
Un conflitto infinito, quello israelo-palestinese, che è tornato drammaticamente al centro dell’attenzione a livello mondiale dal 7 ottobre 2023, quando miliziani di Hamas [1] e della Jihad islamica, a bordo di furgoni, camioncini, moto, persino deltaplani e parapendio, si sono resi protagonisti della più efferata strage finora subita da Israele: 1.145 morti, per lo più civili, 251 ostaggi catturati, tra cui vecchi, donne e bambini. Tremenda la vendetta scatenata dal governo di Benjamin Netanyahu con l’operazione “Spade di Ferro”, presentata come la necessaria risposta per distruggere le infrastrutture di Hamas, ma rivelatasi, con il trascorrere delle settimane, l’attuazione di uno spietato piano di espulsione e di sterminio.
Infatti, dall’8 ottobre 2023 nel minuscolo territorio della Striscia di Gaza, allora abitato da più di due milioni di palestinesi, è in corso l’annientamento – pressoché in diretta – di un’intera popolazione: bombardamenti su scuole, ospedali, campi profughi; demolizione e incendio di case e palazzi da parte dei soldati di Tsahal [2] per impedire ai residenti di farvi ritorno; corpi dilaniati o irrimediabilmente storpiati di bambini, uomini e donne; medici e giornalisti ammazzati [3]; torture e stupri; la fame utilizzata come mezzo di annichilimento; la distribuzione di aiuti umanitari trasformata in occasione per proditori, infami attacchi; ordigni bellici proibiti impiegati illegalmente. Secondo fonti palestinesi sono più di 65.000 i morti accertati intorno alla metà di settembre del 2025, l’83 per cento dei quali è costituito da civili [4]: un’ecatombe!

Il governo e l’esercito israeliani si stanno macchiando di crimini di guerra e contro l’umanità, di gravissime violazioni del diritto umanitario, con attacchi deliberati e indiscriminati contro i civili, senza contare le misure adottate per affamarli e assetarli. Si è così dinanzi a una deriva, che sta facendo saltare ogni regola; che comporta la fine dell’illusione di poter ancorare l’ordine internazionale ai diritti umani, al multilateralismo e alle libertà fondamentali; che sta erodendo ulteriormente la residua credibilità delle democrazie rappresentative occidentali, complici a vario titolo della tragedia che si sta consumando a Gaza.

Le radici di questo «buco nero» della politica internazionale, che periodicamente insanguina il Medio Oriente e ne rende estremamente instabili gli equilibri, sono molteplici e lontane nel tempo. È un dramma che chiama in causa le strategie prima delle grandi potenze europee, poi del colosso statunitense, nonché gli effetti nefasti dell’antisemitismo nazista e gli interessi divergenti, se non contrapposti, del mondo arabo.
È, ora, il caso di ripercorrerne criticamente le tappe principali, a partire dalla fondazione del movimento sionista (da Sion, nome di una collina nei pressi di Gerusalemme), che avviene il 29 agosto 1897 a Basilea, per impulso soprattutto del giornalista ungherese Theodor Herzl. Questi, colpito dall’erompere in Francia di un livoroso antisemitismo in occasione dell’affaire Dreyfus, aveva teorizzato, l’anno precedente, nel libro Lo Stato degli Ebrei (Judenstaat), la necessità di costituire uno Stato ebraico. La scelta a Basilea cade sulla Palestina. Qui la piccola comunità ebraica locale accoglie, tra il 1882 e il 1903, una prima ondata di immigrazione (20-30.000 persone), alimentata dalla fuga dalle persecuzioni nell’impero zarista e dal diffondersi del movimento sionista, popolare in Europa orientale, ma molto meno altrove.

Una data cruciale è il 2 novembre 1917, quando con la Dichiarazione Balfour il governo britannico, al fine di garantire il sostegno delle comunità ebraiche alla causa alleata e la presenza di Londra fra il Canale di Suez e il Golfo Persico, si pronuncia a favore della creazione di «un focolare nazionale ebraico in Palestina», dove gli ebrei sono appena 56.000 a fronte di 700.000 arabi. Con gli accordi Sykes-Picot del 1916, Gran Bretagna e Francia si erano da poco divise il Medio Oriente in zone d’influenza, tradendo le aspettative del nazionalismo arabo, solleticato dagli inglesi durante il Primo conflitto mondiale contro l’Impero ottomano [5].
Prosegue intanto il trasferimento degli ebrei in Palestina: ai circa 40.000 che arrivano tra il 1904 e il 1914, si aggiungono i 35.000 della terza ondata immigratoria (aliyah), composta quasi esclusivamente di giovani sionisti russi e polacchi e originata dai pogrom fomentati dai controrivoluzionari «bianchi» nel corso della guerra civile in Russia, che causano tra gli ebrei almeno 160.000 vittime. La Gran Bretagna, ottenuto nel 1920 dalla Società delle Nazioni il mandato sulla Palestina, deve fronteggiare la Haganah, una milizia di matrice sionista che diventerà un’organizzazione terroristica in funzione antiaraba e antinglese.

