Tremilatrecentotrenta giorni. È il tempo trascorso tra la strage neofascista di Piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre 1969, e l’omicidio dell’operaio Guido Rossa compiuto dalle Brigate rosse, a Genova, il 24 gennaio 1979. Con un turning point a metà di quel decennio cruciale per la giovane democrazia italiana, un altro eccidio neofascista: Piazza della Loggia a Brescia, 28 maggio 1974.
Su quelle 471 settimane soprattutto si concentra il libro di Francescopaolo Palaia “Una democrazia in pericolo. Il lavoro contro il terrorismo (1969-1980)”. Il corposo volume – edito da Il canneto, promosso dalla Fondazione Di Vittorio, la Camera del Lavoro di Genova e lo Spi Cgil della Liguria – ricostruisce approfonditamente per la prima volta, anche grazie a fonti inedite di provenienza sindacale, il ruolo della Cgil e del Partito comunista italiano nella battaglia più insidiosa che la Repubblica nata dalla Resistenza dovette affrontare nel secondo dopoguerra: tutelare il sistema democratico sia dall’irrompere dello stragismo nero e dei tentativi di eversione, sia dalla violenza militarizzata, cosiddetta rossa, la lotta armata al “cuore dello Stato”, e insieme dare risposta alle pressanti richieste di diritti dei lavoratori e della società civile.
Inserendosi nei più nuovi e aggiornati indirizzi di ricerca storiografica, Palaia documenta un impegno gigantesco, che andrà ben al di là dei tradizionali compiti affidati a un sindacato e a un partito. Oltre ai materiali provenienti dagli archivi, alcuni appunto sconosciuti, dalla pubblicistica (quotidiani, periodici), dalla saggistica e dalle carte giudiziarie e processuali, lo studioso offre anche un’intervista a Carlo Ghezzi, già segretario nazionale della Cgil (e responsabile Organizzazione), prima ancora segretario della Camera del Lavoro di Milano, poi presidente della Di Vittorio di cui ora è segretario, nonché attuale responsabile nazionale dell’organizzazione dell’Anpi. Testimone e protagonista di quella fase complessa, Ghezzi si sofferma su alcuni passaggi fondamentali di quella pagina tormentata del Paese, illustrando le scelte determinanti compiute a più livelli dalla Confederazione e dal Pci per sconfiggere il terrorismo. Perché, come dimostra il libro, fu lo straordinario contributo dei lavoratori, della classe operaia in particolare, e della cittadinanza più sensibile a permettere quella vittoria. “Listavamo a lutto le nostre bandiere, piangevamo i morti e programmavamo l’iniziativa politica. Spiegavamo le nostre ragioni, organizzavamo il contrasto fattivo ai terroristi”, rivendica infatti nella prefazione Susanna Camusso.
Non a caso “Una democrazia in pericolo” parte dall’analisi dei mesi precedenti, dai fermenti nelle fabbriche del Nord e dagli eventi tragici al Sud, dove la polizia, ad Avola per esempio, spara sui braccianti in sciopero e uccide. Senza dimenticare le richieste del Movimento studentesco. Se dopo 50 anni è verità storica la “strategia della tensione” – appaltata ai neofascisti da servizi deviati dello Stato, strutture segrete paramilitari e gruppi di potere internazionali – esplosa a Piazza Fontana per favorire una svolta autoritaria e bloccare qualsiasi riforma progressista, ancora poco si sa di quanto fu sofferta la decisione dei dirigenti della Federazione Unitaria Cgil-Cisl-Uil di proclamare sciopero e scendere in piazza nel giorno dei funerali delle vittime della Banca dell’Agricoltura.
Già in precedenza la stampa e addirittura le massime cariche dello Stato avevano accusato di “responsabilità morale” comunisti, sindacati, studenti politicizzati di sinistra, per disordini ed episodi cruenti. Eppure il 25 aprile di quell’anno, oltre alla Fiera campionaria, i bersagli erano stati le sedi Anpi, le lapidi partigiane, e le sezioni del Pci. Nonostante, ricorda Ghezzi, “la matrice nera di ben 96 attacchi e attentati, avvenuti a Milano nel corso del ’69, portasse alla nascita del Comitato permanente antifascista contro il terrorismo per la difesa dell’ordine repubblicano”, venne puntato il dito sugli anarchici. “Il sindaco Aldo Aniasi mi confidò – rivela l’ex dirigente sindacale – che precipitatosi a Piazza Fontana pochi minuti dopo lo scoppio del tritolo, nella confusione generale tra grida di aiuto dei feriti e l’agitazione dei soccorritori, aveva incontrato Libero Mazza, prefetto di Milano, che gli aveva detto di essere certo che l’attentato fosse opera di anarchici. Il questore Marcello Guida confermò la pista anarchica”. Per Ghezzi, classe 1946, è un deja vu, una storia di famiglia sentita raccontare fin da ragazzino: un prozio, militante anarchico era stato ingiustamente accusato dalla polizia di aver messo nel 1921 una bomba al cinema Diana, ferendo e uccidendo molti spettatori. E il nascente fascismo aveva così segnato molti punti a proprio favore nell’opinione pubblica. Il destino dell’anarchico Ghezzi, invece, si concluderà tristemente: sebbene si trovino e processino i reali colpevoli, l’accusa di strage non cadrà, e costretto a trovare riparo in Urss, morirà di stenti nel 1942 in un lager in Siberia.
