(Museo diffuso della Resistenza in Sabina)

Camminare fa bene al corpo, alla mente e alla memoria. Il Museo diffuso della Resistenza in Sabina si visita con gli scarponi da trekking lungo un percorso di grande impatto emotivo, ben segnalato da indicatori di direzione e pannelli descrittivi, che parte dalla stazione di Poggio Mirteto, in provincia di Rieti, fino ai luoghi del Monte Tancia, tra i maggiori centri della Resistenza romana e laziale, teatro di sanguinose battaglie tra partigiani e truppe nazifasciste e di feroci eccidi perpetuati sulla popolazione inerme. Il museo è un progetto attivo dal 2015 su iniziativa di Anpi, Arci, Fondazione Pietro Nenni ed è patrocinato dal Comune poggiano.

Fuori dalla stazione di Poggio Mirteto, lungo la linea ferroviaria Roma-Firenze, un pannello esplicativo del Museo diffuso della Resistenza in Sabina mostra, tra gli altri, uno scatto dell’esplosione del 14 settembre 1943.

Renzo Ricci, combattente della brigata D’Ercole-Stalin e presidente dell’Anpi provinciale di Rieti

«Con il ristretto gruppo di partigiani di cui ero parte – racconta il partigiano Renzo Ricci, classe 1929 e presidente del Comitato provinciale dell’Anpi di Rieti – vedemmo sui binari, in modo del tutto fortuito, due treni merci tedeschi carichi di carburante, armi e munizioni diretti al fronte di Cassino. Accanto, su un altro binario, c’era il treno privato di Mussolini, fermo lì perché al sicuro dai bombardamenti degli Alleati su Roma. Avvicinandoci con prudenza – prosegue Ricci – ci accorgemmo che da uno dei treni fuoriusciva carburante, così ci ingegnammo con un sistema di cerini a cui demmo fuoco. L’esplosione dei treni fu spettacolare. I tedeschi, però, non seppero mai chi compì quell’azione perché temevamo rappresaglie». Siamo nella casa del combattente della Resistenza, in una piccola località della Sabina. Il cane di Ricci gli si accuccia ai piedi. Alle spalle una parete di foto e decorazioni narra una vita di riconoscimenti.

(Museo diffuso della Resistenza in Sabina)

Quell’esplosione avvenne pochi giorni dopo l’armistizio dell’8 settembre, in un Paese per metà occupato dai nazifascisti, devastato dai bombardamenti e segnato dalla fame.

«Ero cresciuto in un ambiente antifascista, la mia fu una scelta naturale – continua Ricci. A scuola non ho mai avuto la tessera del partito fascista perché a quel tempo abitavo con la mia famiglia a Contigliano e andavo a scuola a Rieti. Così – ricorda il partigiano – a Rieti dicevo di averla a Contigliano e viceversa. Anche mio padre non ha mai preso la tessera perché era comunista e per questo venne mandato in carcere varie volte. Gli proposero di abiurare il comunismo per non essere cacciato dalle ferrovie dove lavorava. Ma lui non volle. Nella galera di Civitavecchia incontrò Sandro Pertini e quando divenne Presidente della Repubblica andammo a trovarlo a casa diverse volte».

(Museo diffuso della Resistenza in Sabina)

Fulcro del Museo diffuso della Resistenza è il Tancia, “il monte del partigiano morto per la libertà” recita un cartello che, parafrasando Bella Ciao, indica il sentiero che, inerpicandosi tra lecci e querce, porta dal comune di Ponte Catino al colle dell’Arcucciola, dove il 7 aprile 1944, venerdì santo, circa 80 uomini della Brigata D’Ercole-Stalin affrontarono oltre duemila soldati dei reparti delle divisioni Goering e Sardinia insieme a un battaglione di Camicie nere.

