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Il Covid-19 ha desertificato terreni e serre dai braccianti stagionali rimasti senza lavoro e da Nord a Sud della penisola tutte le culture sono a rischio. Come a rischio è la salute stessa dei lavoratori. «Le condizioni dei braccianti che oggi raccolgono i prodotti destinati alle nostre tavole sono spesso inaccettabili: le baraccopoli in cui sono costretti a vivere sono luoghi insalubri e indecenti, agli antipodi del valore stesso dei diritti umani.

Il rischio che il Covid arrivi in quegli aggregati tramutandoli in focolai della pandemia è motivo di fondata apprensione. Le richieste di restare a casa o lavarsi le mani, rivolte alla comunità nazionale da tutti gli organi istituzionali e d’informazione, per loro sembrano chimere. Sopravvivono in immense distese di catapecchie senza acqua né servizi igienici» denuncia la Flai Cgil in una lettera-appello destinata al presidente Sergio Mattarella, al premier Giuseppe Conte e ai ministri dell’Agricoltura, del Lavoro, dell’Interno, della Salute e del Sud.

San Ferdinando (Reggio Calabria) Tende arrangiate e lamiera sono “le case” dei braccianti immigrati (da https://www.avvenire.it/c/2019/ PublishingImages/2852a9f1467 e4 e379ba3530b4528724e/ FOTO_62930103.jpg?width=1024)

L’appello – siglato anche da numerose organizzazioni umanitarie, enti e privati cittadini – chiede agli organi istituzionali «un monitoraggio preventivo nonché di presa in carico degli eventuali casi di Covid-19, in ossequio al principio costituzionale della tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» e «una regolarizzazione per far emergere chi è costretto a vivere e lavorare in condizioni di irregolarità».

In Italia il 62% dei lavoratori stagionali dell’agricoltura, perlopiù migranti, non ha accesso ai servizi essenziali, il 64% di loro non ha la possibilità di utilizzare acqua corrente e il 72% presenta, dopo le attività di raccolta, malattie di cui prima non soffriva. Un mondo tutt’altro che marginale. Il settore agroalimentare italiano, con le sue 1.2 milioni di unità lavorative annue (Istat, 2017) e circa 1.6 milioni di imprese (Ice, 2017), costituisce un architrave del sistema industriale italiano.

Squadristi (da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/ it/9/94/1922_Squadra_d%27azione_di_Lucca.jpg)

E costituì un architrave anche della lotta di Liberazione, dove la componente agricola fu determinante. Perché la Resistenza non fu un fatto prettamente militare: i contadini combatterono la loro resistenza civile con aiuti clandestini, con le coperture logistiche nei confronti dei partigiani e con sotterfugi per contrastare le truppe tedesche che occuparono il Paese all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943 con gli anglo-americani. La loro fu una lotta di classe giacché in alcune regioni il fascismo aveva assunto tratti di dominazione padronale.

La Resistenza fu, pertanto, una scelta di libertà, un atto di disobbedienza radicale da parte di generazioni nate e cresciute sotto il regime che decisero di rompere con il sistema di valori della cultura fascista. Lo fu anche per le donne, condannate ad essere madri e spose esemplari nel rispetto delle gerarchie fuori e dentro le mura domestiche. Molte di loro combatteranno al fianco degli uomini in montagna, nei gruppi di azione patriottica (Gap) che operavano nelle città, o saranno staffette, rivendicando il diritto all’emancipazione e a disporre della loro sorte. Lottare contro i nazifascisti fu quindi il punto di partenza che porterà a un processo di democratizzazione di una società garante dei diritti civili e delle conquiste sociali. Gli stessi diritti che oggi rivendicano le persone che lavorano nei campi, perché non si tratta di sole braccia da lavoro, ma di dignità. E la nostra storia recente ce lo insegna.

