II 5 aprile 1939 non è un giorno qualsiasi: a Innsbruck s’incontrano i generali Wilhelm Keitel e Alberto Pariani.

Keitel è il capo (Chef) del Comando Supremo della Wehrmacht (Oberkommando der Wehrmacht o OKW), ma l’altisonante qualifica mal si addice all’ossequiente esecutore degli ordini di Hitler, che dal 4 febbraio 1938 si è posto alla testa della Wehrmacht. Pariani è il capo di Stato Maggiore dell’Esercito (Marina e Aeronautica hanno altri capi) e pertanto dipende dal maresciallo Badoglio, che è alla testa dello Stato Maggiore Generale, ma è anche sottosegretario alla Guerra (ministro è Mussolini), il che lo pone un gradino di sopra di Badoglio.

Nonostante la diversità delle funzioni, l’incontro Keitel-Pariani è di grande importanza. Ai due non sono consentite iniziative. Debbono stabilire il primo contatto tra i «tecnici» militari dell’Asse, in previsione di una alleanza tra Italia e Germania. Una strana alleanza, che dovrebbe trasformare l’intesa politica costituita dall’Asse Roma-Berlino in un impegno preciso con relativi oneri per i due Paesi, anche se Hitler non ha nessuna stima per le nostre forze armate e se Mussolini vive nel timore che il Reich intenda incorporare l’Alto Adige ed estendere la sua influenza sui Balcani, che il duce considera propria riserva di caccia. Chi deve concludere l’affare, sa quali vantaggi e svantaggi esso comporta; ma il 5 aprile 1939 Hitler vuole l’alleanza a ogni costo. Non solo perché gli dà la certezza che quando deciderà di dare fuoco alle polveri, l’Italia non salterà il fosso come nel 1915, ma anche perché i suoi piani – segreti, naturalmente – prevedono la copertura del fianco meridionale della Germania e un’Italia che possa rappresentare una minaccia per la Francia, sì da bloccare parte dell’esercito francese sulle Alpi e in Africa. Mussolini non ha piani segreti che richiedano coperture o immobilizzi di truppe straniere. Ha piuttosto dei problemi politici interni da risolvere. Sa che l’Asse è impopolare e un’alleanza con la Germania lo sarebbe ancora di più, ma nonostante i suoi sfoghi antitedeschi è conscio di non potersi distaccare da Hitler.

Si è giocato l’amicizia con la Francia e la simpatia della Gran Bretagna; solo la Germania dimostra di apprezzarlo (e Mussolini nella sua stupida vanità non si accorge che gli elogi sono a comando per intrappolarlo sempre di più), quindi non può negarsi a una alleanza militare, anche perché Hitler gli ha fatto sapere che la guerra contro le democrazie, se ci sarà, scoppierà tra «pochi anni, forse 3 o 4». Però l’immancabile vittoria farà del Mediterraneo un mare tutto italiano.

L’incontro Keitel-Pariani del 5 aprile doveva avvenire prima. Era stato rinviato in seguito a un fatto che aveva irritato oltremodo Mussolini: il 15 marzo i tedeschi avevano occupato quanto era rimasto della Cecoslovacchia dopo il Patto di Monaco.

Alberto Pariani (da https://it.wikipedia.org/ wiki/Alberto_Pariani#/media/ File:Pariani_Alberto.jpg)

«Quando Hitler prende uno Stato mi manda un messaggio»

Quel colpo di mano di Hitler Mussolini l’aveva sentito sulla propria guancia. Era stato davvero uno schiaffo. Non solo Hitler aveva mandato per aria il castello costruito e garantito dal duce, ma non s’era neppure preoccupato di preavvisarlo di ciò che stava macchinando. Mussolini, come ogni altro uomo di governo, s’era trovato di fonte al fatto compiuto. Però gli venne riservato un trattamento speciale, lo stesso usatogli ai tempi dell’Anschluss: la notizia dell’occupazione della Boemia e Moravia, anziché leggerla sui giornali se la sentì raccontare dal solito messaggero privato di Hitler, il principe d’Assia. Non era la prima volta che accadeva, non doveva essere l’ultima.

