Il carattere che distingue la Resistenza da tutte le altre guerre, anche da quelle fatte da volontari,

anche dall’epoca garibaldina, è stato quello di essere più che un movimento militare, un movimento civile”.

Piero Calamandrei

Verso la fine del 1944, durante il lungo periodo invernale di stasi delle operazioni belliche annunciato dal “proclama Alexander”, mentre i due opposti eserciti consolidavano le loro posizioni al di qua e al di là della Linea Gotica, il Governo provvisorio dell’Italia liberata iniziava a riorganizzare la vita civile in vista del dopoguerra, ed iniziava a emanare a tale scopo un nutrito numero di provvedimenti legislativi, per gestire le problematiche del periodo di transizione ritenute maggiormente urgenti.

Alcune di queste norme furono oggetto di frequenti e ravvicinate modifiche, anche in conseguenza del rapido evolversi dello scenario bellico. Tra questi atti legislativi, particolarmente rilevanti furono quelli che iniziarono a regolamentare il rientro ordinato dei partigiani alla vita civile, individuando quali organismi amministrativi statali, e con quali modalità, se ne dovessero occupare. Emergeva infatti la preoccupazione, al cessare delle ostilità, di gestire attraverso un sistema efficace di norme, incentivi e assistenze, il pacifico e regolare rientro nei ranghi civili o militari di centinaia di migliaia di uomini armati, e militarmente ben organizzati e addestrati, quindi potenzialmente “innescabili” per obiettivi destabilizzanti. La rilevanza sociale e l’attenzione politica su questa tematica era condivisa ai massimi livelli sia dal nostro Governo, sia dagli Alleati.

In “Guerra di Liberazione”, volume edito a cura del Ministero dell’Italia occupata, gennaio 1944

Infatti, con un primo intervento legislativo del novembre 1944 veniva costituita, presso la Presidenza del Consiglio, una “Commissione Nazionale per i patrioti dell’Italia liberata” [1], che si doveva occupare di valutare l’attività dei “patrioti” e riconoscere loro le qualifiche e i relativi attestati, di provvedere alle diverse forme di assistenza morale e materiale in loro favore, di promuovere il loro eventuale reimpiego militare ai fini della Guerra di Liberazione nel nord Italia.

Nel dicembre del 1944 veniva poi costituito il “Ministero dell’Italia Occupata” che, oltre al coordinamento militare con gli Alleati e con il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI), aveva il compito di “predisporre il pieno ritorno alla vita civile e politica […] e la soluzione di tutti i problemi interessanti la ripresa della vita civile e la posizione dei patrioti”, tra cui le ricompense al valore e i provvedimenti per i “volontari della libertà”.

Ad inizio marzo del 1945 era istituito, sempre per decreto [2], l’“Alto Commissariato per i reduci”, posto anch’esso alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio. Questo provvedimento è particolarmente importante nella storia dell’Anpi, in quanto definiva la categoria dei “reduci” e coinvolgeva nella gestione delle problematiche assistenziali le varie associazioni di categoria esistenti e legalmente riconosciute, tra cui, esplicitamente menzionandola, la stessa Anpi, cui era riservato un posto nella ristretta giunta esecutiva, insieme ai rappresentanti delle altre associazioni di combattenti e reduci. La categoria dei “reduci” in base a tale decreto includeva i “militari dell’esercito” e i “patrioti”, dal momento in cui fosse cessata nei loro confronti la competenza dei Ministeri dell’Italia Occupata e della Guerra.

Il 5 aprile del 1945 – poco prima quindi della compiuta Liberazione del nord Italia – un nuovo Decreto [3] introdusse nella normativa alcune modifiche, per un’ulteriore razionalizzazione della complessa materia. Venivano in particolare definite le condizioni per il riconoscimento della qualifica di “patriota combattente” e “benemerito della lotta di liberazione”. I primi erano coloro che avevano partecipato ad azioni di combattimento o sabotaggio, in quanto componenti di “Bande” (il Certificato era firmato dal Comandante in Capo Alleato generale Alexander e controfirmato dal Capo della Banda e da un altro Comandante alleato).

Il cosiddetto “diploma Alexander”

La seconda categoria coincideva sostanzialmente con coloro che sono definiti “resistenti senz’armi”, ossia coloro che con proprio rischio personale avevano svolto rilevanti attività o collaborato con le brigate partigiane.