«Avevo 13 anni quando scoppiò la seconda guerra mondiale. Rimasi da solo in un podere di 9 ettari. Mi levavo di notte per lavorare» racconta Pietro Pinti, mezzadro della Valdarno, la cui testimonianza è stata raccolta dal documentario “Toscana Mezzadra – Memoria di civiltà contadina”. «Mio fratello era con l’esercito in Jugoslavia, mio cugino in Grecia – continua Pinti –. Un altro mio cugino non volle partire per la guerra. Qui c’era la possibilità (con l’esonero) di lavorare in miniera dove si estraeva lignite invece di fare il militare. Potevi lavorare e stare a casa ad aiutare nei campi, ma la domanda la doveva fare il proprietario del podere. Il padrone disse “se tutti fanno l’esonero, la guerra chi la fa?”».

La famiglia Cervi al completo. Al centro seduti papà Alcide e mamma Genoeffa

La mezzadria era un contratto agrario molto diffuso nell’economia agricola del centro-nord (Toscana, Umbria, Marche ed Emilia Romagna) che prevedeva l’assegnazione di un podere al mezzadro – o colono – e della sua famiglia da parte di un proprietario terriero con cui divideva spese e prodotti. Le vessazioni, tuttavia, erano all’ordine del giorno e i patti contrattuali spesso non venivano rispettati dai padroni. Con l’arrivo del regime i contrasti di classe si esasperarono. Le lotte guidate dalle organizzazioni sindacali degli anni 1919-20 che rivendicarono e ottennero più potere contrattuale per i lavoratori della terra vennero sistematicamente accantonate dai proprietari terrieri, che sostennero sin dall’inizio l’ascesa del fascismo. Contro chi tentava di reagire intervenivano prima le squadracce fasciste, poi la legge ed il carcere. In pochi anni le organizzazioni sindacali vennero smembrate, i mezzadri assimilati nelle corporazioni fasciste dell’agricoltura e iscritti, nella maggioranza dei casi, coattivamente al fascio locale. Molti caddero in una sempre più intollerabile situazione debitoria, altri seguirono le migrazioni interne, programmate dal regime. Per completezza, va detto che questo istituto giuridico venne abolito nel 1964, ma scomparve definitivamente solo nel 1982, quando un’ulteriore legge dispose che a tutti i contratti agrari aventi per oggetto la concessione di fondi rustici sarebbe stata applicata la disciplina del contratto di affitto.

Fu indispensabile il sostegno dei contadini alla lotta di Liberazione (da http://4.bp.blogspot.com/-Gty4FCiJrp4/ VKP5zsFTpI/AAAAAAAAL5Q/ GmunlW5aQzw/s1600/ s%2Btrebbiatura.jpg)

Si creò dunque un binomio tra le ingiustizie subite dai contadini e le prepotenze del fascismo, tra la resistenza al padrone e quella all’occupante tedesco. «La scelta resistenziale si radica in questi contesti agricoli come ribellione contro i soprusi remoti e vicini. Il nesso tra necessità e libertà, sempre così difficile da cogliere, si presenta in questa scelta problematico e limpido allo stesso tempo» sosteneva lo storico Claudio Pavone (“Una guerra civile”, 1991).

«Quando un bracciante ridotto in schiavitù decide di parlare, di cambiare il suo presente e non farne il suo destino come vuole qualcuno, allora la storia cambia. E non solo la storia di quel singolo bracciante, invisibile agli occhi di tutti, ma la storia di tutti» scrive il sociologo Marco Omizzolo in “Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana” (Feltrinelli, 2019), un’inchiesta che si addentra in «quella rete criminale che si incontra perfettamente con la filiera del cibo, dalla produzione al trasporto». Un circuito economico stimato di oltre 200 miliardi di euro. L’indagine riporta lo sfruttamento dei braccianti sikh dell’agro pontino, nel Lazio, tra la fatica delle lunghissime giornate lavorative, attenuata dalle sostanze dopanti, divenute a loro volta ulteriore business delle mafie. E la violenza, i ricatti, i soprusi. Non è una questione di nazionalità, perché «non si tratta di lasciar affogare i migranti per vivere meglio. Le agromafie italiane sono il risultato del nostro imbarbarimento e di decenni di politiche neoliberiste. Chi oggi vuole dividere gli italiani dagli stranieri, elevando lo slogan “Prima gli italiani” al rango di legge costituzionale», non ha chiaro che «lo sfruttamento sistemico dei lavoratori e delle lavoratrici di qualsiasi nazionalità è l’espressione di un sistema dominante che ambisce a condizionare la democrazia».