Con la quarta e specialmente con la quinta aliyah, determinata dalla crisi economica mondiale e dall’avvento del nazismo in Germania, la percentuale ebraica della popolazione in Terra Santa sale al 30 per cento circa. Ciò acuisce i contrasti con gli arabi, che tra il 1936 e il 1939 si rivoltano in massa contro il dominio britannico e l’immigrazione ebraica; nel giro di tre anni ne muoiono almeno 5.000, 14.000 vengono feriti e un centinaio sono impiccati. Le pressioni degli arabi sulle potenze europee e soprattutto il Libro Bianco sulla Palestina del governo britannico (1939) valgono a contenere gli arrivi degli ebrei, mentre nell’Europa assoggettata al Terzo Reich ne vengono annientati tra i 5 e i 6 milioni, di cui un milione e mezzo di bambini.

Occorre ricordare – a questo punto – che, pur di combattere la presenza ebraica in Palestina, nonché i britannici e i comunisti, il capo nazionalista arabo, Amin al-Husseini (Gran Muftì di Gerusalemme dal 1921 al 1948, fondatore dell’Esercito del Sacro Jihad, leader del Supremo Comitato Arabo), si schiera con Adolf Hitler e non esita a reclutare volontari musulmani per le Waffen-SS. Giova altresì rammentare che Netanyahu – al pari di un volgare negazionista – nel 2015 si spinge addirittura a sostenere, al Congresso sionista mondiale, che «Hitler non voleva sterminare gli ebrei, solo espellerli», ma poi venne indotto a perpetrare il genocidio del popolo ebraico proprio dal Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al-Husseini.

Un altro passaggio rilevante si ha all’indomani del Secondo conflitto mondiale. Nel 1947, la Gran Bretagna rinuncia al mandato sulla Palestina, dove si va inasprendo il dissidio tra arabi ed ebrei, cresciuti numericamente in seguito all’afflusso di decine di migliaia di sopravvissuti allo sterminio nazista. Il 29 novembre di quell’anno, sull’onda del sentimento di orrore suscitato dalla Shoah, l’Onu stabilisce con la Risoluzione 181 la divisione della Palestina in uno Stato arabo (42 per cento del territorio) e in uno ebraico (56 per cento) e l’internazionalizzazione della città di Gerusalemme, luogo sacro per cristiani, ebrei e musulmani. La volontà di risarcire le comunità ebraiche per quanto avevano patito con la Shoah (5-6 milioni le vittime a causa del gigantesco programma omicida del nazismo) finisce con il partorire un focolaio di tensione destinato ad incidere profondamente sul Medio Oriente e sugli stessi rapporti internazionali.

Non appena David Ben Gurion annuncia, il 14 maggio 1948, la nascita dello Stato d’Israele, divampa la guerra con gli eserciti arabi, che durerà fino alla metà del 1949, concludendosi con l’affermazione d’Israele, rifornito di armi sia dagli Usa, sia dall’Urss staliniana tramite la Cecoslovacchia [6]. In quella congiuntura Tel Aviv arriva a controllare un territorio persino più ampio di quello ipotizzato dall’Onu e popolato quasi esclusivamente da ebrei, poiché oltre 700.000 palestinesi sono stati costretti a imboccare la via dell’esodo, a subire le conseguenze del «peccato originale» d’Israele, dei sionisti che si impadroniscono della terra attraverso la compravendita, l’esproprio e la forza [7]. È la Nakba (la catastrofe), che condanna quanti sono cacciati dalle proprie abitazioni ad essere un popolo di senza patria, alloggiati in campi profughi o dispersi nell’emigrazione.

Israele, la cui fondazione – è bene ribadirlo – è anche frutto delle contraddizioni della politica dell’imperialismo britannico, nel 1950 con la «Legge del ritorno» riconosce a qualsiasi ebreo il diritto di stabilirsi entro i suoi confini: all’incirca 700.000 persone confluiscono nella neonata entità statale e in tanti vanno ad animare i Kibbutz, in cui si praticano forme di vita politica ed economica su base comunitaria. Le prove per il giovanissimo Stato non sono, però, finite. Alle frontiere permane una notevole tensione che sfocia nella guerra del Sinai (ottobre-novembre 1956). Tel Aviv muove le proprie truppe verso il Canale di Suez, forte dell’appoggio di Francia e Gran Bretagna, che intervengono contro l’Egitto di Nasser, reo di aver nazionalizzato il Canale e di aiutare il Fronte di liberazione nazionale algerino. La reazione dell’Urss e degli Usa costringe gli aggressori a desistere e Israele deve abbandonare il Sinai appena conquistato, in cambio di garanzie da parte di Washington, che rimpiazza le vecchie potenze coloniali, uscite mortificate dalla fallimentare sortita.

Come hanno sottolineato alcuni storici israeliani particolarmente critici nei confronti del progetto sionista, tra cui Ilan Pappé, il nuovo Stato, sin dal suo esordio, attua una sorta di «colonialismo insediativo» [8]. Mentre il colonialismo classico – val la pena di evidenziarlo – mirava a sfruttare le risorse materiali e umane delle zone assoggettate, quello israeliano, sia pur con qualche oscillazione, scommetterà sull’opzione della progressiva appropriazione delle terre della Palestina.

