Che cosa vuol dire esattamente – oggi – la parola “razzismo”? È la stessa parola delle leggi razziali del 1938 o c’è stata un’evoluzione, degli adattamenti?
La questione non è da poco, soprattutto per chi al razzismo si oppone. Come con il fascismo è necessario tenere di conto dei cambiamenti avvenuti nel tempo, per non ritrovarsi a combattere un nemico che nel frattempo non è più lo stesso di prima.
Il razzismo biologico
Il razzismo biologico, quello delle leggi razziali del 1938, quello che postula l’esistenza delle razze umane e di una gerarchia fra queste, è stato definitivamente sconfitto? Quali formazioni politiche ne fanno oggetto esplicito di rivendicazione?
Nessuno oramai si dichiara più “francamente razzista”, come richiedeva Mussolini ottanta anni fa a tutti gli italiani, e per trovare questioni razziali classiche si deve arrivare a gruppi piccolissimi, ad esempio la branca italiana di Women for Aryan Unity, di cui avevamo già parlato in un recente articolo sulle tematiche di genere nell’estrema destra italiana. I loro due slogan-manifesto sono espliciti su questo: “Dobbiamo assicurare l’esistenza del nostro popolo e un futuro per i bambini bianchi” e “Poiché la bellezza della donna bianca ariana non deve sparire dalla terra”. Inoltre gli 88 precetti del terrorista David Lane, il cui pensiero è fra i massimi riferimenti per le WAU oltre che per il vasto mondo del suprematismo bianco, include numerose volte il concetto di razza. Ad esempio il precetto numero 21: “Un popolo che permetta ad altri non appartenenti alla propria razza di vivere al suo interno perirà, in quanto l’inevitabile risultato dell’integrazione razziale è il matrimonio razzialmente misto, che distrugge le caratteristiche e l’esistenza di una razza. L’integrazione forzata è un deliberato e maligno genocidio, in particolare per un Popolo come quello della razza Bianca, che rappresenta attualmente una ridotta minoranza nel mondo.”
Ma le WAU in Italia contano un numero di aderenti minimale e non hanno né peso politico né capacità di influenza.
Anche un’organizzazione come Lealtà – Azione, che capacità di influenza ha dimostrato invece di riuscire a perseguirla, pur nata come coagulo nell’ambiente hammerskin che a sua volta, come per le WAU, ha radici nel suprematismo bianco americano, lascia i temi razziali al di fuori dei propri programmi.
Va però notato che Lealtà – Azione ha fra i propri espliciti riferimenti politici e culturali feroci razzisti e antisemiti che, subito prima delle ultime elezioni regionali e nazionali e del loro impegno in favore di alcuni candidati della Lega, sono scomparsi dal loro sito web.
La stessa CasaPound Italia si tiene a distanza dal razzismo, arrivando ad definire come un gravissimo errore le leggi razziali fasciste.
Ma su questa affermazione torneremo più avanti.
Neo-razzismo
Se non di razzismo biologico, dunque, di cosa parliamo quando parliamo del razzismo di oggi?
A volte definito come “razzismo differenzialista”, a volte come “razzismo senza razze”, il neo-razzismo è un insieme di teorie e di pratiche che estremizzano le differenze etniche e culturali fra gruppi di persone allo scopo di dimostrare l’impossibilità della convivenza.
Per dirla con le parole di Étienne Balibar il neo-razzismo “è un razzismo in cui il tema dominante non è il fattore biologico ma l’insormontabilità delle differenze culturali, un razzismo che, a prima vista, non postula la superiorità di certi gruppi o certi popoli in relazione ad altri ma ‘solo’ la pericolosità dell’abolire confini, l’incompatibilità degli stili di vita e delle tradizioni.” [da “Razza, nazione, classe: le identità ambigue”, Balibar e Wallerstein, 1991].
Si tratta di un approccio in prima battuta difensivo, che anzi prende come base alcune idee proprie dell’antirazzismo. Se l’antirazzismo è infatti riuscito dopo la seconda guerra mondiale a far passare l’idea che non vi siano gerarchie fra le culture, che non vi siano culture civili e culture barbare, che tutte siano parimenti degne contribuendo al mosaico di cultura che la specie umana complessivamente esprime, proprio da qui il neo-razzismo prende polemicamente le mosse: allora chi non vuole difendere la nostra cultura dagli invasori è il vero unico razzista. È un “autorazzista”.