«Chi sono allora i partigiani? Sono i figli dei contadini che a un certo momento trovano riparo nell’ospitalità, nei nascondigli e nei modi di mascherare la presenza di questi ragazzi nelle campagne. Allora il sistema era quello mezzadrile: le famiglie erano solitamente molto numerose e quindi vi erano anche i giovani che, in un qualche modo, dovevano proteggersi dalla cattura per non avere risposto alla chiamata alle armi. I figli dei padri che avevano subito tante ingiustizie dai padroni fascisti. Qui era un mondo contadino. L’unico riparo che avevamo era la partecipazione popolare» raccontava il partigiano Mario Bisi, consigliere dell’Istituto storico di Modena, scomparso nel 2016. Con l’occupazione nazista del territorio italiano, il re Vittorio Emanuele III e alcuni rappresentanti governativi fuggirono da Roma per trovare riparo nel Sud Italia dagli Alleati, lasciando l’Esercito Regio privo di direttive. Mussolini – destituito e arrestato dal re il 25 luglio 1943 – venne liberato dalle truppe del Reich e trasferito al Nord, dove diede vita alla Repubblica di Salò. Migliaia di soldati italiani furono disarmati e catturati dai tedeschi mentre altri non risposero ai bandi di chiamata alle armi della Repubblica sociale italiana, trovando rifugio nei poderi, nelle cascine, in attesa di unirsi alle formazioni partigiane.

La storia della Resistenza mezzadrile è legata soprattutto alla “battaglia del grano”, «ossia come difendere il raccolto. Se il grano fosse stato trebbiato come avveniva regolarmente, sarebbe stato preda certa dei tedeschi – racconta ancora Mario Bisi in “La libertà è uno stato d’animo” –. Ci fu un mascheramento che si ottenne attraverso il taglio del grano, però raccolto in covoni e non trebbiato. Quindi difficilmente trasportabile da parte dei tedeschi. I partigiani tolsero le cinghie di trasmissione in cuoio dalle macchine trebbiatrici. Le raccogliemmo e le occultammo in modo da rendere impossibile la trebbiatura con il mezzo meccanico. E come fare? Bisognava comunque trebbiarlo per utilizzarlo. La gente si inventò tutti i sistemi, utilizzando quello che aveva, come le ruote delle biciclette. La fantasia del contadino è un’inventiva che ci si potrebbe fare un vero e proprio racconto. La salvaguardia del grano e quindi della sopravvivenza delle famiglie mise nelle condizioni di far partecipare l’intera popolazione a questo processo di Resistenza. La nostra forza stava nella coesione».

Il grano fu anche al centro della propaganda fascista che il duce diede vita nel 1925. Fu la prima iniziativa di una serie di azioni di politica autarchica, che fece raggiungere al cereale prezzi molto superiori a quelli del mercato internazionale, con svantaggio immediato delle classi meno abbienti, costrette a comprimere i consumi. Del resto “se mangi troppo derubi la patria” era lo slogan di regime.