Tel Aviv mette a segno la più vasta espansione con la «guerra dei sei giorni» nel giugno 1967, quando Tsahal annichilisce nel volgere di pochissimo tempo gli eserciti dei Paesi arabi confinanti, impossessandosi della Cisgiordania, di Gaza, del Sinai, delle alture del Golan, da cui altri 300.000 palestinesi andranno via, ingrossando così le file della diaspora. Si tratta delle regioni – tranne la penisola del Sinai, restituita all’Egitto con gli accordi di Camp David del 1978 – ritenute nel 2024 dalla Corte Internazionale di Giustizia occupate illegalmente da Israele. Destinata a rimanere lettera morta sarà la Risoluzione 242, approvata dall’Onu il 22 novembre 1967, con cui si intima il ritiro alle forze armate israeliane dai territori occupati con l’ultimo conflitto e si riconosce la sovranità di ogni Stato nella regione. Nei decenni successivi la storia dei rapporti tra Israele e la Palestina verrà scandita dal susseguirsi di eventi e fenomeni tragici: conflitti, occupazioni, distruzioni di villaggi, insediamento di colonie, espulsioni di popolazione, annessioni di nuovi lembi di territorio.
Per quanto la vittoria d’Israele nel 1967 risulti schiacciante, forte è la sensazione tra i suoi abitanti di essere accerchiati, diffuso il timore del ripetersi dell’Olocausto. E sempre più da quel momento la Shoah viene piegata a mito fondativo del giovane Stato israeliano, mentre nei Paesi arabi godranno di ampia recezione la letteratura antisemita e le pseudo-tesi storiografiche dei «negazionisti» sullo sterminio nazista e sull’inesistenza delle camere a gas [9].

Intanto a risollevare l’orgoglio ferito degli arabi provvedono i fedayin (nazional-progressisti) palestinesi, che diventano molto popolari grazie alla battaglia di Karameh nella valle del Giordano (marzo 1968) in cui respingono un raid israeliano. E non è un caso che il loro leader, Yasser Arafat, comandante di al-Fatah, venga eletto presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp, fondata nel 1964) il 4 febbraio 1969. Ma ben presto la resistenza palestinese sperimenta sulla sua pelle quanto, a volte, siano lontani i suoi interessi da quelli dei “fratelli” arabi. Infatti, è sanguinosamente messa alle corde dalle forze giordane e obbligata, a conclusione del «settembre nero» di Amman nel 1970, a spostare la sua base politico-militare in Libano.

Se per richiamare l’attenzione sulla propria causa i fedayin si affidano anche all’arma estrema del terrorismo, come in occasione delle Olimpiadi di Monaco, quando il 5 settembre 1972 un commando di Settembre nero uccide dodici atleti israeliani, i gruppi dirigenti dei principali Stati arabi (Egitto e Siria) pensano di potersi prendere sul campo la rivincita con la guerra dello Yom Kippur (ottobre 1973), che si conclude con un nulla di fatto.

Soltanto a dieci anni di distanza dalla sua fondazione l’Olp viene di fatto riconosciuta sul piano internazionale. Arafat, il 13 novembre 1974, ha la possibilità di tenere all’assemblea generale dell’Onu il famoso «discorso del fucile e del ramoscello di olivo»: per la prima volta viene prospettata l’ipotesi di uno Stato palestinese «accanto a Israele». Non facile, però, continua ad essere il rapporto con i regimi arabi. Coinvolti nella guerra civile che devasta il Libano dall’aprile 1975, i palestinesi vengono massacrati nel campo di Tall el Zaatar (agosto 1976), dopo un assedio di 52 giorni, dai falangisti libanesi fiancheggiati dai militari siriani.

Al potere in Israele dal maggio 1977 non ci sono più i laburisti, per la prima volta battuti alle elezioni. Nuovo primo ministro è Menachem Begin della destra nazionalista (il Likud), che intensifica la colonizzazione dei territori occupati nel 1967 sulla base del progetto del «Grande Israele» e intraprende una politica aggressiva, con l’invasione del Libano meridionale nel 1978 e la distruzione del reattore nucleare iracheno di Osirak nel 1981. Danno un contributo considerevole alla colonizzazione dei territori occupati i nuovi «pionieri religiosi», che per conseguire quest’obiettivo avevano creato nel 1974 il Gush Emunim (il Blocco dei Fedeli), punta di diamante del disegno volto a rigiudaizzare Israele.

Nel giugno 1982 scatta l’«Operazione pace in Galilea», la campagna nel sud del Libano progettata dal ministro della difesa, il “falco” Ariel Sharon, per distruggere la struttura politico-militare dell’Olp e decapitarne il vertice. Decine di migliaia le vittime, soprattutto fra i civili. Il culmine si tocca nei campi profughi di Sabra e Chatila, a Beirut ovest, dove fra il 16 e il 18 settembre i miliziani libanesi del maggiore Haddad, con il beneplacito di Sharon, sterminano qualche migliaio di palestinesi inermi [10]. Intervistato a pochi giorni di distanza dallo spaventoso eccidio [11], Primo Levi sostiene, con notevole onestà intellettuale, che la Shoah non garantisce a Israele «uno status di innocenza ontologica» [12] e accetta la definizione di fascista per il primo ministro israeliano, Menachem Begin [13].