È la nota accusa del “razzismo contro gli italiani”, con la consueta giravolta retorica di chi, trovandosi per indole o convincimento dal lato di chi pratica odio, non ha altro artificio che sminuire l’avversario, vista l’impossibilità di sostenere apertamente le proprie posizioni.
È la stessa storia della parola “buonismo”, a sua volta gemella della parola “pietismo”, con la quale venivano liquidati coloro che si opponevano alle leggi razziali fasciste.
Ma non c’è solo questo a stabilire un collegamento fra neo-razzismo e razzismo biologico. Innanzitutto va notato che storicamente l’approccio differenziale, ovvero l’approccio in cui si insiste non sull’opposizione fra superiorità e inferiorità delle razze ma sull’opposizione fra identità e differenza, era già ampiamente presente nel razzismo storico.
Basta ricordare l’antisemitismo di stampo fascista che aveva certo componenti biologiche, ad esempio con il divieto di matrimonio fra ebrei e ariani, ma in parallelo portava avanti componenti culturali e sociali, con l’espulsione dalle scuole di insegnanti, studenti e anche bidelli ebrei.
I due aspetti sono sempre stati legati in maniera indissolubile.
La volgare propaganda dei regimi fascista e nazista voleva gli ebrei contaminatori della purezza del sangue ariano con i trenta denari di Giuda. Aspetto biologico (purezza razziale) e aspetto sociale e culturale (importanza della ricchezza materiale).
Il fatto è che l’eliminazione dell’ormai impresentabile razzismo biologico non ha eliminato tutto il resto e, in ogni caso, la rimozione teorica non ha cambiato le pratiche di respingimento e separazione. Per dirla sempre con Balibar il neo-razzismo è semplicemente un “adattamento tattico” del razzismo.
È quindi necessario spostare l’attenzione su un meta-razzismo che cambia alcuni aspetti perché cambiano i contesti storici, ma che rimane immutato nei sentimenti e nelle pratiche.
Se infatti il razzismo ottocentesco ha fornito il quadro teorico e morale per il colonialismo, il neo-razzismo ha la stessa funzione nei confronti del fenomeno globale dell’immigrazione.
Torna alla mente il “fascismo eterno” o “ur-fascismo” verso il quale metteva in guardia Umberto Eco. In questo senso forse possiamo asserire di trovarci di fronte ad un “ur-razzismo” capace di adattarsi alla peculiarità dei periodi storici, ma essenzialmente sempre lo stesso.
Di cosa è fatto il non-razzismo di CasaPound
Torniamo quindi alla posizione esplicitamente distante dal razzismo espressa da CasaPound Italia. Va innanzitutto detto che nella strategia politico-comunicativa di CasaPound ricorrono le boutade spiazzanti con le quali intendono smarcarsi dal mondo dell’estrema destra storica, un atteggiamento che vorrebbe imitare il futurismo. Oltre a questa sul razzismo si può infatti citare, ad esempio, l’opposizione alla pena di morte.
“Il più grande errore del fascismo furono le leggi razziali” e “No alla pena di morte” sono affermazioni che possono essere tranquillamente condivise in ambienti progressisti, ma basta grattare la superficie e la sostanza si rivela ben diversa. Sono gli stessi rappresentanti di CasaPound a spiegare che la loro valutazione sulle leggi razziali è meramente politica, perché fu un errore tattico rendersi invisa la comunità ebraica, fino allora sostanzialmente (nel loro dire) vicina al fascismo.
Non il depredare e deportare cittadini innocenti, non il consegnare allo sterminio migliaia di famiglie italiane, ma l’inopportunità di farsi nemica quella comunità.
È importante, a questo fine e non solo, leggere un articolo su Il Primato Nazionale, la rivista di riferimento di CasaPound, che si intitola “La malattia dell’Occidente si chiama empatia” e firmato dal direttore stesso, Adriano Scianca. Commentando un testo dello psicologo francese Serge Tisseron viene dedotto che i sentimenti di solidarietà umana, di empatia, di condivisione delle sofferenze impediscono il pensiero razionale e che quindi vadano espulsi dal dibattito sull’immigrazione. Questa è, in fin dei conti, lo stesso tipo di analisi sottintesa dal giudizio sulle leggi razziali.
Del resto gli auspici di Scianca paiono effettivamente lucidi: per arrivare alle politiche proposte da CasaPound e da altri per il tema dell’immigrazione è necessario prima “disumanizzarne” l’approccio.
