È tempo di eroici stupori. Uno dei tanti è il seguente: il 20 settembre si dovrebbe celebrare il 150° anniversario della breccia di Porta Pia. È la stessa data del voto regionale e amministrativo e del referendum. Una scelta doppiamente infelice. In primo luogo perché accorpa voti di natura del tutto eterogenea. In secondo luogo perché oscura la ricorrenza. Infatti ad oggi le istituzioni hanno ignorato l’evento che assume il doppio significato del compimento dell’Unità e della prevalenza del principio di laicità dello Stato. Non è un buon segnale. Patria Indipendente ricorda la breccia di Porta Pia con una ricostruzione storica ed un’analisi critica attraverso la penna di Valerio Strinati.
Gli osservatori italiani e stranieri che assistettero il 20 settembre 1870 all’ingresso in Roma delle truppe del Regno d’Italia e alla contestuale fine del plurisecolare potere temporale del papato, percepirono, probabilmente, quell’atto, di scarso impatto militare ma di enorme portata politica, come il coronamento della sequenza di circostanze fortunate che, insieme alla sagacia diplomatica dello scomparso Conte di Cavour e al valore militare (e, secondo alcuni, alla scarsa avvedutezza politica) di Giuseppe Garibaldi, avevano portato, nel giro di poco più di un biennio, all’assorbimento degli Stati della penisola in un unico regno, con oltre 22 milioni di abitanti e un potenziale economico e militare che lo candidava a entrare nel novero delle grandi potenze europee.
Come altri episodi del percorso che aveva portato alla nascita del Regno d’Italia, la riunificazione di Roma all’Italia si realizzava nel segno di un importante evento della politica europea: la guerra franco-prussiana, ovvero un conflitto che si presentava con caratteristiche differenti da tutte le precedenti guerre europee, e, per mobilitazione di uomini e mezzi, anche se non per durata, appariva simile alla guerra civile americana conclusasi cinque anni prima.
Nel conflitto tra la tradizione militare della Francia napoleonica, ritenuta invincibile, e la ferrea organizzazione prussiana, quest’ultima aveva avuto rapidamente e nettamente il sopravvento, perché aveva compreso e attuato meglio dell’antagonista, la necessità di mobilitare un ampio spettro di risorse materiali e morali al servizio dell’impresa bellica: le ferrovie, l’industria, il superiore livello di istruzione dei quadri dell’esercito e della stessa truppa, frutto di una capillare scolarizzazione, aveva garantito una più consapevole partecipazione e una maggiore disciplina. Tra i due antagonisti, Napoleone III (“Napoléon le petit”, secondo la mordace definizione di Victor Hugo) e Bismarck, quest’ultimo risultava largamente vincitore e l’esito vittorioso del conflitto stabilizzava un modello di state building basato sull’intreccio tra la modernizzazione socio-economica, il conservatorismo e il nazionalismo politico, che avrebbe svolto un ruolo egemone nella politica europea degli anni successivi, fino allo scoppio della Prima Guerra mondiale, e che avrebbe fortemente influenzato la vicenda politica italiana del successivo ventennio.
Ultimo arrivato sullo scenario della grande politica, il Regno d’Italia scontava, anche nella sua presenza sullo scenario internazionale, le difficoltà legate alle contraddizioni strutturali che l’unificazione politica, lungi dall’avere risolto, sembrava avere aggravato, per l’approfondirsi degli squilibri territoriali tra Nord e Sud e per l’indifferenza, se non l’ostilità – ferocemente manifestatasi con il brigantaggio meridionale – delle classi subalterne, soprattutto nelle campagne, dove prevalevano condizioni di ignoranza e miseria spaventevoli. Sconfitto nella guerra con l’Austria del 1866, che solo grazie ai successi dell’alleato prussiano aveva portato comunque all’annessione del Veneto, il neonato Regno, con la sua classe dirigente, pur avendo constatato con mano come quelle debolezze strutturali lo condannassero a un ruolo subalterno anche nella politica estera, era rimasto sordo agli appelli della parte più avvertita dell’opinione pubblica e dell’intellettualità, e alla richiesta di porre mano a riforme che contribuissero a formare una coscienza nazionale e avvicinare il popolo alle istituzioni liberali: la vera causa delle disfatte militari dell’Italia durante la III guerra d’indipendenza (1866), aveva ammonito lo storico Pasquale Villari, non andava ricercata nella inespugnabilità delle fortezze che costituivano l’ultimo baluardo della presenza dell’impero asburgico nella penisola, ma nella miseria che attanagliava le classi subalterne e nella “rettorica” in cui si dibatteva la classe dei colti. “Non è il quadrilatero di Mantova e Verona – scriveva Villari – che ha potuto arrestare il nostro cammino, ma è il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e 5 milioni di arcadi”.