Al termine di tre anni di guerra e occupazione nel “Paese dei cedri”, costati agli israeliani 650 morti e circa 40.000 ai libanesi e ai palestinesi, l’Olp ancora una volta deve spostare il proprio quartier generale rifugiandosi a Tunisi [14].
A cercare di cambiare le caratteristiche dello scontro tra israeliani e palestinesi sarà l’Intifada [15], la «rivolta delle pietre», scoppiata sul finire del 1987 e combattuta con le modalità più diverse: scioperi, manifestazioni, boicottaggio dei prodotti israeliani, accoltellamenti e lanci di sassi e bottiglie molotov contro i cingolati con la stella di David. Ne sono protagonisti i giovani e i ragazzi, appoggiati dal resto della popolazione dei territori annessi da Israele, stanca di vivere in condizioni umilianti. Una sorta di efficace resistenza civile tiene in scacco le truppe di Tel Aviv, che non riescono a utilizzare appieno il loro potenziale militare e tecnologico. La lotta così condotta ripropone la questione palestinese a livello internazionale e i teleschermi occidentali per mesi trasmettono servizi su questo singolare duello. In una situazione contraddistinta dalla rabbia, dalla frustrazione e dalla miseria prendono piede, tra il popolo più laico del Medio Oriente, i movimenti islamisti di Hamas e della Jihad, che contestano l’egemonia dell’Olp.

I tentativi politico-diplomatici, faticosamente messi in campo a partire dalla fine degli anni Settanta, per favorire il cosiddetto «processo di pace» in Medio Oriente, portano nell’estate 1993 agli accordi di Oslo e alla firma a Washington, auspice Bill Clinton, della Dichiarazione di principi sull’autonomia palestinese da parte di Yitzhak Rabin, da poco primo ministro, e di Yasser Arafat. È un timido, ma non trascurabile passo verso la riconciliazione. Tuttavia, il 4 novembre 1995, Rabin è colpito mortalmente dallo studente ebraico di estrema destra Yigal Amir. Quest’assassinio, che mette a nudo le lacerazioni della società israeliana, rende molto più difficile il cammino intrapreso ad Oslo, già irto di ostacoli, come aveva dimostrato l’eccidio a Hebron, il 24 febbraio 1994, di 29 palestinesi da parte del colono Baruch Goldstein, un militante del Kach, il movimento sorto nel 1973 per impulso del rabbino americano Meir Kahane, teorizzatore del «sionismo della catastrofe», della «teologia della vendetta» e della «difesa ebraica», intesa come strategia violenta preventiva.

L’escalation di violenze seguita alla morte di Rabin consente alla destra israeliana di vincere, il 29 maggio 1996, le elezioni e di avere alla testa della coalizione governativa Benjamin Netanyahu, un falco del Likud, che tre anni più tardi deve cedere il passo al laburista Ehud Barak. Sia Netanyahu che Barak, insieme con Arafat, sono chiamati più volte dall’amministrazione statunitense del democratico Bill Clinton a trovare un’intesa o quantomeno un compromesso accettabile per tutti. Ma i negoziati, pur accontentandosi l’Olp di costruire uno Stato sul 22 per cento soltanto della Palestina storica, si arenano definitivamente su due controverse questioni: la sovranità di Gerusalemme e il diritto al ritorno in patria di quasi 4 milioni di palestinesi, oltre ai nodi irrisolti delle colonie ebraiche e dell’accesso all’acqua. La disillusione per le promesse di Oslo e la provocatoria passeggiata di Sharon, scortato da mille agenti, alla Spianata delle Moschee riaccendono nell’autunno 2000, più aspra che mai, la conflittualità, originando la seconda Intifada, l’Intifada di al-Aqsa o «dell’indipendenza».

A guidare la rivolta sono non solo Hamas e la Jihad, ma pure le due organizzazioni più vicine ad Arafat, Fatah e Tanzim, sotto la spinta dei giovani leader del nazionalismo palestinese, scontenti per il fallimento della vecchia guardia dell’Olp, incapace di assicurare indipendenza e buon governo. Con l’avvento di Sharon al potere nel 2001, al posto di Barak, viene pianificata e attuata una strategia di distruzione totale di tutte le strutture della società civile palestinese, volta a far uscire di scena Arafat, a spezzettare la Palestina in piccole enclave recintate da filo spinato, a utilizzare i ceti più disperati come forza-lavoro a basso costo, obbligando gli altri ad andarsene. Di fronte alla strapotenza dell’esercito israeliano ai palestinesi non rimane che l’arma micidiale degli attentati suicidi. In un crescendo di odio ed efferatezze viene varata nell’aprile 2002 l’operazione «Muraglia difensiva», nel corso della quale Jenin viene rasa al suolo, ridotta a una grande distesa ricoperta unicamente di macerie. Sebbene sia difficilmente accertabile con precisione il totale dei caduti nella Seconda intifada, i morti sono 3.858 tra i palestinesi e 1.022 tra gli israeliani.
L’incrudelirsi della lotta, l’incubo dei kamikaze che colpiscono alla cieca, sempre più mettono in difficoltà i pacifisti israeliani, avallano il terrorismo di Stato praticato da gruppi dirigenti che hanno il consenso di larghi strati della società israeliana e danno voce a un coacervo di estremismo politico-religioso e di interessi economici legati all’espansione degli insediamenti nei territori occupati e al rifiuto di riconoscere i diritti fondamentali del popolo palestinese. Inoltre, l’asse di ferro tra l’amministrazione di Bush jr e i governanti di Tel Aviv riduce a una mera dichiarazione d’intenti la road map, il piano messo a punto dal “quartetto per il Medio Oriente” (Onu, Ue, Usa e Russia).
Neppure la scomparsa del leader dell’Olp, Yasser Arafat, deceduto l’11 novembre 2004 ed inviso a tutto l’establishment israeliano, serve a riavviare un dialogo ormai interrotto da tempo. Anzi il trionfo dei fondamentalisti di Hamas, alle elezioni del 25 gennaio 2006, rinfocola la volontà del governo israeliano di Ehud Olmert di usare la mano pesante. Tel Aviv intende colpire duramente Hamas e portare avanti il ritiro unilaterale solo da Gaza, lasciando le colonie più importanti in Cisgiordania, senza liberare gli oltre 7.000 prigionieri palestinesi, senza concedere la possibilità di rientrare ai 3 milioni e mezzo di profughi sparsi per il Medio Oriente. Per di più, affida la sua sicurezza a una gigantesca barriera d’acciaio, il Muro, che vanifica, unitamente agli insediamenti “legali”, una qualche continuità dei territori palestinesi. A complicare ulteriormente il quadro intervengono le ripetute minacce del presidente iraniano Ahmadinejad, intenzionato – a dir suo – a distruggere Israele e grande protettore delle milizie sciite libanesi del Partito di Dio (Hezbollah).

