà portata in dono. Dell’O.S.C.A.R facevano parte sia sacerdoti, come il beato don Carlo Gnocchi, sia laici come Carlo Bianchi, Presidente della FUCI milanese (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) e Teresio Olivelli. La maggior parte di loro pagò con l’arresto, la tortura e il campo di concentramento. Questo gruppo si dotò anche di un giornale clandestino chiamato “Il Ribelle”, che esce come e quando può. Il giornale ebbe una incredibile tiratura di 15.000 copie per un totale di 26 numeri pubblicati.

Don Carlo Gnocchi. Beato della Chiesa cattolica, cappellano deli Alpini, partigiano (da http://www.ilbacodaseta.org/wp-content/uploads/ 2015/02/Don_Gnocchi_alpino_580.jpg)

Come è iniziata la sua esperienza nella Resistenza?

Ero alla Casa Alpina di Motta, in provincia di Sondrio, e ho aiutato molti ebrei ricercati e perseguitati a passare il confine, entrando in territorio elvetico, dove non erano né perseguitati né ricercati: erano persone libere. La Resistenza armata ha avuto un suo senso, un suo significato, ma la Resistenza vera è stato dire di no alle SS.

Che significato aveva per voi combattere il fascismo anche con un giornale clandestino?

Volevamo diffondere delle idee, dei principi, soprattutto pensando al futuro dell’Italia. Sul nostro giornale abbiamo scritto:“non esistono liberatori, ma solo uomini che si liberano”. Insomma, il primo atto di fede che un uomo deve fare non è in Dio, ma nella sua libertà, e ve lo dice un prete.

Il 10 agosto 1944 è don Giovanni, ancora diacono, a portare la benedizione del Card. Schuster, Vescovo di Milano, ai Martiri di piazzale Loreto, cercando nelle loro tasche gli ultimi bigliettini per le famiglie e pregando sui loro cadaveri. Alzandosi, vide che tutta la folla presente in piazza si era inginocchiata a pregare con lui, un ricordo che ancora oggi suscita in lui commozione e lacrime. Ordinato sacerdote, il 15 agosto viene arrestato e condotto a S. Vittore, nel V raggio, destinato ai detenuti politici, cella 102. Quattro ore dopo l’interrogatorio, bussa alla sua cella un secondino, chiedendogli: «Sei un prete davvero? Due celle più in là ci sono sette giovani che domani mattina saranno fucilati, hanno chiesto di un prete, te la senti? Guarda che se ti vedono fucilano anche te!». Liberato su pressione del Vescovo, don Barbareschi è di nuovo arrestato e deportato nel campo di concentramento di Bolzano. Riesce poi a fuggire durante il trasferimento in Germania, gettandosi dalla camionetta.

da http://www.fiammeverdibrescia.it/la-stampa-clandestina/

Come ha fatto a sopportare tutto questo? Come ha saputo superare quella che voi, nella preghiera “Signore facci liberi”, pubblicata sul vostro giornale, chiamavate la “tentazione degli affetti”?

Fu la certezza che la libertà era vicina e che noi dovevamo con le nostre azioni aiutarla ad arrivare subito.

Unitosi alle formazioni partigiane cattoliche delle Fiamme Verdi sulle montagne del bresciano, don Barbareschi vi presta assistenza spirituale come cappellano. Durante l’insurrezione di Milano salva dal linciaggio il caporale delle SS Franz Staltmayer, che in carcere lo aveva torturato per ottenere i nomi dei compagni di lotta. Così anche fece per il colonnello nazista Eugen Dollmann. Entrambi furono consegnati agli americani in territorio svizzero. A questo punto mi sorge una domanda, forse un po’ sfrontata, ma necessaria per capire il perché della sua lotta partigiana.

Cosa hanno in comune il salvare ebrei ed antifascisti dalla persecuzione e il salvare gli stessi aguzzini dal linciaggio dopo la Liberazione?

Difendere le persone. Prima si trattava di portarle in salvo oltre confine in territorio elvetico, dopo la Liberazione fare in modo che avessero un regolare processo. Significa difendere la dignità di ogni persona, perché ogni persona ha il diritto e il dovere di vivere da persona libera da ogni condizionamento personale e sociale.

Don Giovanni Barbareschi mentre celebra una messa in montagna tra i partigiani della Divisione delle Fiamme Verdi “Tito Speri”.

C’è un fatto della lotta partigiana che ricorda in particolare e che vuole condividere?

Ricordo quando un detenuto è venuto a dirmi: «Uccidimi, non voglio negli interrogatori tradire qualche compagno o amico rivelando il suo nome».

E cosa successe?

Non ha più ripetuto la domanda, perché aveva compreso che non l’avrei mai fatto, non l’avrei mai ucciso.

Dopo la guerra, l’attività pastorale vedrà il sacerdote impegnato soprattutto nell’ambito educativo, nella scuola al liceo Manzoni, come assistente spirituale della FUCI, come giudice del Tribunale ecclesiastico e come presidente dell’Istituto Diocesano Sostentamento Clero. Tuttavia gli anni della Resistenza resteranno profondamente radicati in lui e lo porteranno a maturare un giudizio pacato e limpido sul fascismo, che definisce così:

Il fascismo è togliere la libertà, anche quella di pensare in modo libero. Perché il fascismo non è solo una dottrina, un partito, una camicia nera o un saluto romano, il fascismo è un modo di vivere nel quale ci si arrende e ci si piega per amore di una carriera o di un quieto vivere. È una mentalità nella quale la verità non è amata e servita perché verità, ma è falsata, ridotta, tradita, resa strumento per i propri fini personali o del proprio gruppo, del proprio partito. È una mentalità nella quale teniamo più all’apparenza che all’essere. Amiamo ripetere frasi imparate a memoria, non personalmente assimilate e gridarle tutti insieme, quasi volendo sostituire l’appoggio del mancato giudizio critico con l’emotività di un’adesione psicologica, fanatica.

Negli anni dell’episcopato del Cardinal Martini promuoverà un lavoro di raccolta delle piccole e grandi testimonianze dei sacerdoti ambrosiani durante i duri anni dell’occupazione nazifascista e che durante la Resistenza vollero essere “ribelli per amore”, sentimento e proposito che ancora oggi in don Giovanni è più che mai vivo.

Cosa rappresenta per lei la libertà?

La libertà è per me la cosa essenziale: ripeto sempre che la cosa più importante è diventare una persona libera dai condizionamenti che ci circondano. È questa la vera meta per un essere umano.

C’è un messaggio che vuole lasciare ai giovani?

Innamoratevi della libertà e ricercatela sempre in ogni pensiero e in ogni vostra azione.