L’operazione tedesca venne sarcasticamente denominata Osterei, uovo di Pasqua, e sollecitata dal prefetto di Rieti al fine di ripristinare il controllo sul territorio dopo le numerose azioni di sabotaggio svolte dalla brigata, come l’assalto al deposito di armi dell’esercito italiano situato nei pressi dell’ex vetreria di Poggio Mirteto. I nazisti, dal canto loro, necessitavano di eliminare dalla zona i banditen in virtù dell’imminente ritirata dal fronte di guerra posizionato sulla linea Gustav, a Cassino e, successivamente, da Roma, determinata dallo sbarco ad Anzio degli Alleati.

(Museo diffuso della Resistenza in Sabina)

«Facevamo saltare i pali elettrici e i binari della ferrovia tra Poggio Mirteto e Stimigliano. Andavamo lì di notte, mettevamo le mine con i detonatori, micce corte. Così riuscivamo a fermare il traffico dei rifornimenti che dal nord arrivava a Cassino. Altri attaccavano pattuglie. Per il rifornimento di munizioni spesso non ci servivamo delle armi: sapevamo che ogni cento metri lungo la strada c’era un deposito di munizioni nascosto tra la vegetazione. A guardia c’era quasi sempre un tedesco anziano. Il cantoniere che lavorava sulla strada, che era uno dei nostri, lo faceva ubriacare e quando era sbronzo gli venivano prelevate le munizioni» racconta divertito il combattente Ricci della Brigata D’Ercole-Stalin, nata dalla fusione di due formazioni: l’una, di ufficiali e soldati del Regio esercito fondata dal maggiore Patrizio D’Ercole e l’altra, composta da antifascisti, principalmente comunisti della zona, guidata da Redento Masci. A questi si aggiunse un cospicuo gruppo di soldati sbandati, renitenti alla leva del territorio sabino che avevano rifiutato i bandi fascisti, e gappisti dell’VIII zona di Roma, capeggiati dai membri del Pci Luigi Forcella e Nino Franchellucci, trasferiti sul monte Sabino per sfuggire ai rastrellamenti.

La Brigata del Tancia fu una delle più grandi formazioni a nord della capitale, costituita da oltre 300 partigiani.

Una bandiera rossa segnala una delle postazioni difensive sul fianco di roccia calcarea dell’Arcucciola, il cosiddetto nido d’aquila, da cui dall’alba al calar della sera di quel venerdì di sangue si tennero sotto tiro con mitragliatrici Breda le colonne dell’esercito nazifascista provenienti dagli abitati di Poggio Mirteto, Ponte Catino, Rocca Antica, Salisano e Monte San Giovanni, accerchiando la brigata partigiana da tre diverse direzioni.

(Pagina Facebook Museo diffuso della Resistenza in Sabina)

Nonostante fossero in numero nettamente inferiore, le forze partigiane riuscirono ad infliggere ai reparti avversari oltre 400 perdite. Stremati dalla fatica e dalla fame, riuscirono a ritirarsi, ma un gruppo di sette giovanissimi combattenti romani comandati da Bruno Bruni morì sotto il fuoco tedesco. I loro corpi dovettero rimanere esposti alle intemperie e agli attacchi degli animali per settimane, secondo uno degli atroci diktat tedeschi, pena la morte. Furono inumati in modo provvisorio in una fossa comune non distante dal luogo dell’uccisione, grazie alle pressioni di don Igino Guidi, parroco di Bocchignano e cappellano della brigata, che si recò sul colle scortato da cinque carabinieri e alcuni volontari. Onorò quei giovani caduti in nome della patria, “idea fulgente di giustizia e di pietà, io benedico chi per lei cadea, io benedico chi per lei vivrà” anche in una lettera al vescovo di Rieti, citando Giosuè Carducci.