In quel frangente assurge a perno della politica palestinese Hamas [16], i cui uomini nel giugno 2007 strappano con le armi a Fatah il controllo di Gaza, in una cruenta guerra civile per il potere nei Territori. Con il sostegno di Usa e Ue, l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), guidata da Abu Mazen, estromette dalla Cisgiordania Hamas, la cui ala militare viene messa fuorilegge. Così, invece di preparare il loro Stato, le élite palestinesi si incamminano su sentieri divergenti.
Sorto durante la prima Intifada, Hamas si radica tra gli strati più poveri dei gazawi grazie all’approntamento di una rete di scuole, ospedali e mense, che garantiscono un efficace sistema di assistenza e protezione sociale declinato in termini religiosi. Sotto Hamas, da un lato, la Striscia tende sempre più a rassomigliare a una rampa di lancio per razzi e missili contro Israele, che tra il 2008 e l’inizio del 2009 muove contro di essa con le campagne militari “Inverno caldo” e “Piombo fuso” (1.220 morti); dall’altro, sorvegliata e continuamente bersagliata dall’Idf [17], diventa la più grande prigione del mondo a cielo aperto, la cui popolazione, per metà composta da bambini, vede peggiorare le proprie condizioni di vita per il duplice embargo posto da Israele ed Egitto.
Tutto questo sta alle spalle dell’esecrabile eccidio del 7 ottobre 2023 [18], quando Israele, pur dotato di efficientissimi servizi d’intelligence, si è fatto cogliere di sorpresa, avendo dislocato risorse e mezzi verso la Cisgiordania. Fin dalle prime battute la risposta del governo israeliano al micidiale attacco assume la forma di una distruttiva ritorsione contro l’intera popolazione civile, di una terribile punizione collettiva del popolo palestinese, sino a configurarsi come un vero e proprio genocidio.

Acceso è il dibattito tra studiosi e opinionisti sull’applicazione della categoria di genocidio per designare quanto è maturato a Gaza [19]. Senza voler ridimensionare in alcun modo quel tragico, e unico, compendio di tutte le tipologie della violenza del mondo contemporaneo che è stata la Shoah, non si può non constatare come nella Striscia di Gaza il governo israeliano e Tsahal stiano perseguendo il proposito – come recita l’art. II della Convenzione sul genocidio del 1948 – di «distruggere in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale». Quanto mai significativa la dichiarazione del grande scrittore israeliano David Grossman, che nel 2006 ha perso suo figlio Uri durante un’operazione dell’Idf nel sud del Libano. In un’intervista apparsa su «la Repubblica», il 1° agosto 2025, ha detto, non senza nascondere il suo sconcerto e dolore: «Per anni ho rifiutato di utilizzare questa parola: “genocidio”. Ma adesso non posso trattenermi dall’usarla, dopo quello che ho letto sui giornali, dopo le immagini che ho visto e dopo aver parlato con persone che sono state lì».
Bisogna rilevare anche come subito dopo i dolorosi “fatti” del 7 ottobre l’allora ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, oggetto poi di un mandato di arresto internazionale, abbia bollato i palestinesi come «animali umani». Non sarà l’unico ad usare questo linguaggio disumanizzante, d’intonazione razzista e suprematista, che serve a giustificare lo scenario apocalittico causato dall’offensiva dell’Idf a Gaza e lo strangolamento della sua popolazione, privata di qualsiasi mezzo di sostentamento, ridotta allo stremo senza acqua, cibo e farmaci, bersaglio delle bombe e delle armi israeliane.
Secondo il segretario generale dell’Onu, António Guterres, Gaza si è trasformata in un campo di sterminio [20]. È ormai un immenso cimitero, dove giacciono più di 65.000 morti, di cui 20.000 bambini. Dall’8 ottobre 2023, prima con l’operazione “Spade di ferro”, poi con l’operazione “Carri di Gedeone”, l’Idf ha distrutto o reso inaccessibile l’80 per cento del territorio della Striscia. Qui, in un paesaggio lunare, ricoperto di macerie e punteggiato da voragini piccole e grandi simili a crateri, decine di migliaia di bambini soffrono di gravi forme di malnutrizione e rischiano di morire di fame o per sete. Qui, i gazawi consumano in media un pasto ogni due o tre giorni: una vera e propria catastrofe umanitaria, una carestia indotta che, se non viene fermata, stroncherà innumerevoli vite umane.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha denunciato che già dal 2024 l’acqua è contaminata e la sua assunzione provoca epatite, colera e diarrea soprattutto nei minori; una situazione resa ancor più drammatica dalla mancanza di medicine e di strutture sanitarie, quasi ovunque completamente distrutte. Non solo sono stati bloccati gli aiuti (per mesi nella Striscia non è entrato un grammo di farina), ma quando si è consentito a pochi camion di distribuire qualcosa, si è sparato indiscriminatamente sulla folla. Si è giunti nel giugno 2025 a sequestrare illegalmente in acque internazionali una nave, la Freedom Flotilla, che portava un po’ di rifornimenti ad una popolazione in preda alla disperazione. Il risultato è, denuncia Emergency, che nel mondo nel 2024 Israele è stata la maggior responsabile di morti infantili e dell’uccisione di giornalisti. Questi ultimi sono finiti nel mirino di Tsahal, perché si teme il loro sguardo, la loro testimonianza, perché si vuole avere il controllo della narrazione, della comunicazione, delle parole. Sforzo vano: a nulla è servito aver ingaggiato degli influencer per edulcorare la realtà di una guerra asimmetrica, in cui Israele si è giocata la propria reputazione anche agli occhi di gran parte dell’opinione pubblica occidentale.

In Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, in venti mesi (dall’ottobre 2023 al giugno 2025) più di 1.500 attacchi dell’esercito e dei coloni hanno causato oltre 960 morti e più di 7.000 feriti; inoltre decine di migliaia di palestinesi sono stati deportati con la forza. Sul finire dell’agosto 2025 il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, esponente dell’ultradestra messianica, che esercita un’influenza preponderante nell’esecutivo capeggiato da Netanyahu, ha annunciato più di 3.500 insediamenti in quell’area, «chiodi – così li ha definiti – da conficcare nella bara» della costruzione di uno Stato palestinese. Con pari determinazione ha presentato un agghiacciante piano per annettere la Striscia di Gaza, qualora Hamas non si arrendesse e non liberasse gli ultimi ostaggi ancora nelle sue mani.
Intanto, violando ogni regola del diritto internazionale, l’Idf continua a tartassare nella Striscia una popolazione prigioniera, completamente assediata e affamata, al fine di cacciarla via dalla sua terra. Soluzione caldeggiata anche dall’amministrazione statunitense di Donald Trump, favorevole allo svuotamento dell’intera enclave soprattutto per ragioni di natura affaristico-immobiliare: si vorrebbe, infatti, trasformare Gaza in una “riviera” per facoltosi turisti, gremita di alberghi lussuosi, allontanando tutti i gazawi. È, inoltre, interessata alle risorse petrolifere presenti nei fondali marini al largo della Striscia. E così, con il beneplacito della Casa Bianca, il governo israeliano, il 29 agosto 2025, ha dato il via al piano dell’occupazione totale di Gaza City, esortando minacciosamente i suoi abitanti a spostarsi di nuovo verso sud. Intanto l’Idf è penetrato in città, colpendo pesantemente, ancora una volta, i civili inermi.

Come ormai appare incontrovertibile, Benjamin Netanyahu e l’estrema destra religiosa sua alleata si ripromettono la pulizia etnica della Striscia di Gaza, attraverso l’evacuazione dei palestinesi con la forza o mediante la loro sistematica eliminazione. Questo è l’obiettivo strategico fondamentale, al cui interno rientra la difesa da Hamas, che costituisce, con il passare del tempo, una giustificazione sempre più flebile. È vero che i suoi uomini si sono mostrati ancora ben armati sui palchi sui quali sono stati costretti a sfilare gli ostaggi israeliani rilasciati durante la tregua concordata nell’inverno del 2025. Tuttavia, non si sorvoli sul fatto che gli israeliani hanno saputo colpire con chirurgica precisione i vertici di Hamas, liquidando prima il suo leader, Ismāʿīl Haniyeh, il 31 luglio 2024, con una bomba piazzata due mesi prima dal Mossad nella camera dell’edificio dove era di solito ospitato a Teheran; poi uccidendo il suo successore, Yahya Sinwar, a Rafah il 16 ottobre 2024. Né sorte migliore è toccata alla fine del settembre dello stesso anno ad Hassan Nasrallah, il capo di Hezbollah, e al 10 per cento dei suoi miliziani, ammazzati con l’attentato dei cercapersone/walkie talkie.