Comunque, allora s’arrabbio e non volle che la stampa riportasse la notizia della visita di Filippo d’Assia, perché «gli italiani riderebbero di me, ogni volta che Hitler prende uno Stato mi manda un messaggio» (Ciano, Diario).

In realtà, aveva ben altre ragioni di temere il ridicolo. Il 15 settembre 1938 aveva scritto sul «Popolo d’Italia» un articolo di fondo dal titolo «Lettera a Runciman» che conteneva un periodo divenuto (erano i tempi della crisi cecoslovacca) punto di riferimento per chi voleva capire le richieste tedesche.

«Se Hitler pretendesse di annettersi tre milioni e mezzo di Cechi, l’Europa avrebbe ragione di commuoversi e muoversi. Ma Hitler non pensa ciò. Chi scrive questa lettera è in grado di dire – confidenzialmente – che qualora gli venissero offerti tre milioni e mezzo di Cechi, Hitler declinerebbe garbatamente, ma risolutamente, tanto regalo».

Mai Mussolini s’era sbilanciato tanto e mai era stato smentito dai fatti altrettanto clamorosamente. L’Europa, se si commosse, non si mosse; ma Chamberlain e Daladier misero bruscamente fine alla politica dell’appeasement.

Il nuovo corso anglo-francese era da prendersi sul serio? Dove avrebbe portato la politica hitleriana, che – già si era capito – ora premeva sulla Polonia, perché cedesse Danzica e consentisse alla Prussia, isolata dal Reich, di collegarsi alla madrepatria?

II 21 marzo Mussolini dovette affrontare al Gran Consiglio del fascismo la questione cecoslovacca, che metteva in discussione la politica filotedesca del governo fascista. Era morale appoggiare chi violava un patto la cui paternità andava attribuita al capo del fascismo?

Per Mussolini non esistevano problemi morali, e quindi il colpo di mano hitleriano non poteva essere motivo di «un giro di valzer». E siccome c’era al Gran Consiglio chi ricordava la «confidenza» relativa ai tre milioni e mezzo di Cechi che Hitler aveva inglobato nel Reich, il duce se la cava dicendo che un giorno i nazisti avrebbero riconosciuto di avere commesso un errore a compiere quell’atto.

Natale 1941 al campo d’aviazione militare di Scutari (da https://it.wikipedia.org/wiki/ Occupazione_italiana_dell%27Albania_ (1939-1943)#/media/File:I_regali_natalizi_dell% 27aviazione,_Scutari,_Albania,_1941.jpg)

La difesa d’ufficio compiuta da Mussolini fu, per Ciano, una manifestazione d’«intransigente fedeltà all’Asse». Bottai, invece, la trovò piena di contraddizioni. Balbo, dal canto suo, disse, non si sa bene rivolto a chi: «lustrate le scarpe alla Germania», al che Ciano reagì «con grande violenza documentando la costante fierezza della politica mussoliniana». Dopo qualche mese doveva accorgersi di quanto Balbo fosse stato nel vero a parlare di lustrascarpe, ma ormai i giochi erano fatti e al ministro degli Esteri non restava che recitare il mea culpa.

«La Germania prende Praga? E io occupo l’Albania»

Due giorni dopo, Hitler metteva piede a Memel, porto tedesco ceduto alla Lituania, e ne proclamava il ritorno al Reich.

II 31 marzo altro colpo di scena, ma questa volta non di marca tedesca. Ribbentrop aveva protestato coi polacchi perché non intendevano accordarsi col Reich per risolvere il problema di Danzica e aveva invitato il colonnello Beck, ministro degli Esteri della Polonia a Berlino per discutere con lui la questione. Beck era invece corso a Londra e il 31 marzo, appunto, Chamberlain annunciò che Gran Bretagna e Francia garantivano l’indipendenza della Polonia e avrebbero fornito al governo polacco, se avesse resistito con le armi agli aggressori, «tutto l’appoggio possibile».