Il volume di Palaia riferisce puntualmente i tentennamenti della dirigenza sindacale a indire la mobilitazione, e poi delle riflessioni, comprovate dai comunicati e dalle note interne, sulla grandiosa massiccia e corale partecipazione di operai e impiegati. In pieno autunno caldo, i lavoratori “seppero parlare agli italiani – continua Ghezzi –. La lunga guerra contro il terrorismo era iniziata”. Simultaneamente, il sindacato e il Pci sono tra i principali portatori delle grandi conquiste sociali: lo Statuto dei lavoratori, le riforme sulla casa, il fisco, il servizio sanitario nazionale, il diritto di famiglia, oltre ai referendum sul divorzio e l’aborto.
Ma la vita politica nazionale continua tra fortissimi turbamenti e la lotta per affermare la democrazia e il rifiuto netto di ogni violenza come metodo politico ha momenti alterni. Anche perché sulla scena fa la sua comparsa il terrorismo rosso, Brigate rosse, Prima linea, Nuclei armati proletari, Formazioni comuniste armate, Unità comuniste combattenti, solo per citare le formazioni più note. Sono gli “anni di piombo”, o meglio, quelli degli “opposti estremismi”, secondo la tesi lanciata nel 1971 da Libero Mazza, sì, il prefetto di Milano.
“La strategia del terrore delle destre più estreme – rammenta Ghezzi – rischiava paradossalmente, ma ormai sempre più palesemente agli occhi di qualsiasi persona attenta, di portare più consensi e sostegni allo schieramento di sinistra”.
La Cgil e il Pci, spesso in un confronto serrato, dovranno impostare campagne culturali e di sensibilizzazione della società civile senza precedenti. Saranno ancora una volta i partigiani, divenuti nel dopoguerra dirigenti sindacali o del Pci, a prendere le redini per isolare le frange estremiste: Bruno Trentin, Luciano Lama, Piero Boni, Sergio Garavini, Luigi Macari, Luigi Longo, Giorgio Amendola, Pietro Secchia, Ugo Pecchioli, sostenuti da leve più giovani come Enrico Berlinguer.
In principio non sarà facile. “Nelle prime apparizioni le Brigate rosse – spiega l’ex sindacalista – ottennero consensi in alcuni settori marginali della società italiana e delle forze del lavoro, anche perché non si manifestavano con lo sparare, piuttosto con azioni che assumevano un valore simbolico”.
Il Pci era stato sorpreso dalla carica rivoluzionaria espressa da movimento studentesco e spontaneismo operaio, scontando il ritardo nel dare voce alle legittime richieste avanzate nelle scuole, nelle università e nei luoghi di lavoro. Era stata differente invece la risposta delle Confederazioni sindacali che, di fronte alle contestazioni della base, puntarono sui Consigli di fabbrica e la contrattazione articolata, riuscendo a riguadagnare il terreno perduto sul piano dell’iniziativa politica. Il libro di Palaia ragguaglia minuziosamente sulle riunioni dei gruppi in cui prende forma l’ipotesi di organizzare movimenti armati; sulle posizioni e preoccupazioni espresse dai vari dirigenti sindacali e politici e anche sull’incredulità diffusa in primo tempo sull’esistenza stessa di un terrorismo rosso. Un’altra volta, “il sindacato e le forze del lavoro – testimonia Ghezzi – vennero parossisticamente sovraccaricate del compito di difendere la democrazia, con modalità, forme e intensità di coinvolgimento, senza uguali in nessun altro sindacato d’Europa”. La risposta popolare alla strage neofascista di Brescia era stata un punto di svolta sia nella lotta antifascista sia e soprattutto nel rapporto tra cittadini e istituzioni (Il sindacato si fa Stato è il titolo di uno dei capitoli), inaugurando un modello di autogestione dell’ordine pubblico e di “vigilanza democratica” che la Federazione Unitaria Cgil-Cisl-Uil bresciana adotterà nel contrasto al terrorismo. “Sono gli operai, e non le forze di polizia, a garantire e gestire con al braccio speciali fascette, la sicurezza del Presidente della Repubblica e il servizio d’ordine in città (A. Pepe, introduzione)”.