In verità, quanto è accaduto, il 7 ottobre 2023, ha fornito a Netanyahu e ai suoi alleati il pretesto per attuare il loro disegno. Non a caso, sino a quel momento, il primo ministro israeliano, in nome di una strategia volta alla polarizzazione delle rispettive posizioni, ha privilegiato come avversario politico Hamas rispetto all’Anp.
Val la pena, a questo punto, tenere a mente che le brutalità commesse dall’Idf nella Striscia di Gaza hanno indotto la Corte Internazionale di Giustizia, già con l’Ordinanza del 26 gennaio 2024, a indicare 5 misure cautelari per evitare un “plausibile rischio di genocidio”. Il suo intervento ha messo a nudo anzitutto il fallimento della politica e delle istituzioni internazionali, a cominciare dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, incapace di imporre il cessate il fuoco: ormai è sotto gli occhi di tutti il prevalere della logica della forza. A sua volta, la Corte penale internazionale ha incriminato Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant per “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”. Il 21 novembre 2024 ne ha chiesto l’arresto, in ragione del fatto di: «… affamare deliberatamente i civili … di provocare intenzionalmente grandi sofferenze e attentare gravemente all’integrità fisica e alla salute» delle popolazioni civili.
Senza il sostegno e la complicità del cosiddetto Occidente, in particolare degli Usa, che pongono Israele al di sopra della legalità internazionale, Netanyahu non avrebbe potuto portare avanti il suo piano teso a ridisegnare il Medio Oriente, a fare del suo Paese l’indiscussa prima potenza regionale in quello scacchiere, al servizio dell’alleato americano, propenso – come hanno dimostrato gli Accordi di Abramo del 2020 – ad una stabilizzazione dell’area sulla base di un’intesa con le monarchie arabe del Golfo. Né Netanyahu avrebbe potuto sferrare l’attacco, nella notte tra il 12 e il 13 giugno 2025, ai siti nucleari dell’Iran senza il via libera e l’appoggio degli Usa, che non smettono di fornire armi e supporto logistico e militare a Israele, contribuendo ad alimentare così quella che papa Francesco aveva definito con grande lucidità, nel 2014, la «terza guerra mondiale a pezzi».

Nei confronti di Israele non si è varata per ora alcuna effettiva sanzione, si sono sostanzialmente mantenuti, invece, gli scambi commerciali e gli aiuti militari, anche se qualche crepa sembra delinearsi a livello diplomatico. Suscita, comunque, stupore e indignazione il doppio standard adottato dalle élite occidentali verso la guerra russo-ucraina e il conflitto israelo-palestinese. «Sono i palestinesi – ha osservato laconicamente lo storico Enzo Traverso – a pagare il debito che l’Europa ha contratto nel corso dei secoli nei confronti degli ebrei» [21].
Diretto da un pugno di guerrafondai, lo Stato d’Israele, che considera la repubblica islamica iraniana una «minaccia esistenziale», in quanto il regime teocratico degli ayatollah ha minacciato più volte di volere la sua distruzione, ha attaccato l’Iran per impedirgli – questa la motivazione addotta – di munirsi della bomba atomica. Tuttavia, è bene ricordare che Israele possiede centinaia di testate nucleari, mai dichiarate all’Agenzia internazionale per l’energia atomica, di cui l’Iran accettava il controllo.
Suona, dunque, irritante la retorica dell’«unica democrazia in Medio Oriente», quando invece Israele si sta dimostrando una potenza bellicista e coloniale, quando sono i coloni, spalleggiati dall’Idf, a cacciare i palestinesi dalla Cisgiordania, quando si intende condurre a termine un piano di pulizia etnica in nome di un progetto politico messianico: la Grande Israele, incluse Gaza e Cisgiordania. E appare pretestuoso e strumentale confondere l’antisionismo con l’antisemitismo, di cui sono immancabilmente accusati tutti quanti sono critici nei confronti del governo Netanyahu.

Con la sua scellerata politica, quest’ultimo rischia al contrario di moltiplicare i pericoli per la sicurezza d’Israele, di precipitare il suo Paese, sempre più somigliante a uno Stato-guarnigione, in un esiziale baratro morale e politico [22], nonché in una preoccupante crisi economica [23]. Non si dimentichi che Netanyahu nel 2018 ha fatto introdurre una legge costituzionale che cancella la natura laica e multietnica di Israele, trasformandolo in uno «Stato Nazione del popolo ebraico».
Senza alcun dubbio, Netanyahu è il maggiore responsabile dell’involuzione e dell’acuirsi della crisi della democrazia israeliana. Crisi evidenziata dal lungo travaglio interno che ha preceduto i fatti del 7 ottobre, dai mesi di ininterrotte, imponenti proteste di massa contro la sua liberticida “riforma” della giustizia, in cui una parte cospicua della società civile invocava la fine del suo governo e denunciava la condizione comatosa dello stato di diritto.

Pur godendo, in questo lungo periodo di guerra, dell’appoggio di una parte rilevante degli israeliani, Netanyahu ha dovuto fronteggiare un dissenso tenuto vivo prima da un giornale come «Haaretz» e poi da quanti sono scesi in piazza, soprattutto nell’agosto 2025, per manifestare a centinaia di migliaia la loro contrarietà alla gestione della politica degli ostaggi e per chiedere la fine della guerra. E va aumentando il numero di riservisti che non risponde alla mobilitazione per la conquista dell’intera Gaza City.