Ma tra l’invasione di Praga e la garanzia alla Polonia, qualcosa era maturato in Italia. Ciano, che da tempo teneva gli occhi sull’Albania, ritenne che bisognava sollevare il morale degli italiani – depresso dai colpi di mano tedeschi – con un «compenso», ossia con l’occupazione di quello Stato.

Mussolini era favorevole all’impresa sino a un certo punto. Si rendeva conto che era ridicolo pensare di controbilanciare con l’Albania «l’incorporazione nel Reich di uno dei territori più ricchi del mondo», ma Ciano fu convincente e il 29 marzo, in un momento di particolare euforia (Madrid era appena caduta e ancora non si sapeva che Francia e Gran Bretagna stavano cambiando registro), il duce approvò la conquista dell’Albania. La corona di re Zog doveva passare sulla testa di Vittorio Emanuele III come dono di Pasqua.

II blitz, coordinato dal generale Pariani, sarebbe avvenuto il 7 aprile, venerdì santo. Naturalmente, sino ad allora acqua in bocca (si fa per dire) per tutti. E fu tanta l’acqua che la bocca dovette sputarla, sicché ben presto si seppe che cosa sarebbe accaduto. Un appunto dell’OVRA dell’8 aprile preciserà: «Lo sbarco delle nostre truppe in Albania non ha sorpreso l’opinione pubblica, la quale, a mezzo dei richiamati destinati a far parte delle unità di sbarco, avevano informato i familiari e questi gli amici e via dicendo…».

Non stupisce, quindi, sapere che un battaglione del 6° Bersaglieri di Bologna, mobilitato per l’Albania, partì cantando «Vogliamo la pace non la guerra» (Ciano, Diario).

Quando Pariani partì per Innsbruck il 4 aprile tutti sapevano dell’Albania, anche i tedeschi, ma quando egli incontro Keitel dell’Albania nessuno parlò: il tedesco doveva fingere di ignorare e l’italiano non era ufficialmente autorizzato a divulgare la notizia. Ma anche il tedesco aveva un suo segreto da custodire.

Non appena Hitler aveva saputo della garanzia della Gran Bretagna e della Francia alla Polonia, si era affrettato a ordinare all’OKW un piano che mirasse a «distruggere la potenza militare polacca». II piano, denominato Fall Weiss (Caso Bianco), doveva essere messo a punto entro il 1° maggio 1939 e divenire esecutivo in qualsiasi momento a partire dal 1° settembre successivo. Keitel aveva dato queste istruzioni ai comandanti delle tre armi il 3 marzo e quindi era anche lui partito alla volta di Innsbruck.

I colloqui tra i due uomini non ebbero altro merito che d’impasticciare una situazione già di per se stessa ingarbugliata, ma questo non già per i problemi che avevano per la testa o perché sentivano di avere la guerra alle spalle. Dopo tutto, Pariani non poteva prevedere dove avrebbe portato l’impresa albanese che stava per iniziare; né Keitel, dal canto suo, era in grado d’immaginare gli sviluppi della guerra che doveva essere in grado di scatenare tra cinque mesi. Ma non è per quello che i due generali si portano dentro che nasce il pasticcio, ma per quello che si dicono e per quello che si tacciono che l’incontro di Innsbruck ha un’influenza nefasta sulle scelte definitive di Mussolini e, di conseguenza, sulla vita del nostro Paese.