Palaia ricostruisce minuziosamente, avvalendosi del contributo di memoria del già responsabile Organizzazione della Cgil Carlo Ghezzi, il sistema di “intelligence” e di vigilanza realizzato dal sindacato e dal Pci, messo a disposizione delle istituzioni di sicurezza, un aspetto niente affatto secondario anche nel contrasto al terrorismo. Nell’ottobre 1976 il Comitato centrale del partito istituirà una Sezione problemi dello Stato, diretta al vertice da Pecchioli, è strutturata in tre gruppi, uno dei quali tratta i temi antifascisti e opera in diretta collaborazione con l’Anpi. Parallelamente la Cgil mette in piedi un apparato simile. Si raccolgono dati (il volume ne dà conto), ci si attrezza e ci si confronta. Gli Uffici organizzazione sono capillari; promossi in ogni località continueranno a occuparsi pure di ordine pubblico in occasione delle manifestazioni. Sono i volontari a garantirne l’efficacia, e sempre loro, quotidianamente, 24 ore su 24, proteggeranno i dirigenti Pci, Psi e Cgil da possibili attentati di qualsiasi origine. D’altronde il servizio poteva vantare una grande tradizione. “Fino alla metà degli anni 70 – spiega Ghezzi – i dirigenti potevano ricevere l’ordine di dormire fuori casa, per non essere arretati nottetempo”. Gli anni seguenti pongono problemi nuovi ma altrettanto delicati. Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel ’78 e soprattutto nel gennaio ’79 l’omicidio di Guido Rossa, segneranno un punto di non ritorno nei rapporti tra il sindacato, l’estremismo e ogni “zona grigia”. Rossa era delegato sindacale Fiom, componente del Consiglio di fabbrica all’Italsider di Genova, ammazzato dalle Br perché reo di aver denunciato un altro operaio legato al terrorismo. Mai le Br avevano tolto la vita a un rappresentante della classe sociale in nome della quale dicevano di combattere. “Il sacrificio di Guido Rossa – sottolinea Ghezzi – la riflessione di massa apertasi sulle sue scelte, sulle sue coerenza, sul suo comportamento fermo e lineare portarono alla definitiva sconfitta di ogni titubanza”. Quell’omicidio dunque “si rivelò un errore strategico delle Br”.
Lo stragismo nero e il terrorismo dei Nar e quello rosso delle Br e di Prima linea continueranno a seminare morte anche negli anni successivi: del 2 agosto 1980 è la strage neofascista alla stazione di Bologna, in 85 persero la vita, nel 1985 sicari brigatisti ammazzeranno Ezio Tarantelli e in seguito altre formazioni armate “comuniste” eseguiranno progetti di assassinio (del 2002 è l’omicidio di Marco Biagi a Bologna, nel 1999 viene ucciso, a Roma, Massimo d’Antona, ma la tenuta democratica in Italia non sarà più in dubbio. E nel sentire comune della società civile sarà spazzata via ogni ambiguità, né ci sarà spazio per fraintendimenti, tentennamenti e “legittimazione”.
Gli sforzi per vincere la battaglia contro terrorismo ed eversione però presenteranno presto un conto altissimo, la crescita dei diritti nella Repubblica Italiana subirà uno stop per decenni. “Orizzonti possibili sono stati cancellati – dice Carlo Ghezzi –, generando una crisi politica devastante, divenuta clamorosamente chiara dopo la caduta del muro di Berlino, Tangentopoli e la fine dei partiti della cosiddetta Prima repubblica che nella Resistenza avevano dato vita al Cln”. Certo, la responsabilità del partito armato e dei suoi protettori è stata enorme, aggiunge Ghezzi, ma “ad eccezione del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, i protagonisti sono stati nella stragrande maggioranza dei casi catturati, processati e condannati, pur avendo ottenuto successivamente sconti di pena rilevanti e oggi siano praticamente tutti liberi. Non è andata così per gli eccidi e i fatti eversivi realizzati dalle destre, a cominciare dalla strage di Portella della Ginestra del 1947. E complici i depistaggi, “dopo cinquant’anni da Piazza Fontana nessuno è mai stato condannato”.
Conclude Ghezzi con una punta di orgoglio: “La lotta contro l’eversione è stata vinta” grazie ai lavoratori soprattutto “e a personalità quali Benigno Zaccagni, e a uomini come Lama, Pertini, Berlinguer e l’allora presidente dell’Anpi, Arrigo Boldrini”.
*Nel volume: prefazione di Susanna Camusso; presentazione di Ivano Bosco, già segretario generale della Camera del Lavoro di Genova, e Walter Fabiocchi, già segretario generale dello Spi Cgil di Genova; introduzione di Adolfo Pepe, direttore della Fondazione Di Vittorio; intervista a Carlo Ghezzi, già segretario della Camera del Lavoro di Milano, già segretario generale Cgil e già presidente della Fondazione Di Vittorio, oggi della segreteria nazionale dell’Anpi
Pubblicato venerdì 20 Dicembre 2019
Stampato il 13/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/longform/storia-di-stragi-e-terrorismo/