“Non c’è ombra nella vita di chi ha la luce di un ideale”. È un bellissimo aforisma di Ferruccio Parri che descrive efficacemente Pierre Carniti. Ed oggi che non c’è più diventa una lezione di vita sulla quale chiamare le giovani generazioni a riflettere.
L’ho conosciuto negli anni Sessanta. Ero diventato segretario nazionale dei metalmeccanici nell’aprile del 1964, come responsabile della politica organizzativa. Allora la Fim di Milano esprimeva una egemonia culturale legata direttamente all’esperienza operaia, alla realtà di fabbrica. Un’egemonia che non era e non voleva essere subalterna ad alcun interesse di partito. Non temeva l’unità sindacale. Non aveva complessi di inferiorità nei confronti della Fiom, della Cgil, del Pci.
A Milano Pierre Carniti aveva fondato e dirigeva una rivista, Dibattito Sindacale, alla quale collaboravano stabilmente Tiziano Treu, Bruno Manghi, Gian Primo Cella e Giancarlo Lizzeri; saltuariamente comparivano Romano Prodi, Giorgio Galli, Gino Giugni, Franco Momigliano, Federico Mancini e Guido Baglioni.
“Carniti – ha scritto Walter Tobagi – è l’autodidatta classico, una personalità fortissima. A Firenze – alla scuola Cisl – si fa un piano di studi solitario, legge come un disperato quel che lo interessa, economia e storia, sindacalismo e sociologia. Alcune idee forza lo conquistano; il conflitto sociale è la molla del progresso economico, in una società industriale dinamica; l’impegno sociale deve porre al centro le esigenze fondamentali della persona umana, la sua uguaglianza; la politica degli investimenti aiuta a superare il collo stretto del pauperismo e vincere la crisi”.
La ripresa del disegno unitario e una nuova e giovane classe lavoratrice divennero una spinta potente per una stagione di lotte e di conquiste di grande valore. Con Pierre Carniti, con Bruno Trentin e con me si realizzò un sodalizio: costituimmo la Flm che ha rappresentato negli anni 70 l’unico esempio di unità sindacale organica dopo l’esperienza della Cgil unitaria del 1944/1948.
Trentin, Benvenuto e Carniti divennero quasi uno slogan sul quale con ironia Felice Mortillaro si esercitò definendoci la “TBC” dell’industria metalmeccanica.
Nel mondo del lavoro la protesta e l’insoddisfazione operaia era profonda ed estesa. Venne travolto il vecchio modo di essere e fare sindacato. La spinta operaia fu inarrestabile. I giovani e le donne, prevalentemente meridionali, volevano cambiare la società nella quale vivevano e nella quale avevano vissuto i loro genitori. Carniti colse in pieno quella novità ed il suo impegno fu prezioso perché influì sullo stesso modo di intendere il sindacato che non poteva non recepire il valore dell’unità che non era solo un modo di essere delle sigle confederali, ma – prima ancora – era presente e forte tra i lavoratori delle diverse qualifiche, dei diversi territori, delle diverse categorie produttive.
La spinta al cambiamento si determinò con la contestazione delle vecchie procedure e dei vecchi metodi di direzione e di lotta. Le lotte operaie del 1969 furono tutt’altro che un evento strettamente sindacale. Furono un fatto politico dirompente. Il loro significato travalicò ogni aspetto meramente contrattuale. I sindacati seppero cogliere queste caratteristiche, rinnovandosi. Questo processo e le conquiste che ne derivarono si devono anche alla generosità ed al carisma di Pierre.
Un uomo tenace, pragmatico, ma sempre con dei valori di riferimento, generoso e di una ammirevole semplicità di vita che ricordava le tradizioni delle sue terre di origine.
Pierre aveva un grande ascendente tra i tanti ragazzi di quegli anni che vedevano nel sindacato una forza di trasformazione politica del Paese, al di là e al di sopra dei partiti. Carniti aveva trasformato la Cisl una volta raggiunta la Segreteria Generale, andando oltre il vecchio sindacato di chiara e stretta osservanza democristiana, in un’agile incrociatore che solcava i mari evitando abilmente gli scogli del conformismo e dell’ortodossia che induceva soprattutto la sinistra comunista a sentirsi depositaria di una verità assoluta, dogmatica, di contenuto diverso ma di portata analoga a quella degli integralismi religiosi (cattolici compresi). Esercitava un grande fascino. Forse anche per una certa capacità affabulatoria, per quella robustezza culturale costruita con la passione di chi vuol conoscere e non con il fastidio di chi si sente obbligato a conoscere. Una volta in una intervista a Miriam Mafai se ne uscì con una battuta: “Dicono che sono un po’ matto? Questo forse è vero. Ma chi di noi non lo è, un po’?” Una follia fatta di tattica ma anche di granitica coerenza. Dal sindacato Carniti si staccò rivendicando l’idea che aveva ispirato la sua azione da segretario: “Abbiamo considerato le diversità come una ricchezza, anziché un ostacolo, avendo lasciato indietro l’illusione che qualcuno o qualche ideologia possano monopolizzare la rappresentanza del lavoro”. C’è in questa affermazione la convinzione che la difesa gelosa dell’autonomia sindacale fosse una scelta non mediabile. Carniti ha attraversato con questa stella polare fasi diverse, sconfitte e vittorie. Anche negli anni 80, dominati dallo scontro sulla scala mobile, non fece sconti.