Tra quegli arcadi e quegli analfabeti, i cattolici erano moltissimi, forse la maggioranza, ma il rapido declino del cattolicesimo liberale, esauritasi l’illusione neoguelfa con la crisi del 1848-49, aveva progressivamente spento la speranza che essi potessero riconoscersi e abbracciare la causa nazionale: malgrado lo Statuto albertino avesse riconosciuto al cattolicesimo stesso il rango di religione di Stato, il divorzio tra lo Stato e la Santa Sede, tra liberalismo e fede, aveva condotto a un veloce inasprimento delle relazioni tra Roma e Torino, esplicitato già prima dell’unificazione, nel Regno subalpino, con l’affermazione del principio neo giurisdizionalista della separazione tra Stato e Chiesa, con le leggi Siccardi (1850), e inaspritosi, dopo l’Unità, con le successive leggi di liquidazione dell’asse ecclesiastico, destinate, soprattutto nel Mezzogiorno, a ridisegnare la mappa della proprietà fondiaria e, con essa, degli orientamenti dominanti nelle classi medio alte.
Prima ancora della breccia di Porta Pia, la cultura politica del regno sabaudo e successivamente del Regno d’Italia era dunque fortemente permeata da un laicismo che non mancava di sfociare in molto casi nell’anticlericalismo – peraltro deplorato dai moderati e da quanti speravano di potere riallacciare il filo del dialogo con la Chiesa – e che avrebbe costituito una delle premesse ideali per l’affermazione del positivismo come ideologia dominante nell’ultimo ventennio del XIX secolo.
Inoltre, la sconfitta della Francia cancellava dallo scenario della politica mondiale il principale difensore del potere temporale, che, dopo avere represso nel sangue la Repubblica romana aveva imposto all’Italia l’umiliante Convenzione di settembre (1864), apparsa a molti come la definitiva rinuncia a Roma capitale: la fine del Secondo Impero schiudeva all’Italia le porte di Roma, ma, al tempo stesso, la fine della Francia ultramontana e bigotta ridava fiato agli ideali della Francia laica, rivoluzionaria e giacobina, quelli al cui servizio era accorso Giuseppe Garibaldi e che avrebbe permeato di sé la Comune: si trattava certo di una illusione, destinata a una cruenta sconfitta, per mano del repubblicanesimo moderato di Thiers e Gambetta, di una illusione molto potente tuttavia, e tale da riportare in auge anche in Italia quel radicalismo democratico che era stato il grande sconfitto nel processo di unificazione, ma che nel mutato contesto internazionale trovava nuova linfa ideale nell’affermazione dei principi del laicismo, del razionalismo e del repubblicanesimo: un crogiuolo dal quale, nell’ultimo ventennio del XIX secolo, sarebbero emersi i primi dirigenti italiani dell’Internazionale operaia, da Amilcare Cipriani a Osvaldo Gnocchi Viani, da Giuseppe Fanelli a Luigi Musini. Tutti costoro avevano indossato la camicia rossa e combattuto con Garibaldi sui Vosgi in difesa della repubblica francese.
Dal canto suo, la Chiesa non rimase a subire passivamente l’offensiva laica, razionalista e repubblicana, ma difese accanitamente le sue prerogative per riaffermare il principio di autorità e con esso la dottrina della potestas directa et indirecta in temporalibus, e della necessità del dominio temporale come salvaguardia della propria autonomia, teorizzata il secolo prima dal vescovo francese Jacques Bousset.
Con il Sillabo (1864) appendice all’enciclica Quanta Cura, Pio IX aveva stilato una lista di ottanta proposizioni contenenti “i principali errori dell’età nostra”, tra i quali il liberalismo, il socialismo, la libertà di pensiero e di culto, concludendo con la seguente affermazione: “Il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi e venire a composizione col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà”. Sei anni dopo, il Concilio Vaticano I, sospeso con lo scoppio della guerra franco-prussiana e mai più ripreso, proclamava il dogma dell’infallibilità papale, portando in tal modo la disputa politica sul piano della dottrina e del dogma e frapponendo tra i credenti e lo Stato, l’obbligo di obbedienza al “Sommo Pontefice”.
Al 20 settembre si giunse dunque non senza esitazioni e perplessità, alcune delle quali alimentate dagli scrupoli politici e religiosi del sovrano: questi, che allo scoppio della guerra franco-prussiana aveva tentato, senza successo, di convincere il governo a schierarsi a fianco di Napoleone III, in una lettera dell’8 settembre 1870 a Pio IX, professandosi il “più umile, più obbediente e più devoto figlio” del Pontefice, aveva sperato fino all’ultimo di convincerlo ad abbandonare volontariamente il potere temporale, presentando lo schieramento delle truppe italiane sul confine tra i due stati come una protezione dalle mene del “partito cosmopolita” intenzionato a sferrare “gli ultimi colpi, alla monarchia e al papato”.