È un’idea che fa scuola, appunto perché funzionale. Le recenti dichiarazioni di Roberto Ciambetti, presidente del consiglio regionale del Veneto ed esponente della Lega (“chi contrasta lo stop agli sbarchi perché si fa coinvolgere emotivamente aiuta, spero inconsapevolmente, i trafficanti di uomini”), seguono lo stesso filo logico.
Vale la pena qui ricordare la campagna “Reddito nazionale di natalità” avanzata da CasaPound Italia durante l’anno 2017, con la quale si propone di dare un reddito di 500€ mensile a tutte le ragazze e i ragazzi, dalla nascita ai sedici anni di età.
Anche qui basta andare poco oltre il titolo dell’iniziativa per vederne spirito e obiettivi. La copertura economica di questo progetto dovrebbe essere fatta riconvertendo completamente quella per le politiche di accoglienza. Inoltre il beneficio non sarà per tutti i minorenni italiani, ma solo per coloro che sono nati in Italia, italiani dalla nascita e che abbiano almeno un genitore italiano dalla nascita. Vengono comunque esclusi i genitori, anche se italiani, che vivano in baracche o abitazioni mobili.
Quindi, se da una parte si vuol distogliere i fondi dai progetti di accoglienza, dall’altra parte si riserva il diritto di usufruire di questo reddito solo ad alcuni cittadini basandosi su discriminanti “etniche”, trovando il modo di escludere, pur senza citarli, almeno una parte dei Rom e dei Sinti di nazionalità italiana.
Al di là dell’improbabilità economica dell’operazione e dell’evidente incostituzionalità, rimane una proposta orientata a rendere appetibile una discriminante basata sul “sangue”.
Per la cronaca: CasaPound Italia è contraria alla pena di morte perché con l’ergastolo i condannati soffrono di più.
Forza Nuova, i “partigiani etnici”
Già nel 2011 la pagina nazionale di Forza Nuova su Facebook lanciava delle nuove parole d’ordine in tema di immigrazione. In un post del 19 marzo di quell’anno si legge: “Difendere la propria terra non è razzismo ma patriottismo. Ci stanno invadendo ed il nostro governo non riesce a fermarli. Resistenza Etnica unica soluzione.”
Di nuovo: si scansa l’accusa di razzismo e si rilancia sul lato etnico.
Da allora la “Resistenza Etnica” torna centinaia di volte nella comunicazione forzanovista che, anche rispetto ad altre formazioni della stessa area, predilige una retorica più marcatamente bellicista.
Queste parole d’ordine sono esempio perfetto dell’adattamento tattico di cui dicevamo poco sopra: se il razzismo ottocentesco era un razzismo di aggressione funzionale al colonialismo, adesso abbiamo un neo-razzismo di difesa, presentato come patriottismo da opporre ad un’invasione.
Pur continuando nel solco “difensivo” Forza Nuova però rende palese la continuità fra razzismo classico e neo-razzismo quando decide di riutilizzare un famoso manifesto fascista. Inizialmente ideato per la propaganda di guerra, qui il grosso uomo nero che aggredisce la donna bianca viene recuperato come spauracchio anti-immigrazione.
Altro punto da tempo sostenuto da Forza Nuova è quello dell’espulsione di chi, secondo loro, non è culturalmente compatibile con gli italiani.
All’indomani degli attentati contro Charlie Hebdo a Parigi tornano a chiarire la loro opinione chiedendo in particolare di “espellere tutti i finti profughi entrati negli ultimi mesi e il milione di immigrati – clandestini o colpevoli di reati – ancora in circolazione, spesso in possesso di ridicoli fogli di espulsione che nessuno riesce ad eseguire” e di “avviare l’umano e rispettoso rimpatrio di quei cittadini provenienti da Paesi islamici che hanno seguito le regole e vissuto onestamente.”
Al di là della sfuggente distinzione fra espulsione e rimpatrio e della violenza dell’approccio, è evidente il progetto di un mondo suddiviso in serragli omogenei dal punto di vista etnico, culturale e religioso.
Generazione Identitaria e la “remigrazione”
Più articolata ma analoga la posizione di Generazione Identitaria. A seguito di un’assise tenuta in Francia dal Bloc Identitaire a novembre 2014, dalla quale ha preso le distanze anche il Front National di Marine Le Pen, vengono precisate le basi per una proposta articolata in 23 punti denominata “Remigrazione”.
Attraverso vari propositi si arriva la nucleo della proposta, al punto 6, per la quale “il governo italiano dovrebbe impegnarsi a remigrare nei Paesi d’origine tutti i cittadini non provenienti dall’area Schengen”, compito da realizzarsi tramite la formazione di un apposito Alto Commissariato per la Remigrazione.