II generale «Scòpo e scopa» e il «generale lacchè»

Ma vediamo, anzitutto, chi sono i protagonisti dell’incontro. Il generale Pariani è l’individuo capace di avallare senza battere ciglio tutte le decisioni dei boss, quale che sia la loro portata. Conosce bene le condizioni disastrose dell’Esercito, ma nel ’38 dice a Ciano che l’Italia può muovere guerra a Francia e Gran Bretagna l’anno successivo e batterle nel giro di poche settimane. E insieme concordano un piano bellico che vale la pena di segnalare: un’armata doveva invadere la Svizzera e attraverso quel Paese dilagare in Francia e raggiungere Parigi, mentre altre truppe sarebbero sbarcate di sorpresa a Porto Said e a Suez, mettendo in ginocchio la Gran Bretagna: è un’idea favolosa, e Ciano, che si sente stratega di prima grandezza, ordina a Pariani di preparare il piano che consenta all’Italia di annientare contemporaneamente Svizzera, Francia e Gran Bretagna.

Un generale di tale statura merita una noticina di colore. Nel suo ufficio, dietro la scrivania, tiene una mattonella di ceramica dipinta da lui, che rappresenta una scopa sormontata dal motto «Scòpo e scopa», chi la nota non può non strabuzzare gli occhi, ma il generale è pronto a spiegare motto e disegno: quando si conosce lo scopo che s’intende perseguire, su di esso bisogna puntare con la massima determinazione, usando la scopa per togliere di mezzo ogni ostacolo.

Il generale Keitel non ha motti o scope da esibire, ma sa pronunciare alla perfezione «Jawohl, Mein Führer» e sottolineare la frase con una battuta di tacchi precisa, secca e inimitabile. Anche a Norimberga replicherà le battute di tacchi nel mettersi sull’attenti ogni volta che i giudici gli rivolgeranno la parola.

Particolare non trascurabile: nell’esercito tedesco, impermeabile a qualsiasi nota satirica, il generale Keitel è chiamato General Lakeitel, giocando sul significato della parola Lakeit, che in tedesco significa lacchè; insomma «generale lacchè». Lacchè di Hitler, naturalmente.

Questi i personaggi che debbono cercare di stabilire un’intesa militare tra Germania e Italia, vagliare le forze proprie e avversarie in campo, vedere quali possono essere le possibilità operative, le combinazioni su cui fondare la cooperazione delle forze armate dei due Paesi e l’impiego migliore dei mezzi a disposizione.

Nasce il Patto degli inganni

II convegno non porta a niente del genere. Keitel, che ha appena siglato Fall Weiss, afferma che si dovrà affrontare «la guerra fra qualche anno (3-4), ossia quando l’Italia e la Germania avranno raggiunto un adeguato grado di apprestamento». In ogni caso «l’uno avrebbe marciato a fianco dell’altro qualunque cosa potesse accadere». Era miele per Pariani sentirsi dire che la Germania sarebbe stata a fianco dell’Italia in qualunque caso, e a sua volta assicurò il tedesco che l’Asse era «la cosa più indistruttibile» esistente al mondo.

Forse Pariani aggiunse anche qualcosa d’altro, perché Keitel tornò a Berlino convinto che l’Italia stava per attaccare la Francia. Bisognava perciò evitare un colpo di testa del duce e trattenerlo sino al momento di Fall Weiss. La tanto desiderata alleanza sarebbe servita allo scopo.

Anche Mussolini, ascoltando Pariani, si decise per l’alleanza. Aveva preso per buone le dichiarazioni di Keitel sui 3-4 anni di pace e ormai, dopo l’occupazione dell’Albania che aveva suscitato reazioni in tutto il mondo, non gli restava che aggrapparsi alla Germania se non voleva rimanere isolato come un appestato e se intendeva continuare a premere sulla Francia per essere coerente con le sue note rivendicazioni territoriali.