Posa delle pietre d’inciampo in Via di Acqua Bullicante, 21 a Roma alla presenza di Gunter Demnig, ideatore delle “Stolpersteine” (Ecomuseocasilino.it)

Tra le piante del sottobosco, una lapide sovrastata da una croce da cui pendono un tricolore e una bandiera rossa ricorda quella fossa comune da cui i corpi furono traslati solo alla fine della guerra. Poco distante, un anfiteatro naturale costituito da alberi imponenti accoglie il cippo eretto in loro memoria. Un monumento per i morti, ma soprattutto per i vivi che diventa emblema delle radici della nostra democrazia. “Siamo i ribelli della montagna, viviam di stenti e di patimenti, ma quella fede che ci accompagna sarà la legge dell’avvenir” cantava il gruppo folk I ratti della Sabina in uno dei remake dello storico canto partigiano del 1944. Tra i caduti dell’Arcucciola spicca Giordano Sangalli, con i suoi 16 anni, a cui è stato dedicato un parco nella zona in cui viveva, Tor Pignattara, quartiere a est di Roma compreso nell’VIII zona della lotta di Liberazione, animato quotidianamente da bambini e ragazzi come lui. E dall’VIII zona arrivava anche un altro prezioso apporto: i chiodi a quattro punte che, in una falegnameria di via di Acqua Bullicante 21 – oggi ricordata con una pietra d’inciampo – venivano prodotte in modo clandestino.

Parco Giordano Sangalli a Roma (Ecomuseocasilino.it)

«Da Roma ci portavano decine di chili di quei chiodi – ricorda Renzo Ricci – che nottetempo disseminavamo su alcuni tratti di strada. Le autocolonne tedesche, sia in direzione Cassino che di ritorno dal fronte, potevano viaggiare solo di notte perché col sole venivano bombardate dagli Alleati e i chiodi le bloccavano tutto il giorno. È stata un’azione che ho compiuto molte volte con Diego Eusebi», partigiano, quest’ultimo, originario di Poggio Mirteto (dove gli è stata poi intitolata una via).

Eusebi farà parte di un altro gruppo catturato sul Tancia: i partigiani furono uccisi, insieme ad altri civili del medesimo comune, la domenica di Pasqua, nelle Fosse Reatine con le stesse modalità utilizzate per l’eccidio delle Fosse Ardeatine: in gruppi da cinque, con sparo alla nuca e gettati in una profonda buca lasciata da un bombardamento, utilizzata dai nazisti come fossa comune.

È possibile arrivare al colle dell’Arcucciola anche proseguendo da Poggio Mirteto verso la frazione di San Valentino e il valico della Crocetta: un percorso intrapreso anche dalle truppe naziste quel 7 aprile, e sul quale si trova ancora un capanno di legno che fu rifugio dei partigiani.

Seguendo il sentiero, attraverso radure che in estate si popolano di bovini e cavalli, si scopre il casale Ferri, altro rifugio immerso nella vegetazione e centro operativo della brigata D’Ercole-Stalin.

Il monte Tancia (gosabina.com, foto di Giuseppe Albrizio)

Con i suoi 1292 metri, il Tancia è la vetta più elevata dei monti Sabini, ma è dalla caratteristica croce metallica della sua anticima che la vista spazia sul panorama: la valle del Tevere e la piana di Rieti sono collegate dalla via del Tancia, costeggiata da uliveti, da cui si produce il rinomato olio d’oliva, e un tempo percorsa da pellegrini, viandanti, mercanti e pastori. All’orizzonte, lo sguardo si perde nel blu dei monti dell’Appennino centrale, tra Lazio e Umbria, dove il 16 marzo 1944 si affermò la prima Repubblica Libera dal nazifascismo – molto prima di quella della Val d’Ossola – proclamata dalla brigata Antonio Gramsci “unica autorità esistente in questo territorio che degnamente rappresenta la nuova Italia democratica”, come recitava il proclama. La zona comprendeva un vasto territorio di oltre mille chilometri quadrati tra Leonessa, Cascia e Norcia. Ebbe tuttavia vita effimera poiché la reazione da parte dei nazifascisti fu violentissima: nella notte del 31 marzo compirono una massiccia retata, uccidendo in tutta la zona 300 persone e arrestandone 700. Una settimana dopo il rastrellamento della Repubblica Libera avvennero i fatti del monte Tancia, ma non si limitarono ai soli partigiani.