L’idea ruota intorno all’obiettivo esplicito dell’omogeneità etnica e culturale degli stati nazionali, vista come requisito necessario al mantenimento dell’identità culturale dei popoli e degli individui. Va notato che nella versione formalizzata da Generazione Identitaria si prevede anche il “lancio di una campagna di sensibilizzazione che inviti gli immigrati a ritornare nei Paesi d’origine”, ma nel resto della proposta la volontarietà dell’operazione non trova conferme, così come il rimpatrio voluto da Forza Nuova, che era “umano e rispettoso” ma tutt’altro che volontario.
L’astorica visione di culture nazionali, statiche nel tempo o che evolvano senza contatti con altre culture, è il motore di questa desiderata “remigrazione”, come ritorno ad un’originalità che a ben vedere non è mai esistita.
Il timore della sconfitta razziale
Casaggì, la comunità militante fiorentina legata a Fratelli d’Italia e che di fatto localmente ne costituisce l’organizzazione giovanile, ha lanciato nel 2017 una propria casa editrice, Passaggio al Bosco. In catalogo il libro “L’inganno antirazzista – come il progressismo uccide identità e popoli” di Stelio Fergola, direttore responsabile del giornale online “Oltre la Linea”.
Descritto come un successo editoriale, è oggetto di una serie di presentazioni nelle sedi della stessa Casaggì ma non solo, vista l’ospitalità ricevuta presso la Testa di Ferro e altre strutture legate a CasaPound.
Il testo, vibrante di urgenza e allarme ma che non contiene novità rispetto ad altri simili, propone le classiche tesi del neo-razzismo: “È su questa disgregazione che avanza, come un rullo compressore, la forma di razzismo di cui tutti gli italiani sono vittime e carnefici: quella contro se stessi. Ora, insieme agli altri popoli occidentali, essi stanno subendo l’azione ancora più subdola e inconscia della religione multi-culturale, capace di mettere gli uomini e le etnie gli uni contro gli altri, anziché concentrarsi sull’edificazione di un mondo pacificato dalla presenza e dalla coabitazione delle differenze, configurate in spazi delimitati da confini e rispettose delle proprie identità e dei propri costumi.”
L’idea della necessità imprescindibile di separare culture e etnie tramite i confini degli stati nazionali, pena la distruzione, viene ripetuta in varie maniere. Nel corso delle pagine però si affaccia più di una volta anche il razzismo storico.
“La religione multi-culturale antirazzista, come dicevamo prima, agisce seguendo quattro direttive fondamentali: il diniego delle differenze, l’autorazzismo, l’appoggio incondizionato di qualsiasi forma di migrazione di massa, l’ostilità alla famiglia e alla difesa della propria etnia. Un processo che trova, nelle sue ragioni filosofiche, il primo cortocircuito: secondo il pensiero antirazzista, infatti, non è possibile concepire peculiarità e – soprattutto – è assolutamente proibito constatare l’esistenza delle razze umane.”
“Il multiculturalismo è uno strumento suicida e il ‘razzismo antirazzista’ è la sua conseguenza più ovvia: questo odio autoinflitto, assieme al costante aggravamento delle tensioni tra i gruppi etnici, rappresenta il cavallo di Troia della razza indoeuropea.”
Il timore della sconfitta razziale, esplicitamente affermato, è il tema che sembra pervadere non solo il libro pubblicato da Casaggì ma tanta altra pubblicistica che alimenta il neo-razzismo.
Il timore della sconfitta razziale, ora tatticamente adattata in paura della “sostituzione etnica”, è una tensione primaria e spesso sotterranea che costituisce, nel suo atavismo, un motore di quel meta-razzismo che attraversa la storia umana.
E c’è un’evidente identità fra lo slogan delle WAU per la difesa dei bambini bianchi, i timori per la razza indoeuropea diffusi da Casaggì, le preoccupazioni di Forza Nuova per il “dramma nazionale di un numero di nascite in calo” e in generale la diffusa e trasversale retorica sulla fertilità in Italia, non motivata dal sostegno ai progetti di famiglia ma dalla volontà di farne strumento di grandezza nazionale.
Neo-razzismo come carattere unificante dell’estrema destra e sue radici
Nello scorrere le posizioni che le varie componenti dell’estrema destra italiana esprimono sui temi dell’integrazione, della convivenza e dell’inclusione si nota come, al di là di singole proposte e di alcune sfumature retoriche, vi sia un pensiero di fondo che unisce tutto questo mondo, altrimenti variegato e diviso.