Cercare oggi una lettura capziosa nelle scelte di Carniti in occasione di San Valentino è una operazione di dubbia onestà intellettuale perché, al di là degli aspetti tattici o degli irrigidimenti dovuti a situazioni contingenti, la scelta fu conseguente alla sua idea di sindacato. Diceva in un dibattito pubblicato su Repubblica il 9 marzo del 1984: “L’unità è andata in crisi tutte le volte che il sindacato ha manifestato in concreto la sua volontà di essere attivo soggetto politico. Questo soprattutto il Pci non lo tollera… Per un sindacato progressista e riformatore non esistono garanti, neppure a sinistra. Dentro il sindacato sono anche le ragioni della debolezza dell’unità. Nella sua incapacità a fare politica in proprio. È il sindacato invece che deve essere in prima persona forza di sinistra, progressista per natura e vocazione. Semmai la crisi del sindacato aggrava la conflittualità a sinistra… È il sindacato che deve fare autonomamente politica, altrimenti è subalterno o corporativo”.
Questo suo pensiero spiega come Carniti sia stato troppo spesso etichettato ma inutilmente. Non era classificabile secondo gli schemi politici del tempo perché anche quando scelse le alleanze che credeva necessarie – vedi la sintonia con Craxi a San Valentino e nel referendum – non rinunciò mai alla libertà delle sue idee. E soprattutto fu instancabile nel ragionare sul tema centrale del lavoro.
In un saggio recentissimo e inedito, Pierre Carniti ha scritto: “I fattori di insicurezza che derivano e si riflettono sulla situazione del lavoro sono molteplici. Non ultimo pesa il fatto che la popolazione attiva mondiale è rapidamente aumentata. È infatti passata da 1 miliardo e 200 milioni del 1950, ai circa 3,5 miliardi del 2010. Il risultato è che nel mondo è cresciuta enormemente l’offerta di lavoro, senza che altrettanto si sia sviluppata la domanda. Stando così le cose una domanda diventa spontanea: si può fare qualcosa per cambiare il corso degli avvenimenti? Per cercare di rispondere occorre tenere presente che la questione del lavoro si compone di due aspetti, collegati ma nello stesso tempo sufficientemente distinti. Il primo riguarda la dimensione quantitativa, il secondo quella qualitativa. La risposta al primo aspetto dalle istituzioni pubbliche viene normalmente affidata a riti propiziatori nei quali sono invocati: la crescita, la ripresa, il rilancio dell’economia. Rituale al quale si dedicano (con maggiore o minore convinzione) tutte le istituzioni nazionali e internazionali. Ma a parte la concreta realizzabilità, occorre sapere che queste ipotesi, per non dire semplici auspici, non sono comunque in grado di risolvere né in termini quantitativi e ancor meno qualitativi il problema. Siamo dunque ad una stretta. In quanto ad una serissima difficoltà congiunturale (le conseguenze di una economia finanziaria di rapina) si aggiungono importanti cambiamenti strutturali. Troppo a lungo trascurati. Una delle ragioni che dovrebbe spingere anche a mettere mano agli orari. In funzione di una diversa ripartizione del lavoro. Il motivo per adottare una strategia di questo tipo dovrebbe risultare del tutto comprensibile. E comunque è piuttosto semplice. Poiché il lavoro disponibile non è assolutamente sufficiente ad assorbire l’offerta, occorre ridurre gli orari e redistribuire meglio il lavoro che c’è tra tutti coloro che vogliono lavorare. Peraltro, a beneficio dei più timorosi, occorre ricordare che non si tratta affatto di una scelta sconvolgente, destabilizzante, rivoluzionaria. In quanto è stata ampiamente seguita (sia pure con alti e bassi) per oltre un secolo e mezzo”.
Una soluzione che fa anche oggi discutere e che non pare in grado di convincere del tutto viste le conseguenze economiche in atto prodotte dalla globalizzazione, dalla finanza, dal multipolarismo politico e dalla irrefrenabile innovazione tecnologica. Ma che costringe a riflettere, spinge a confrontarsi sul futuro senza rimanere prigionieri del presente come Carniti non è mai stato. Resta validissima invece l’intuizione che all’individualismo di ieri come di oggi presente nella classe lavoratrice si deve contrapporre il solidarismo e l’uguaglianza.
È una sfida difficile? È un progetto assurdo? Carniti amava citare Robert Kennedy: “Si avvicina una rivoluzione, una rivoluzione che sarà pacifica se saremo saggi; che avrà successo se saremo fortunati: ma la rivoluzione ci sarà, che noi lo vogliamo o no. Noi possiamo influire sul suo carattere ma non sulla sua inevitabilità”. L’eterno provvidenzialismo dei cattolici, magari. Quel provvidenzialismo per cui si affrontano, e si vincono, prove che appaiono disperate. È l’apologo del calabrone, che apre uno dei saggi più celebri di Galbraith e che Carniti riadattava così: “Stando al rapporto tra il peso e le ali, il calabrone non potrebbe volare. Ma lui non lo sa e vola lo stesso. Anche nel sindacato, se si usasse soltanto la testa, molte cose non si farebbero: se non si tentasse l’impossibile, non si riuscirebbe a fare il possibile…”.
Carniti non amava guardare indietro. Era instancabile. Dinanzi al crollo delle speranze bisogna reagire, ci ricordava Pierre. Un monito che oggi appare ancora più essenziale. Ma il suo tratto umano non va dimenticato assieme al grande contributo dato come leader sindacale. Più di una volta me lo trovai affettuosamente vicino quando l’isolamento era dietro l’angolo. Con lui abbiamo fatto scelte comuni, abbiamo discusso, ma tutto nel segno di una fraternità di intenti che non è mai venuta meno. E che mi fa sentire grato verso un amico che ha lasciato comunque una traccia indelebile nel percorso storico del sindacato italiano.
Giorgio Benvenuto, già segretario generale Uil, segretario generale del ministero dell’Economia e delle Finanze, parlamentare
Pubblicato giovedì 21 Giugno 2018
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