«La guerra continua. L’Italia, duramente colpita nelle sue province invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni»… così l’annunciatore Arista del Giornale-radio, alle 22,45 del 25 luglio 1943, annunciava alla nazione che Sua Maestà il Re Imperatore aveva accettato le dimissioni del Cavaliere Benito Mussolini dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato, e di aver nominato in sua vece il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio. Sulla scorta della memorialistica e della diaristica sull’argomento abbiamo ricostruito quanto avvenne in quel 25 luglio in un’afosa giornata della sciroccosa estate romana, particolarmente «calda» perché il giorno precedente, dopo quattro anni, si era riunito il Gran Consiglio del Fascismo alle ore 17,00 nella sala del Mappamondo di Palazzo Venezia; Gran Consiglio che si era concluso con l’approvazione, dopo dieci ore di discussione, dell’ordine del giorno di Dino Grandi con cui era stato chiesto che il Capo del Governo (Mussolini) restituisse al Re «… l’effettivo comando delle Forze Armate e quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono…». In chiare lettere le dimissioni di Mussolini. Pur non esistendo un verbale della storica seduta, attraverso le versioni date successivamente dai presenti e dallo stesso Mussolini nel suo volume «Storia di un anno – II tempo del bastone e della carota», risulta che votarono «SI» i seguenti 19 alti gerarchi: Acerbo, Albini, Alfieri, Balella, Bastianini, Bignardi, Bottai, Cianetti, Ciano, De Bono, De Marsico, De Stefani, De Vecchi, Federzoni, Gottardi, Grandi, Marinelli, Pareschi, Rossoni; mentre Biggini, Buffarini Guidi, Frattari, Galbiati, Polverelli, Scorza e Tringali votarono contro. Si astenne il solo Suardo; Farinacci invece, l’uomo dei tedeschi, presentò e votò un suo personale ordine del giorno. Paolo Monelli, il primo a dedicare un libro, «Roma 1943», sull’argomento scrisse: «…a votazione conclusa Mussolini chiede: “Chi porterà questo ordine del giorno al Re?…”. “…Tu lo porterai…” risponde Grandi. “…Mi pare che basti…” dice Mussolini e prosegue: “…Voi avete provocato la crisi del regime. La seduta è tolta…”. All’invito di Sforza di chiudere la seduta con il rituale “Saluto al Duce!” il protocollare “A noi!” di risposta risuona molto fiacco e distratto, alcuni gerarchi erano già usciti dalla sala».

Parallelamente all’azione promossa da Dino Grandi (avvocato bolognese, all’epoca Ministro Guardasigilli), nel corso di quel fatidico 1943 si era mosso nella stessa direzione anche il Re; infatti in una sua lettera al duca Acquarone, Ministro della Real Casa, si legge: «…Fin dal gennaio 1943 io concretai definitivamente la decisione di porre fine al regime fascista e di revocare il Capo del Governo Mussolini. L’attuazione di questo provvedimento, resa più difficile dallo stato di guerra, doveva essere minuziosamente preparata e condotta nel più assoluto segreto, mantenuto anche con le persone che vennero a parlarmi del malcontento del Paese. Lei è stato al corrente delle mie decisioni e delle mie personali direttive, e Lei sa che soltanto queste dal gennaio del 1943 portarono al 25 luglio successivo».

Ma torniamo a quelle prime fatidiche ore del 25 luglio che videro rientrare Mussolini a Villa Torlonia, atteso dalla moglie Rachele che così ricorda: «…L’aspettavo in piedi e gli sono corsa incontro in giardino. Era con Scorza. Non so come mi sia uscita di bocca la frase “… Li hai fatti almeno arrestare tutti?”. Benito ha risposto a voce bassa: “Lo farò”. Erano le cinque quando ci siamo salutati e ci siamo augurati un buon riposo».

Giova a questo punto rammentare che Dino Grandi, immediatamente uscito da Palazzo Venezia, si era incontrato con il duca Acquarone e, messolo al corrente del voto del Gran Consiglio, lo aveva invitato a rendere partecipe il Re delle notizie e di aver deciso di anticipare di 24 ore l’arresto di Mussolini, già stabilito per il giorno 26.

Seguiamo pertanto il duca Acquarone che, dopo aver riferito al sovrano sulle decisioni adottate di comune accordo con il generale Ambrosio, Capo di S.M. Generale e il suo ufficiale Addetto, il generale Giuseppe Castellano, aveva dato il via alle complesse operazioni relative all’arresto di Mussolini. D’intesa pertanto con il generale Angelo Cerica, Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, da poco succeduto al generale Hazon, perito nel corso del bombardamento del 19 luglio su Roma, aveva convocato il Comandante del gruppo interno dei Carabinieri e ordinato al Ten. Col. Giovanni Frignani che venisse sospesa la libera uscita ai componenti le tre Legioni di stanza nella città e che la truppa, schierata in armi nei cortili delle rispettive caserme, attendesse di venire passata in rassegna.