Respingimento, separazione, espulsione di chi non ci è identico per cultura e etnia: di fatto il neo-razzismo è un carattere unificante per le formazioni dell’estrema destra.
“Fascismo e razzismo sono la stessa cosa”, si dice. E in effetti la storia del razzismo, in Italia, coincide politicamente con la storia del fascismo. Ma c’è molto di più.
La radice dell’attuale neo-razzismo viene oramai comunemente individuata nel laboratorio di idee che agisce in Francia dalla fine degli anni 60 e che è stato giornalisticamente ribattezzato Nouvelle Droite: il gruppo di intellettuali GRECE (Gruppo di ricerca e studi per la civiltà europea).
Il GRECE è tuttora visto come uno dei più autorevoli fra i gruppi di pensatori che hanno influenzato l’attuale assetto ideale dell’estrema destra europea.
Il mondo europeo dei think-tank della cosiddetta “nuova destra” è però decisamente variegato e a volte propone opinioni che tornano senza mezzi termini al razzismo biologico. In Belgio opera nello stesso solco TeKoS, Neue Anthropologie oppure Thule-Seminar in Germania e in Gran Bretagna il Mankind Quarterly. Quest’ultimo ospita fra le proprie principali firme il professor Richard Lynn, che nel tempo ha avuto modo di auspicare una secessione degli USA su base razziale e che ha pubblicato un articolo dal titolo “Le differenze nel QI tra nord e sud Italia corrispondono a differenze nel reddito, educazione, mortalità infantile, statura e alfabetizzazione”, motivando il supposto basso quoziente intellettivo dei meridionali italiani attraverso la maggiore mescolanza genetica con mediorientali e nordafricani.
Se alcune tesi del GRECE sono arrivate in Italia solo in maniera superficiale, ad esempio l’abbandono della tradizione giudaico-cristiana in favore di un neo-paganesimo di stampo nord-europeo, altre sono di fatto dominanti anche ben al di fuori del ristretto mondo dell’estrema destra di derivazione neofascista. Si vedano ad esempio le dichiarazioni di Lorenzo Fontana, Ministro della famiglia e delle disabilità, del 3 agosto scorso (“Abroghiamo la legge Mancino, che in questi anni strani si è trasformata in una sponda normativa usata dai globalisti per ammantare di antifascismo il loro razzismo anti-italiano.”) che, oltre a tracciare un inevitabile e conseguente collegamento fra antifascismo e antirazzismo, riprendono il tema classico dell’autorazzismo per attaccare il principale presidio normativo italiano contro i crimini d’odio.
Strategie del neo-razzismo
A seguito delle dichiarazioni appena citate, il Ministro Fontana torna sulla questione alcuni giorni dopo, precisando che “è una legge giusta usata per fini sbagliati. Benissimo perseguire i razzisti veri. Ma il problema è che ormai tutto quello che non si uniforma al pensiero unico e al mainstream globalista diventa razzismo”, correggendo poi il tiro affermando che desidera che la legge Mancino non sia abrogata, ma modificata.
La strategia è chiara: relegare l’azione del contrasto ai crimini d’odio al solo razzismo biologico – i “razzisti veri” – salvando i temi del neo-razzismo.
La legge Mancino, di fatto immediatamente successiva ai primi studi sistematici sulle moderne evoluzioni del razzismo, è già molto chiara ed ha una sua efficienza anche a livello di deterrenza – comprovata dall’ostilità di tutta l’estrema destra – non limitandosi al razzismo biologico e punendo chi “istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. Quel “istiga a commettere” è il granello di sabbia che grippa le meccaniche delle politiche di odio.
È bene infine chiedersi quali siano le fasce sociali a cui punta il neo-razzismo.
Se in passato, nel quadro storico del colonialismo, il razzismo era appetibile per i colonizzatori, ovvero per i “vincenti”, ed era riferimento ideale di offesa adesso la situazione è ribaltata: il neo-razzismo, declinato in chiave difensiva, è appetibile per i “perdenti”.
In una riflessione articolata da Franco Berardi si fa il punto su chi siano questi “perdenti”. Il neo-razzismo costituisce, in breve, un riferimento ideale per alcune paure: “paura della concorrenza sul lavoro, paura sessuale da parte della popolazione senescente europea nei confronti delle popolazioni giovani del sud del mondo, paura dell’invasione che temiamo di subire.”