Per regolamentare le procedure di attribuzione delle suddette “qualifiche” e delle relative “ricompense”, la nuova normativa istituiva a Roma due apposite Commissioni. In entrambi questi organi era fissata per decreto una presenza maggioritaria di membri appartenenti all’Anpi, in riconoscimento della rilevanza numerica dei suoi iscritti, e dell’affidabilità ed esperienza combattentistica [4].

Ecco dunque che, in particolare con quest’ultimo provvedimento, l’Anpi a meno di un anno dalla sua costituzione, in coerenza e in attuazione degli scopi istitutivi enunciati nell’appello del settembre ’44 e poi nel suo Statuto organico, veniva ad assumere un ruolo diretto e attivo ai massimi vertici dell’amministrazione statale, per la rappresentanza della propria categoria.

Da notare comunque che in tutti questi primi interventi legislativi, le uniche qualifiche riconosciute e menzionate erano quella di “patriota” e quella di “reduce”, ma non ancora quella di “partigiano”, che fino a quel momento era un termine adottato solo nella denominazione associativa, ma non ancora fatto proprio dalla pratica legislativa in materia.

Il 5 aprile del 1945 furono emanati altri due importanti provvedimenti istitutivi di organi statali che coinvolgevano l’ANPI in importanti ruoli istituzionali e amministrativi. Veniva infatti sancita l’istituzione della “Consulta Nazionale”, organo in cui l’ANPI ebbe un propria significativa rappresentanza, ed era pubblicato il Decreto Luogotenziale n. 224, fondamentale atto nella storia dell’Associazione, che aveva ad oggetto l’ “Erezione ad Ente morale dell’ Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (A.N.P.I.) con sede in Roma e approvazione del relativo Statuto organico” [5].

La prima pagina del Decreto Luogotenziale n. 224

Con questa formulazione le legge italiana riconosceva nelle sue premesse sia l’esistenza precedente, in via di fatto, di un’Associazione di partigiani denominata A.N.P.I., che si era già dotata di uno Statuto, quello adottato nell’ottobre del ’44, che ne disciplinava l’organizzazione. Riconoscendo inoltre la rilevanza pubblica degli scopi da essa perseguiti, anche negli organismi amministrativi statali in cui già operava, ne autorizzava l’elevazione di rango (erezione) da associazione esistente solo in via di fatto ad “Ente morale”, ossia soggetto giuridico legalmente costituito, e contestualmente ne approvava lo Statuto organico .

Il conferimento di questa qualifica comportava sostanzialmente l’attribuzione all’Associazione della “personalità giuridica”, ossia lo Stato dichiarava di riconoscerne l’esistenza in quanto organizzazione di persone (associazione), e le consentiva di essere titolare di diritti reali su beni mobili e immobili e di costituirsi in giudizio per la tutela dei propri interessi. In tal modo l’Anpi, anche in conseguenza dei rilevanti incarichi amministrativi pubblici che abbiamo ricordato poc’anzi, veniva riconosciuta anche da un punto di vista giuridico come la principale (per numero di iscritti) e tra le più autorevoli associazioni di partigiani italiani.

L’attributo “morale” utilizzato nella legislazione italiana, storicamente costituiva il riconoscimento di un Ente in quanto portatore di valori etici riconoscibili e degni di tutela giuridica pubblica. Poi col tempo questo significato si era perso nell’uso giuridico e, già all’epoca del decreto, il termine “Ente morale” era utilizzato come sinonimo di organizzazione dotata di personalità giuridica. Tuttavia nel caso dell’Anpi, poiché il decreto in oggetto richiamava esplicitamente nelle premesse le motivazioni della sua costituzione “per alti fini patriottici e per l’assistenza a favore dei partigiani” e, si noti bene, “su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, Primo Ministro Segretario di Stato e Ministro per l’interno, di concerto con i Ministri per la guerra, per la marina, per l’aeronautica e per l’Italia occupata”, non è fuori luogo ritenere che in questo caso il termine “morale” mantenesse, almeno idealmente, la sua valenza etica anche nella formulazione della norma giuridica istitutiva.