Per di più, un’alleanza con la Germania poteva anche consentirgli di frenare Hitler, che riteneva controllabile solo con un patto che prevedesse consultazioni obbligatorie per ogni azione che avesse ripercussioni internazionali. Di conseguenza, quando Berlino propose un patto di alleanza, si concordò che Ribbentrop e Ciano si sarebbero incontrati per discuterne le clausole ed entrambi si sarebbero presentati all’incontro con un proprio schema di trattato. Ciano non si fece preparare dai suoi specialisti nessuna bozza di patto, ma portò con sé un appunto di Mussolini compilato il 4 maggio, cioè due giorni prima dell’incontro, nel quale era detto che «le due potenze dell’Asse hanno bisogno di un periodo di pace di durata non inferiore ai tre anni. È solo dal 1943 in poi che uno sforzo bellico può avere le più grandi prospettive di vittoria».

II periodo di pace occorreva a Mussolini per una serie di motivi che elencò puntigliosamente e con grande ottimismo, specie nei riferimenti alla normalizzazione dell’Etiopia (in aperta rivolta), al rinnovo di tutte le artiglierie di medio e grosso calibro, al trasferimento di industrie nell’Italia meridionale e alla realizzazione dell’esposizione universale del 1942.

Ciano trovò a Milano un Ribbentrop pieno di comprensione. Polonia? Siamo sulla via della conciliazione. Guerra? Ma la Germania ha bisogno di 4 o 5 anni di pace per preparare l’esercito e costruire le navi da guerra che le mancano. Alleanza militare? Vi farò avere uno schema di trattato (e l’aveva in tasca) e sarà un patto che specchierà le nostre e le vostre esigenze. Per soprammercato ci fu posto, nel colloquio, anche per l’Alto Adige, e Ribbentrop assicurò Ciano che Berlino non solo si disinteressava completamente di quella regione, ma che avrebbe indotto i 10.000 allogeni colà residenti a trasferirsi in Germania.

Ulrich Friedrich Wilhelm Joachim von Ribbentrop nel 1938 (da https://en.wikipedia.org/wiki/ Joachim_von_Ribbentrop# /media/File:Bundesarchiv _Bild_183-H04810,_ Joachim _von_Ribbentrop.jpg)

II Patto d’Acciaio. Come Ribbentrop raggirò Ciano

Ciano abboccò. Vide in Ribbentrop l’«alfiere di una politica di moderazione e d’intesa» e si affrettò a telefonare al suocero i risultati del colloquio: non solo la Germania comprendeva i problemi del regime e garantiva un lungo periodo di pace (almeno 4-5 anni), ma confermava il suo disinteresse per l’Alto Adige e per un’eventuale annessione della Croazia all’Italia. Mussolini, forse contagiato dall’euforia di Ciano, forse deciso a dimostrare a Francia e Gran Bretagna che il fascismo non scherzava, ma faceva sul serio, diede ordine a Ciano di chiedere ai tedeschi l’immediata stipula del patto di alleanza. Ciano riferì la volontà del duce a Ribbentrop e questi, che non si aspettava tanto, telefonò a sua volta a Hitler, il quale approvò. L’indomani, 7 maggio, Ciano e Ribbentrop annunciarono dal balcone di Palazzo Marino la nascita del Patto d’Acciaio (il nome fu coniato da Mussolini), poi il tedesco tornò a Berlino per compilare – così aveva voluto Ciano – il testo del Patto. La prassi e la logica prevedono che qualsiasi trattato sia preparato da una commissione composta di esperti dei Paesi interessati, ma l’incauto Ciano lasciò il compito ai soli tedeschi e Ribbentrop approfittò dell’occasione per redigere un testo che favoriva la Germania o, meglio, gli interessi del nazismo. Nella stesura del Patto d’Acciaio Ribbentrop non solo omise la consueta clausola della non provocazione – comune a tutti i trattati di alleanza – secondo la quale l’intervento militare a favore dell’alleato è subordinato al fatto che egli sia aggredito e non sia colpevole di provocazione, ma fu inclusa la disposizione che se uno dei contraenti si fosse trovato impegnato in una guerra, l’alleato si sarebbe posto «immediatamente» al suo fianco. Non figurava, invece, il punto che Mussolini aveva posto come premessa all’ipotesi di un trattato di alleanza, e cioè che le parti si impegnavano a mantenere la pace per almeno tre anni.