II generale Cerica quindi ordinò ai capitani Paolo Vigneri e Raffaele Aversa, alla presenza dello stesso Frignani e del Commissario di P.S. Marzano: «Vi affido un compito per cui faccio appello al giuramento di fedeltà al Re, da voi prestato nel giorno della vostra nomina ad ufficiale. Fra qualche ora, d’ordine di Sua Maestà il Re, voi dovete arrestare Mussolini che, messo in minoranza nella seduta di questa notte del Gran Consiglio, sarà sostituito nelle funzioni di Capo del Governo dal Maresciallo BadogIio». «Va bene» risposero i due capitani e rimasero in attesa di ulteriori disposizioni. Le modalità di esecuzione prevedevano per il trasporto del Duce l’uso di un’ambulanza con i vetri smerigliati (messa a disposizione dall’autoparco del Ministero degli Interni) e la scorta di cinquanta carabinieri a bordo di un autocarro con i teloni abbassati; fu convocato anche il Questore Giuseppe Morazzini, incaricato della sicurezza della residenza reale, con il preciso compito di agevolare l’ingresso degli automezzi all’interno di Villa Ada.

Pietro Badoglio

Nel rapporto si legge che sull’ambulanza, oltre al conducente e un agente di P.S., si trovavano altri tre agenti in abito civile armati di mitra, tutte persone di fiducia del Commissario Marzano e, in previsione di una colluttazione, vi avevano preso posto anche tre sottufficiali dei carabinieri particolarmente prestanti (i vicebrigadieri Domenico Bertuzzi, Romeo Cianfriglia e Sante Zanon). Non dimentichiamo che l’arresto avrebbe dovuto eseguirsi a qualunque costo (catturarlo vivo o morto, era stato l’ordine tassativo del Ten. Col. Frignani).

I due automezzi quindi procedettero alla volta di Villa Ada e, preceduti dalla macchina del questore Morazzini, entrarono nel grande parco e si fermarono sul lato orientale della Villa Savoia ove si fermò l’ambulanza mentre l’autocarro proseguì fino al lato settentrionale della villa, sul retro.

Ma torniamo ora a Mussolini che nel pomeriggio riceve a Villa Torlonia, la sua residenza, ben tre telefonate che con diversi pretesti gli ricordano l’appuntamento con il Re a Villa Savoia per le 17,00. Alle 16,50 infatti l’auto del Duce, guidata da Ercole Boratto, il suo autista personale, e con a bordo il segretario particolare, il prefetto Nicola De Cesare, oltrepassa il cancello di Villa Ada, lasciando le tre vetture del seguito e la guardia presidenziale su via Salaria; si addentra nel viale alberato che conduce a Villa Savoia ove lo attende il Re che ha appena avuto un’animata discussione con Acquarone e con la Regina, fermamente indignata perché l’arresto di Mussolini è stato predisposto che avvenga in casa sua, contravvenendo alle regole dell’ospitalità.

Ma cosa si sono detti il sovrano e Mussolini all’interno della Villa? Sulla scorta del diario del solo testimone auricolare, il generale Paolo Puntoni, primo aiutante di campo di Vittorio Emanuele III (soltanto il 5 luglio era stato messo al corrente dell’azione per deporre il Duce) e ai ricordi della stesso Mussolini, pubblicati sul Corriere della Sera del 1944 e poi raccolti nel volume «Storia di un anno», abbiamo ricostruito parte di quel colloquio e le vicende relative al suo arresto.

«Appena raggiunto Sua Maestà all’interno della Villa – è Puntoni che scrive – il Re mi dice che ha deciso di invitare categoricamente il Duce ad andarsene e che lo sostituirà con Badoglio: “Farò un Ministero di militari e di funzionari”, soggiunge Vittorio Emanuele III, e continua: “Io riprenderò il comando delle Forze Armate e Ambrosio resterà al suo posto di Capo di Stato Maggiore Generale. Per quanto riguarda Mussolini ho autorizzato che alla fine dell’udienza, fuori di Villa Savoia, sia fermato e portato in una caserma per evitare da un lato che possa mettersi in contatto con elementi estremisti del partito e provocare disordini e, dall’altro, che antifascisti scalmanati attentino alla sua persona …”. Fatti altri passi aggiunge: “Siccome non so come il Duce potrà reagire, la prego di rimanere accanto alla porta del salotto dove noi ci ritireremo a discutere. In caso di necessità intervenga…”».