Da https://www.thinglink.com/scene /641536299999690752

L’ANPI nel suo articolato e dettagliato Statuto si proponeva numerosi scopi.

Innanzitutto quello di riunire in un’unica associazione tutti coloro che avevano combattuto la guerra partigiana, per rinsaldare e sviluppare i vincoli unitari di cameratismo e di fratellanza sorti sui campi di battaglia. Quindi, attraverso questa unità d’intenti, adoperarsi in tempo di pace per favorire l’attuazione di un regime di “vera democrazia” e “impedire, per il futuro, il ritorno di qualsiasi forma di tirannia e assolutismo”. Per conseguire tale obiettivo, riteneva che i “partigiani”, avendone acquisito (sul campo) il diritto, dovessero “partecipare da protagonisti alla ricostruzione materiale e morale del Paese”. Una missione pensata per l’immediatezza del dopoguerra, ma che prefigurava in prospettiva anche una perenne azione a difesa della democrazia, idealmente estesa senza limiti temporali anche alle future generazioni. Tanto che nell’attuale Statuto vige ancora questa formulazione, ma con riferimento non più alla “ricostruzione”, bensì allo “sviluppo materiale e morale del Paese” [6].

Altro primario obiettivo da perseguire era quello di “valorizzare” in ambito nazionale e internazionale la guerra partigiana e il determinante contributo da essa apportato alla causa della Liberazione. Valorizzare significava comunicare e far comprendere i valori e la storia della lotta partigiana, difendendola dai tentativi di mistificazione che già s’immaginava si sarebbero potuti mettere in atto all’indomani della Liberazione. Significava anche perpetuare la memoria riconoscente per i suoi Caduti.

All’inizio di aprile del ’45 siamo ormai a poche settimane dalla Liberazione, ma l’Italia del nord era ancora in guerra, ed è necessario ricordare che il primo Statuto legale dell’Anpi, redatto originariamente nel 1944, manteneva ancora tra gli scopi associativi quello di “combattere a fianco delle armate regolari di liberazione (…) perché abbia termine l’occupazione tedesca”, “per il riscatto della Patria dal servaggio tedesco e per la riconquista della libertà”. Quest’enunciazioni d’intenti patriottiche, evidentemente figlie del momento storico, per quanto possa sembrare strano, saranno a lungo mantenute nel testo statutario, pur essendo state ben presto superate dagli eventi dei mesi successivi. Esse saranno eliminate soltanto nelle revisioni statutarie del 1970 e 1980. È’ pertanto interessante domandarsi il perché di tanto ritardo, quando invece l’attività dell’Anpi, come dimostra tutta la sua storia, è sempre stata molto aderente all’evoluzione dei tempi. Possiamo qui avanzare l’ipotesi che tali modifiche non furono apportate prima, in quanto – anche avendo riguardo ai contrastanti eventi politici che caratterizzarono la storia italiana e mondiale di quel periodo – è soltanto alla fine degli anni Settanta che si iniziò generalmente a considerare sufficientemente stabilizzato il quadro politico italiano e internazionale, e quindi sufficientemente remota la possibilità di dover nuovamente tornare a “difendere con le armi” la libertà così duramente conquistata.

Altri due scopi associativi rilevanti riguardavano obiettivi pratici e più immediati di assistenza ai partigiani che rientravano nella vita civile nell’Italia liberata: adoperarsi con “ogni forma di assistenza” e recare aiuti “morali e materiali” ai Soci e alle famiglie dei Caduti. Specificamente essi prevedevano di “promuovere la creazione dei centri ed organismi di produzione e di lavoro, che contribuiscano a lenir la disoccupazione”, il gravissimo problema sociale dell’immediato dopoguerra, diretta conseguenza delle devastazioni belliche dell’apparato produttivo e del patrimonio immobiliare.

Quanto alle condizioni per l’adesione all’Associazione, lo Statuto del ’45 ammetteva l’iscrizione all’Anpi, in qualità di Soci effettivi, solo dei “partigiani”, definiti come coloro che, essendo stati componenti di “bande”, avevano partecipato ad azioni di combattimento o sabotaggio. Ma erano riconosciuti come partigiani anche coloro che avevano compiuto “atti di eccezionale ardimento” nella lotta di liberazione (resistenti senz’armi). La domanda d’iscrizione doveva essere corredata dal “certificato rilasciato dalle autorità competenti”. Come abbiamo visto poc’anzi, tali autorità “competenti” erano costituite dai preposti uffici territoriali delle “Commissioni qualifiche”, partecipate dall’Anpi stessa.