La malafede dei nazisti

Quando il testo formulato da Ribbentrop giunse nelle mani di Ciano, questi scrisse sul suo diario: «Non ho mai letto un patto simile: è vera e propria dinamite». Ma si guardò bene di chiedere le modifiche che la ragione e il patriottismo, che tante volte aveva invocato, esigevano.

Il 22 maggio Ciano si recò a Berlino per siglare, in pompa magna, il «patto-dinamite». I tedeschi avevano previsto che la cerimonia avvenisse il 24, anniversario della dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria-Ungheria, giorno quindi non consono – per ciò che evocava – alla conclusione di una alleanza tra italiani e tedeschi. Qualcuno a Roma ricordò la coincidenza delle date e si ottenne di anticipare l’avvenimento di due giorni.

Durante la cerimonia, che si svolse nel palazzo della Cancelleria del Reich alla presenza di Hitler e decine di gerarchi nazisti, ufficiali della Wehrmacht e fascisti in alta uniforme, Ribbentrop disse solennemente a Ciano che la Germania era fermamente decisa a conservare la pace per almeno tre anni. A Milano gli aveva parlato di 4 o 5 anni, ma il superficiale ministro degli Esteri non si accorse della riduzione, che avrebbe dovuto allarmarlo tanto più che il Patto d’Acciaio taceva il periodo di pace che Mussolini richiedeva e riteneva indispensabile per la sua politica. Non solo Ciano non capì quanto c’era di subdolo nel discorso di Ribbentrop, ma prese sul serio anche le espressioni di simpatia di Himmler a proposito del nuovo Pontefice Pio XII (Papa Pacelli).

Il giorno dopo la cerimonia, il 23 maggio, quando Ciano ancora ospite dei nazisti si pavoneggiava per Berlino, Hitler convocò nel suo studio alla Cancelleria i massimi esponenti militari del Reich: i generali Keitel e Warlimont per l’OKW; von Brauchitsch e Halder per l’Esercito; Göring, Milch, Bodenschatz e Jeschonnek per l’Aeronautica; Raeder e Schniewind per la Marina. Ad essi parlò a lungo e senza infingimenti, motivando le ragioni che lo inducevano ad attaccare la Polonia «alla prima occasione propizia». Ma con la Polonia non si sarebbe ripetuto ciò che era accaduto con la Cecoslovacchia: ci sarebbe stata la guerra. Una guerra che probabilmente avrebbe coinvolto Francia, Gran Bretagna, Belgio e Olanda, e che i tedeschi avrebbero affrontato secondo un piano strategico preciso: lo stesso attuato nella primavera del ’40. E l’Italia che ruolo avrebbe avuto in tutto ciò? Secondo il fedele verbale di quella riunione, Hitler nominò l’Italia una sola volta, quando raccomandò ai suoi uomini di fiducia di non metterla al corrente del piano da lui esposto. Il Patto d’Acciaio cominciava così il suo viaggio nella storia.

La seconda tappa del Patto può essere il memoriale che Mussolini indirizzò il 26 o 27 maggio a Hitler, affidandolo per il recapito al generale Cavallero. Questi si recava a Berlino per definire la composizione e i compiti della commissione militare italo-tedesca, che avrebbe dovuto rendere esecutivi gli accordi contenuti nel Patto d’Acciaio. Detto tra parentesi, Cavallero, ricevuto con tutti gli onori, tornò a Roma senza aver combinato niente e niente poté combinare in seguito. La commissione mista non fu mai costituita e nessuno dei problemi militari, che il Patto aveva creato, poté essere affrontato o semplicemente discusso.