Dopo una pausa il Re riprende: «Aspettavo da giorni l’occasione buona, ormai non avevo più dubbi sull’avversione della massa per il Duce e per il fascismo; per di più ho buoni motivi per ritenere la guerra irrimediabilmente perduta. Fino all’ultimo, data la sua qualità di generale in servizio attivo – rivolgendosi direttamente a Puntoni – ho voluto che lei rimanesse fuori di tutto. Mussolini è Ministro della guerra e lei dipende dal Ministro. Ogni sua partecipazione diretta o indiretta a quest’affare poteva considerarsi un vero e proprio complotto. Questo non lo avrei mai permesso».

Ma ormai Mussolini, accompagnato dal segretario, che è stato fatto accomodare in un altro salottino privato, è sopraggiunto e Puntoni prende posto secondo i desideri del sovrano. Il Re entra nel salotto, seguito dal Duce, che ricorda di averlo notato «in uno stato di anormale agitazione e con i tratti del volto sconvolti» dice: «…Caro Duce, le cose non vanno più. L’Italia è in tocchi. L’Esercito è moralmente a terra. I soldati non vogliono più battersi. Gli alpini cantano una canzone nella quale dicono che non vogliono più fare la guerra per conto di Mussolini. II voto del Gran Consiglio è tremendo. Diciannove voti per l’ordine del giorno Grandi: fra essi quattro Collari dell’Annunziata. Voi non vi illudete certamente sullo stato d’animo degli italiani nei vostri riguardi. In questo momento voi siete l’uomo più odiato d’Italia. Voi non potete contare più su di un solo amico. Uno solo vi è rimasto, io. Per questo vi dico che non dovete avere preoccupazioni per la vostra incolumità personale, che farò proteggere. Ho pensato che l’uomo della situazione è, in questo momento, il Maresciallo Badoglio. Egli comincerà col formare un ministero di funzionari, per l’amministrazione e per continuare la guerra. Fra sei mesi vedremo. Tutta Roma è già a conoscenza dell’ordine del giorno del Gran Consiglio e tutti attendono un cambiamento…».

«Io vi voglio bene – prosegue il Re al Duce – …e ve l’ho dimostrato più volte difendendovi contro ogni attacco, ma questa volta devo pregarvi di lasciare il vostro posto e di lasciarmi libero di affidare ad altri il governo…».

Prosegue Puntoni nel suo diario: «…Passano alcuni attimi di silenzio poi si sente come un bisbiglio … la sua voce interrotta di tanto in tanto da brevi repliche del sovrano che insiste sulla sua decisione e sul suo rincrescimento. Mussolini interviene a scatti, poi le sue parole sono sopraffatte da quelle del Re che accenna al torto fattogli quando, senza neppure salvare la forma, Mussolini aveva voluto assumere il comando delle Forze Armate. Mi arriva netta questa frase: “E mi hanno assicurato che quei due straccioni di Farinacci e Buffarini, che avevate vicini quando non si sapeva se avrei firmato o no il decreto dissero: Lo firmerà, altrimenti lo prenderemo a calci nel sedere!”. Mussolini ascolta senza fiatare, ma il sovrano ormai non gli dà tregua. Sembra che tutti e due parlino come se temessero di essere ascoltati, perché del loro colloquio mi giunge poco o nulla».

A questo punto il Re prosegue: «le condizioni interne della Germania sono gravissime. Io devo intervenire per salvare il Paese da inutili stragi e per cercare di ottenere dal nemico un trattamento meno disumano». II Duce sussurra in maniera stanca qualche parola e domanda: «Ed io, ora, cosa debbo fare?». Replica il Re ad alta voce: «…Rispondo io con la mia testa, della vostra sicurezza personale, statene certo…» e prosegue accompagnandolo alla porta «…mi dispiace, mi dispiace, ma la soluzione non poteva essere diversa…». Mussolini racconterà poi: «…Nel salutarlo mi parve ancora più piccolo, quasi un nano, ma mi strinse la mano con grande calore…».

Al rumore delle sedie Puntoni si allontana dall’uscio e Mussolini, accompagnato dal segretario, si avvia verso l’uscita e, sceso dalle scale, viene affrontato dal capitano Vigneri mentre l’altro capitano, Aversa, si porta alle sue spalle.

Vigneri saluta militarmente e sull’attenti esclama: «Duce, in nome di Sua Maestà il Re, vi preghiamo di seguirci per sottrarvi ad eventuali violenze della folla».

«Non ce n’è bisogno» replica con tono stanco e implorante.