Infine, un dato certamente positivo è da registrare in un’epoca di grande passività di massa com’è quella attuale: l’inattesa esplosione già nel 2023 – a fronte della connivenza dei governi occidentali e del massiccio sostegno della destra internazionale all’esecutivo di Netanyahu – di un composito movimento di contestazione sul piano mondiale, specialmente tra i giovani, che, sia pure parzialmente, ha assunto forme e modi tanto di quello contro la guerra in Vietnam, quanto di quello no-global [24]; un movimento intenzionato – a costo di qualsiasi rischio – a dimostrare la sua solidarietà al popolo palestinese con la Global Sumud Flotilla, una serie di imbarcazioni, cariche di aiuti umanitari, salpate alla volta di Gaza tra il 31 agosto e il 1° settembre 2025, per provare a rompere l’assedio israeliano della Striscia.
Francesco Soverina, storico
* Versione rivista e aggiornata dell’articolo apparso su «Patria Indipendente», il 14 luglio 2025.
[1] Letteralmente “zelo”, è l’acronimo di Movimento della resistenza islamica. Fondato nel dicembre 1978 da alcuni membri dei Fratelli musulmani, tra cui lo sceicco Ahmad Yassin, è la maggiore organizzazione islamista palestinese e persegue la distruzione dello Stato d’Israele.
[2] È l’abbreviazione dell’Armata d’Israele.
[3] Secondo il conglomerato mediatico arabo Al-Jazeera, sino all’agosto 2025 i giornalisti palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza sono circa 270.
[4] È il dato che emerge da un’inchiesta del giornale britannico «The Guardian» (agosto 2025). In gran parte civili (donne, vecchi, ragazzi), che spesso non hanno nulla a che fare con Hamas, sono i palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane.
[5] Cfr. A. Gresh, Israele, Palestina. Le verità su un conflitto, Torino, Einaudi, 2002, pp. 15-17.
[6] Si veda di A. Frediani, Guerre e battaglie del Medioriente nel XX secolo. Da Lawrence d’Arabia ai conflitti arabo-israeliani, fino alle guerre afgane e all’ultimo conflitto iracheno, Roma, Newton & Compton, 2003, pp. 49-60.
[7] Si pensi al massacro di Deir Yassin, quando il 9 aprile 1948 circa 120 combattenti sionisti, appartenenti all’Irgun e alla “banda Stern”, attaccano un pacifico villaggio palestinese, assassinando 240 dei circa 600 abitanti. Per questa crudele violenza inorridirà la maggior parte della comunità ebraica.
[8] I. Pappé, Storia della Palestina moderna. Due popoli due stati, Torino, Einaudi, 2014.
[9] Su questo punto R. Finzi, L’antisemitismo. Dal pregiudizio contro gli ebrei ai campi di sterminio, Firenze, Giunti, 1997, p. 122.
[10] A. Gresh, Israele, Palestina. Le verità su un conflitto, cit., p. 87.
[11] Primo Levi. Conversazioni e interviste 1963-1987, a cura di M. Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, pp. 295-303.
[12] Si riporta qui l’osservazione di Enzo Traverso nel suo libro Gaza davanti alla storia, Bari-Roma, Laterza, 2024, p. 78.
[13] Primo Levi. Conversazioni e interviste 1963-1987, cit., p. 298.
[14] Sulla guerra in Libano, A. Frediani, Guerre e battaglie del Medioriente nel XX secolo, cit., pp. 128-150.
[15] Letteralmente: «scuotersi di dosso», «rivolta».
[16] Si veda il fondamentale libro di P. Caridi, Hamas. Dalla resistenza al regime. Nuova edizione, Milano, Feltrinelli, 2023.
[17] È l’acronimo di Israel Defense Forces (Forze Armate d’Israele).
[18] Sul retroterra della micidiale strage avvenuta nell’autunno del 2023 si rinvia a F. Albanese con C. Elia, J’accuse. Gli attacchi del 7 ottobre, Hamas, il terrorismo, Israele, l’apartheid in Palestina e la guerra, Milano, Fuoriscena, 2023.
[19] Sulla controversa problematica dell’uso della categoria di genocidio in riferimento a quanto sta accadendo nella Striscia si rinvia a E. Traverso, Gaza davanti alla storia, cit., ma si veda anche R. Jebreal, Genocidio. Quello che rimane di noi nell’era neo-imperiale, Segrate (MI), Piemme, 2025.
[20] Dure accuse di Guterres a Israele: «Gaza ridotta a un campo di sterminio», in «L’Osservatore Romano», 9 aprile 2025.
[21] E. Traverso, Gaza davanti alla storia, cit., p. 75.
[22] Su questo punto A. Foa, Il suicidio d’Israele, Bari-Roma, Laterza, 2024; ma anche G. Lerner, Gaza. Odio e amore per Israele, Milano, Feltrinelli, 2024.
[23] Cfr. L. Ciarrocca, Conti pubblici e disoccupati, Israele distrugge la sua economia, «Domani», 26 agosto 2025.
[24] G. Cremaschi, Liberalfascismo. Come i liberali distruggono la democrazia e ci portano in guerra, Milano-Udine, Mimesis, 2024, pp. 184-185.
Pubblicato sabato 27 Settembre 2025
Stampato il 28/09/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/longform/un-conflitto-infinito-un-massacro-senza-fine-la-questione-israelo-palestinese/