Con la breccia di Porta Pia, la classe dirigente liberale, in contrasto con le sue propensioni e in parte non aliena dal condividere gli scrupoli del sovrano, operò una scelta non nuova nelle vicende dell’unificazione nazionale, appropriandosi di obiettivi e rivendicazioni tipici della propaganda repubblicana e democratica (il “partito cosmopolita” di cui parlava Vittorio EmanueIe II) per ricondurli in una posizione subalterna e comunque non tale da mettere in discussione l’egemonia moderata sul movimento unitario. Ma al tempo stesso, quell’atto, con la sua radicalità e irreversibilità, avrebbe impresso un carattere permanente laico alla monarchia liberale, confermato, l’anno successivo, dalla cosiddetta Legge delle guarentigie, che regolava unilateralmente i rapporti tra Stato e Chiesa (che non mancò di esprimere la sua condanna con l’enciclica “Ubi nos”, del 15 maggio 1871), concretizzando il principio cavouriano della separazione tra le due entità.
Sull’onda degli eventi, lo spirito laico e razionalista si diffuse nella società italiana più di quanto non si creda, e venne percepito come un vero e proprio spartiacque tra progresso e reazione, alimentando correnti di pensiero ispirate al positivismo e al realismo, egemoni nell’ultimo ventennio del secolo XIX, e offrendo un robusto supporto alla democrazia radicale, al repubblicanesimo e, più tardi, al socialismo. Non solo, esso agì anche come un potente motore di educazione civile: basti pensare alla pressoché totale assenza di contenuti esplicitamente religiosi, nei due più importanti romanzi per ragazzi del XIX secolo: Pinocchio (1883) di Carlo Collodi e Cuore di Edmondo De Amicis.
La nascita della Questione romana, d’altra parte, era destinata a segnare in profondità il rapporto tra i credenti e lo Stato: relegata ai margini la corrente conciliazionista, il Papato perseguì l’obiettivo di conservare e consolidare un’egemonia conservatrice sull’opinione pubblica cattolica, attenuando progressivamente i rigori del non expedit quando si rendeva necessario un sostegno alle componenti più moderate nello schieramento politico italiano, come nel caso del cosiddetto Patto Gentiloni, stipulato in vista delle prime elezioni a suffragio universale (1913) per sostenere i candidati governativi minacciati dalla concorrenza repubblicana o socialista. Non è un caso, che esponenti della destra liberale, come Sidney Sonnino, deplorassero tale linea di condotta che, negando autonomia ai cattolici, impediva la nascita di un moderno partito conservatore con una solida base sociale.
In verità, malgrado convergenze e temporanee alleanze, il Vaticano non pensò mai a un riavvicinamento con la monarchia liberale e guardò con una forte dose di diffidenza – giungendo anche a esplicite condanne – a quelle minoranze del mondo cattolico che tentavano di declinare in chiave democratica la dottrina sociale enunciata con la Rerum novarum di Leone XIII, e, malgrado la stessa Questione romana avesse perso, nel tempo, l’asprezza dei primi anni dopo la breccia di Porta Pia, non si giunse alla conciliazione se non con il governo fascista. Peraltro, neanche gli accordi del febbraio 1929 segnarono la fine definitiva del conflitto tra Stato e Chiesa, e il rapporto tra la Santa sede e il regime conobbe alti a bassi, fino alla caduta del fascismo e all’aprirsi di quei processi, pure fortemente contraddittori, che con la Costituente e la Repubblica, segnarono una frattura profonda con il passato, portando il partito cattolico a partecipare attivamente alla formazione della Costituzione repubblicana e ad assumere una posizione centrale nei successivi cinquant’anni di vita pubblica.
A centocinquant’anni di distanza, malgrado i profondi cambiamenti prodottisi nella società, nello Stato e nella stessa Chiesa, la breccia di Porta Pia conserva dunque un profondo valore simbolico, che va ben oltre la vicenda storica e diplomatica, e si colloca tra quegli eventi spartiacque che segnano un passaggio d’epoca, e condizionano le sorti di un Paese. Gesto rivoluzionario e insieme conservatore, atto sacrilego per alcuni e liberatore per altri, ha sollevato problemi altrettanto grandi di quelli che aveva aspirato a risolvere, di certo producendo un condizionamento di lungo periodo sul processo di formazione dello Stato unitario, in una complessa dialettica, nella quale l’affermazione di ideali di laicità e di progresso ebbe come gravosa contropartita le molte ombre hanno accompagnato nei decenni il sofferto percorso di integrazione delle masse cattoliche nella vita pubblica.
Pubblicato giovedì 17 Settembre 2020
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