«Duce, io ho un ordine da eseguire», è la ferma risposta dell’ufficiale. «Allora seguitemi» dice Mussolini, e si avvicina alla sua macchina ferma, senza autista, a ridosso di una siepe. Ma il capitano Vigneri, spostandosi a sua volta, gli si para innanzi: «No, Duce, deve venire con la mia macchina!». Mussolini, ammutolito e rassegnato, si avvia quindi verso l’ambulanza ed ha un attimo di esitazione prima di salire a bordo, ma viene sollecitato da Vigneri che, presolo per il gomito, lo aiuta a salire, seguito da De Cesare. Quando Mussolini protesta perché a bordo dell’ambulanza vengono fatti entrare oltre ai tre agenti di P.S. anche i tre sottufficiali dell’Arma, Vigneri allarga le braccia per fargli capire che non c’è niente da fare e sollecita gli uomini ordinando «Su, ragazzi, fate presto».

Con un caldo soffocante l’ambulanza con dieci persone a bordo si avvia lungo i viali inghiaiati del parco ed esce da un cancello secondario. Mussolini, pallidissimo, non dice una parola; ogni tanto si porta l’indice alla radice del naso, ma tiene gli occhi bassi.

L’autoambulanza giunge così nel cortile della caserma Podgora. Gli uomini scendono, per ultimo Mussolini, con al suo fianco Vigneri che, alla sua richiesta «È una caserma dei carabinieri questa?…», risponde «Sì, Duce» e lo accompagna al Circolo Ufficiali.

Dopo una breve sosta, scortato dagli stessi uomini, a bordo della medesima ambulanza verrà poi condotto nella caserma della Legione Allievi Carabinieri di via Legnano e lungo il tragitto avrà occasione di lamentarsi per l’eccessiva velocità commentando: «Se portate così i feriti non so come giungeranno vivi!».

La lunga giornata calda andò quindi incontro alla sera e mentre molti italiani già dormivano altri ebbero occasione di udire il giornale-radio delle 22,45 che annunciava: «Sua Maestà il Re Imperatore ha accettato le dimissioni del Cavaliere Benito Mussolini…».

Le strade e le piazze furono immediatamente invase dalla folla esultante. Per tutta una notte, come scrisse Monelli, i canti, le grida, i clamori sembrarono «il grido di un muto che riprende la parola dopo vent’anni».

II colonnello Tabellini che ebbe ospite il Duce nella sua abitazione all’interno della caserma di via Legnano riferì: «Tenne un contegno che francamente mi meravigliò fino a sconcertarmi… In sostanza ebbi l’impressione che il nuovo stato di cose lo avesse liberato da una situazione insostenibile. Più che rassegnato mi sembrò sollevato».

Rimase nella caserma di via Legnano ben poco perché quello «scomodo» prigioniero venne inviato, verso le 22 del 27 luglio, a Gaeta, ove venne imbarcato sulla torpediniera Persefone alla volta di Ventotene e nelle altre isole del Tirreno.

(da Patria indipendente n. 12-13 del luglio 1993)


I proclami del 25 luglio

Sua Maestà il Re Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro, Segretario di Stato presentate da Sua Eccellenza il cav. Benito Mussolini ed ha nominato Capo del Governo, Primo Ministro, Segretario di Stato Sua Ecc. il cav. Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio. Sua Maestà il Re Imperatore ha rivolto agli italiani il seguente proclama:

«Italiani, assumo oggi il comando di tutte le Forze Armate.

Nell’ora solenne che incombe sui destini della Patria, ognuno riprenda il suo posto di dovere, di fede e di combattimento: nessuna deviazione deve essere tollerata, nessuna recriminazione può essere consentita. Ogni italiano si inchini dinanzi alle gravi ferite che hanno lacerato il sacro suolo della Patria.

L’Italia, per il valore delle sue Forze Armate, per la decisa volontà di tutti i cittadini, ritroverà, nel rispetto delle istituzioni che ne hanno sempre confortata l’ascesa, la via della riscossa.

Italiani, sono oggi più che mai indissolubilmente unito a voi dall’incrollabile fede nell’immortalità della Patria.

Roma, Iì 25 luglio1943

VITTORIO EMANUELE

controfirmato BADOGLlO»

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Sua Eccellenza il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio ha rivolto agli italiani il seguente proclama:

«Italiani, per ordine di Sua Maestà il Re Imperatore assumo il Governo militare del Paese, con pieni poteri.

La guerra continua. L’Italia, duramente colpita nelle sue province invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni.

Si serrino le file attorno a Sua Maestà il Re Imperatore, immagine vivente della Patria, esempio per tutti.

La consegna ricevuta è chiara e precisa: sarà scrupolosamente eseguita, e chiunque si illuda di poterne intralciare il normale svolgimento, o tenti turbare l’ordine pubblico, sarà inesorabilmente colpito.

Viva l’Italia! Viva il Re!

Roma, lì 25 luglio 1943

Maresciallo d’Italia PIETRO BADOGLlO»