Al memoriale di Mussolini Hitler non diede risposta, ma attraverso il nostro ambasciatore Attolico fece sapere verbalmente che «egli era in generale pienamente d’accordo con le considerazioni» del duce, lasciando intendere che sarebbe stato opportuno un incontro a due per discutere alcuni punti del documento. Era una proposta vaga, che fu lasciata cadere tanto a Roma quanto a Berlino, benché Attolico, che da tempo sentiva odore di bruciato, cercasse ripetutamente di fare incontrare Hitler e Mussolini, nella speranza che quest’ultimo riuscisse a ridurre la pericolosità del Patto d’Acciaio.

Tuttavia, la risposta indiretta di Hitler, per quanto incongrua fosse, bastò per convincere vieppiù Mussolini che la guerra non solo sarebbe scoppiata quando lui desiderava, come aveva scritto nel memoriale (che sviluppava i temi dell’appunto che era servito per l’incontro milanese di Ciano con Ribbentrop), ma anche avrebbe avuto per teatro «il bacino danubiano e balcanico» come aveva suggerito a Hitler «ai fini dei rifornimenti bellici, alimentari e industriali» dell’Asse.

Questo piano stravagante, che aveva come premessa l’inevitabilità della guerra con le «nazioni plutocratiche», ma finiva col coinvolgere nazioni tutt’altro che plutocratiche, dovette suscitare l’ilarità di Hitler. Oltretutto, Mussolini proponeva un’operazione fifty-fifty degna d’altri tempi: l’Italia avrebbe contribuito alla conquista del «bacino danubiano e balcanico» con gli uomini e la Germania coi mezzi.

Felice di avere risolto tanto brillantemente i problemi della guerra tra nazioni plutocratiche e nazioni povere, e nella presunzione che essa sarebbe avvenuta fra tre anni (e invece scoppio dopo tre mesi), Mussolini tornò al «gioco» che in quel momento più l’appassionava: la costruzione dei monumentali edifici per l’esposizione universale del ’42. Anche il giovane Ciano aveva il suo «giochino»: trasformare l’Albania in un Granducato di Toscana dove lui e i suoi amici avrebbero fatto il bello e il cattivo tempo.

Fu così che i due non sentirono (o non vollero sentire) i segnali che giungevano da Berlino e riecheggiavano sinistramente per le varie capitali europee, allarmando o facendo esultare gli statisti che erano avversari o favorevoli all’Asse. La questione di Danzica «montava» giorno dopo giorno e correvano voci che i tedeschi fossero in gara con gli anglo-francesi (scesi in pista senza alcun entusiasmo e poco intenzionati a vincere la corsa) per avere l’URSS dalla propria parte, come alleata o spettatrice dello spettacolo che stava per cominciare.

Era, l’accordo con Mosca, l’ultima occasione che le democrazie avevano per salvare la pace, ma occorreva fare sul serio e sbrigarsi. Fecero esattamente il contrario, senza preoccuparsi che Hitler andava ammassando i suoi Panzer ai confini polacchi, mentre i colonnelli polacchi che li dovevano affrontare affilavano le loro sciabole, convinti com’erano di fare con quelle a pezzi i Panzer tedeschi e di aprirsi così la strada di Berlino. Per questo poco si interessavano a ciò che avrebbero dovuto fare per loro Chamberlain e Daladier e sdegnati respingevano l’idea che l’odiata Unione Sovietica mandasse anche un solo soldato in Polonia a combattere contro i nazisti.

Anche a Roma, come a Varsavia, gli arrotini erano al lavoro: là affilavano sciabole, qui aguzzavano baionette; otto milioni ce ne dovevano essere, ma nessuno le contò mai. Comunque, se ce n’erano tante, ce ne erano 6milioni e 800 mila di troppo, perché avevamo solo 1 milione e 200 mila fucili su cui innestarle: fucili gloriosi sinché si vuole, ma antiquati come le sciabole polacche.

E presto i fatti, purtroppo, l’avrebbero dimostrato.

(da Patria Indipendente n. 5/6 dell’aprile 1989)