Quello che Berardi chiama “paura sessuale” è in buona parte sovrapponibile a quello che noi abbiamo chiamato “timore della sconfitta razziale” ed è collegato al razzismo biologico. Mentre la concorrenza sul lavoro e il ritrovarci “stranieri a casa nostra” sono paure molto concrete ed immediate, comprensibili a tutti e, in un certo qual modo, politicamente trasversali.
Non una destra identitaria, ma una destra tribale
Buona parte della destra estrema che si rifà al neo-razzismo si autodefinisce “identitaria”. È un abuso di linguaggio.
L’identità complessiva di ognuno di noi è composta da varie identità: quella di genere, quella culturale, quella sociale, quella religiosa e via dicendo. Di queste quella su cui puntano tutto gli identitari è l’identità nazionale, ovvero un incasellamento prestabilito in cui collocare buona parte delle altre identità – come le identità culturale e religiosa – bollando come traditore chi non si adegua, oppure come degenerato – nel caso dell’identità di genere.
È insieme una forzatura ed una semplificazione.
In realtà l’identità culturale, ad esempio, è ben lontana dall’essere univoca o di facile incasellamento. Basti guardare alla ricchezza di culture regionali e locali che compongono l’Italia e che sfumano senza grandi intoppi in identità culturali di oltre confine, sia per continuità territoriale che per motivi storici. Ma, anche qui, c’è di più.
Con la vittoria della squadra francese ai campionati del mondo di calcio (che poi ha pure la sfrontatezza di cantare Bella Ciao) si è innescata una curiosa polemica, in cui si sono inseriti naturalmente temi del neo-razzismo, come ad esempio nell’editoriale del Primato Nazionale di agosto 2018: “con soli 6 francesi su 23 la nazionale transalpina ha mostrato in Russia cosa significhi concretamente l’espressione «grande sostituzione»”. La questione rivela in realtà il punto debole di tutta l’impalcatura dell’identitarismo: si esclude a priori la possibilità che vi possano essere più identità che convivono nello stesso individuo. Ovvero si esclude che l’identità francese non possa convivere con l’identità africana, che non si possa essere cittadini francesi, nel pieno spirito moderno e repubblicano, senza abbandonare la storia delle proprie origini. Significa negare l’evidenza a cui siamo di fronte da almeno due generazioni. Significa, è questo l’indirizzo del pensiero espresso nel Primato Nazionale, che per essere francesi è necessario avere la pelle bianca, chiudendo ancora una volta il cerchio fra identitarismo e razzismo.
In Italia la situazione è molto meno evidente rispetto a quella francese, ma non diversa. Basta limitarsi ad uno sguardo alle nostre comunità eritree ed etiopi, da decenni armonicamente presenti nella nostra società. Ma anche le giovani generazioni di figli dell’immigrazione più ampia e recente pongono con naturalezza la questione delle identità culturali multiple. “Cara Italia / sei la mia dolce metà”, canta Ghali, nato a Milano da genitori tunisini nel 1993.
Nel suo complesso quindi la destra autodefinitasi “identitaria”, con il suo portato di neo-razzismo, ha in realtà una visione “tribale”: non si può appartenere a due tribù contemporaneamente, le tribù sono in naturale competizione per uno spazio vitale, la supremazia di una significa la scomparsa dell’altra.
L’aggettivo “tribale”, lungi dal voler essere denigratorio o riduttivo, è invece da intendersi nel medesimo senso che viene usato dallo psicologo Jonathan Haidt. Muovendoci appunto sulla falsa riga delle tesi di Haidt possiamo concludere che la destra tribale, esasperando le identità nazionali e pretendendo di usarle come un’arma di offesa e difesa, zittisce ogni razionalità, ogni ragionamento cosciente. Costruisce consenso su un’appartenenza ancestrale, idealizzata e astorica che inevitabilmente prende la forma del razzismo, nei suoi vari “adattamenti tattici”.
Conoscere queste meccaniche permette di smontare la retorica tribale e svelare l’uso disumanizzante di questo approccio.
Infine torna a mente una riflessione del professor Cavalli Sforza, il noto genetista appena scomparso: “E allora, esistono o no le razze? La situazione non è cambiata oggi; e se non sappiamo neppure quante sono, che diritto abbiamo di dire che esistono? Penso sia essenziale aggiungere: e se vogliamo a tutti i costi accettarne la validità anche nell’uomo, a che cosa servono? È questa veramente la domanda più importante.”
Pubblicato venerdì 7 Settembre 2018
Stampato il 11/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/inchieste/di-cosa-parliamo-quando-parliamo-di-razzismo/