Dunque con la decretazione autorizzativa del suo Statuto, l’Anpi introduceva formalmente nella legislazione italiana per la prima volta la tutela della qualifica di “partigiano”, che veniva affiancata a quella di “patriota” e riconosciuta rilevante ai fini delle procedure di certificazione già esistenti, di cui l’Associazione stessa era tra i principali garanti.

Gli altri aspetti di base della struttura organizzativa dell’Anpi – l’articolazione organizzativa territoriale, gli Organi direttivi dell’Associazione, le regole di funzionamento e deliberazione, i mezzi e le fonti di finanziamento dell’attività – si sono mantenuti sostanzialmente immutati fino ai nostri giorni.

Gli scopi statutari invece hanno seguito un virtuoso e lungimirante percorso di modifica – voluto e guidato dagli stessi partigiani fondatori – che ha garantito un tempestivo adattamento dell’Associazione alle mutanti circostanze della sua storia, e che a partire dal 2006 le ha permesso di affrontare con serenità e con successo il momento critico del rinnovamento e del ricambio generazionale e di avviarsi così verso la sua “nuova stagione”.

I Convitti Rinascita

Una delle iniziative più importanti per realizzare lo scopo del contrasto alla disoccupazione fu realizzata dall’Anpi a partire dal 1945 con la creazione di centri di formazione e avviamento al lavoro, chiamati “Convitti-Scuola Rinascita” (vedi http://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/servizi/dal-lager-ai-convitti-scuola-della-rinascita/).

Erano queste delle istituzioni sperimentali e innovative, che organizzavano corsi per il completamento degli studi e per il conseguimento di una qualifica professionale per i giovani ex partigiani e per gli orfani dei caduti, al fine di facilitarne il rapido inserimento nel mondo del lavoro. Nei Convitti insegnavano maestri e professori di ruolo, ed in essi si realizzarono forme molto avanzate e partecipative di insegnamento, con ampio coinvolgimento sia dei docenti che dei discenti nella condivisione di programmi e metodi, con discussione e approvazione delle proposte all’interno di organismi rappresentativi delle due categorie, attivando, ove possibile, una stretta relazione tra scuola e lavoro, teoria e pratica. Stiamo quindi parlando di primi esperimenti in Italia di “stage” lavorativi presso le aziende e dei primi esempi attuativi di organismi rappresentativi scolastici, che solo nella seconda metà negli anni ’70, e in forme più blande, saranno introdotti nella scuola superiore pubblica italiana. Il Presidente Boldrini, nel primo congresso Anpi del 1947 definirà i Convitti-Scuola “l’avanguardia organizzata che combatte per il rinnovamento della scuola italiana”. Il modello dei Convitti-Scuola partigiani, dopo pochi anni dal suo avvio e dopo essere stato attuato a Roma, Milano e in altri importanti capoluoghi del centro-nord, alla fine degli anni ’50, a causa dell’insostenibilità economica per il bilancio associativo, dovette purtroppo essere abbandonato e i Convitti furono chiusi.

Federico De Angelis svolge la propria attività professionale in un’azienda di telecomunicazioni, dove si occupa di marketing. Ha avuto un’esperienza d’insegnamento universitario come tutor di marketing.
Questo articolo – il secondo di una serie sulla storia dell’Anpi – si basa sul lavoro di ricerca svolto per la sua tesi di laurea in Storia Contemporanea, da cui è tratta anche la sua prima pubblicazione: “Per una storia dell’Anpi: ricordare il passato, capire il presente, costruire il futuro”, Vignate (Mi), Lampi di Stampa, 2016


Note:

[1]  D.Lgt n. 319 del 9/11/1944.

[2]  D. Lgt. n. 110 del 1/3/1945, art. 6.

[3]  D. Lgt. n. 158 del 5/4/1945.

[4] D. Lgt. n. 158 del 5/4/1945, artt. 6 e 8.

[5]  D.Lgt n. 224 del 5/4/1945.

[6]  ANPI, Statuto, Art. 2, lett. c), 2013.