Al momento dell’armistizio, la situazione alimentare in Italia era già al collasso: sistema annonario inefficiente, blocco delle importazioni dai Paesi nemici, orti di guerra e prodotti autarchici insufficienti. Le truppe tedesche attinsero alle scorte di grano raccolte negli ammassi per trasferirle in Germania, e altri prodotti agricoli vennero requisiti nelle campagne, aggravando la generale condizione di povertà e denutrizione della popolazione. «Nel 1944, alla vigilia del nuovo raccolto, il Comitato di Liberazione Nazionale – l’organismo che coordinò i diversi partiti dell’antifascismo storico – agisce per impedire nuove requisizioni. Molti contadini appoggiano le disposizioni del Cnl, spesso accettando di proteggere e collaborare coi partigiani durante azioni di trebbiatura clandestina dei campi. In questo modo un’ingente quantità di grano riesce ad essere nascosta e destinata al fabbisogno di popolazioni e resistenti, ma non mancano casi in cui si decide di distruggere i cereali pur di sottrarli alle requisizioni» è scritto sul portale degli Istituti storici dell’Emilia Romagna, “terra di fame e di abbondanza”.

La popolazione pagò un prezzo altissimo. Il territorio del centro Italia fu uno dei più colpiti dal terrore nazifascista per quantità di stragi e numero di vittime, accusate di sostenere la Resistenza. Marzabotto, in Emilia Romagna, Sant’Anna di Stazzema, in Toscana, sono solo alcune delle numerosissime testimonianze. «Ci sono solo rastrelli e zappe lì intorno. A ripensare oggi quello che abbiamo fatto sto ancora male, non so nemmeno come ci sia riuscito. Con il rastrello prendo anche io quei corpi, o meglio quei pezzi di corpo, non ce ne sono più di interi. Li aggancio e li trascino fuori, sull’aia» raccontava Sergio Martini, ultimo testimone del massacro del 4 luglio 1944 di Meleto Valdarno, in provincia di Arezzo. Nella strage furono uccisi dai tedeschi 191 civili, tutti maschi, tra 14 e 85 anni. All’epoca Martini aveva appena 15 anni. Pochi giorni fa, se l’è portato via il Covid-19.

Il progetto nazifascista mirava a ridisegnare il volto dell’Europa, basandolo sul razzismo, la prevaricazione, la violenza e lo sfruttamento e a questo progetto le Resistenze nazionali si opposero mirando all’uguaglianza e al rispetto della persona, al dì là del suo credo, razza o estrazione sociale.

Un esempio di integrazione basato sul fattore empatia è stata la banda Mario, gruppo partigiano multietnico alle pendici del Monte San Vicino, nelle Marche, sotto la guida dell’ex prigioniero istriano Mario Depangher. Al suo interno si parlavano almeno otto lingue diverse. «C’erano italiani, soldati sbandati, preti e giovani contadini, jugoslavi provenienti da campi di internamento, fatti prigionieri durante la sanguinosa occupazione dell’esercito italiano nel loro Paese. C’erano i russi, fatti prigionieri dai tedeschi nella loro terra e portati in Italia a lavorare forzatamente per scavare trincee e costruire difese. C’erano ebrei scampati al rastrellamenti in Italia o fuggiti dalle località di internamento per salvarsi dalla deportazione in Germania. C’erano inglesi scampati e scappati dai campi di Sforzacosta che poi aiutati dai contadini avevano raggiunto il San Vicino. C’erano inoltre degli africani, somali, eritrei ed etiopi portati in Italia nel 1940 per essere messi in mostra come gli animali dello zoo e dopo l’8 settembre scappati dai luoghi in cui erano rinchiusi, indirizzati dalla popolazione contadina verso la banda Mario» scrive lo storico Matteo Petracci in “Partigiani d’Oltremare”.

In questi giorni sugli organi di informazione si è aperta la questione se da questo lockdown nasceranno nuovi impeti nazionalisti o nuove forme di convivenza e di giustizia sociale. Non c’è retorica. C’è un tessuto civile ed economico che rischia di essere spazzato dalle conseguenze del dopovirus. E c’è il senso di riscatto e di rinascita propri del 25 aprile.

Mariangela Di Marco