Patria Indipendente n. 5, 16 maggio 1999, «Pasqua di sangue sul Monte Tancia in Sabina – La battaglia del venerdì Santo» di Rosario Bentivegna

“Il conto non gli tornava (ai tedeschi e ai fascisti), e così, tanto per pareggiarlo, quel conto, la mattina del giorno successivo, all’alba, i soldati della Wehrmacht, da quei ‘volenterosi carnefici di Hitler’ che erano, bruciarono le casupole sparse sulla montagna e massacrarono tutti i civili che trovarono sul massiccio” ricordava dalle pagine di Patria Indipendente il partigiano gappista Rosario Bentivegna (Pasqua di sangue sul Monte Tancia in Sabina – La battaglia del venerdì Santo, Patria Indipendente n. 5, 16 maggio 1999).

(Ecomuseocasilino.it)

Mentre fuori tutto bruciava, i civili vennero rinchiusi nella chiesa di San Michele Arcangelo del Tancia, frazione di Monte San Giovanni. Poi vennero trucidati barbaramente in uno slargo poco distante: otto donne, quattro anziani e sette bambini (dai 18 mesi ai 6 anni). “Venivano lanciati in aria e mitragliati” testimonierà in diverse occasioni Adriana Bonacasa, sopravvissuta alla strage con sua sorella di 3 mesi perché nascoste dalla madre. Aveva 7 anni. Anche gli animali non furono risparmiati. I corpi vennero sepolti di nascosto tra le rovine della chiesa, anch’essa data poi alle fiamme. Oggi, a ridosso dell’altare, una lapide ricorda le vittime e nel luogo dove furono trucidate sorge un sacrario circondato da grandi pini su ognuno dei quali è stata apposta un’epigrafe metallica con i nomi e le date di nascita, quasi a celebrare la vita laddove ci fu la morte. Al termine di quel 7 aprile di sangue avvennero in zona altre 22 uccisioni di innocenti.

Altro sangue fu sparso nelle ultime ore dell’occupazione nazista, quando il 10 giugno 1944, con l’arrivo degli Alleati in Bassa Sabina, una folla di persone, attirate con l’inganno nella piazza di Poggio Mirteto da un comunicato tedesco che annunciava la distribuzione di generi alimentari, vennero uccise a colpi di mortaio. Morirono 15 persone e ne furono ferite a decine. La piazza è oggi dedicata ai Martiri della Libertà, incastonata tra la cattedrale dell’Assunta e la chiesa di San Rocco e dove dal 1861 si festeggia il carnevale anticlericale, voluto dalla comunità poggiana che si ribellò al dominio dello Stato pontificio sotto cui era e chiedendo di essere annessa allo Stato italiano. È la più importante tradizione popolare del paese che, tuttavia, si tenne fino al 1928, perché, a seguito dei Patti lateranensi, il regime fascista decise di sopprimerlo.

Piazza Mario Dottori a Poggio Mirteto (Geosabina.it)

Su piazza Martiri della Libertà si apre Porta Farnese, oltre la quale si trova una caratteristica piazzetta medievale dedicata a Mario Dottori, prima vittima della Resistenza in Sabina, morto tentando di far esplodere il ponte ferroviario Galantina, sul torrente Aia, per impedire il passaggio dei treni che avrebbero condotto in Germania gli ebrei rastrellati nel ghetto di Roma il 16 ottobre 1943. Durante il trasporto dell’esplosivo nei pressi del ponte, qualcuno della squadra addetta all’azione inciampò, attirando l’attenzione delle sentinelle tedesche che fecero fuoco. Molti ebrei saranno rinchiusi anche nel vicino campo di concentramento di Farfa Sabina, come attestano diversi documenti dell’Archivio di Stato di Rieti.

«Bisogna vegliare sulla Costituzione, bisogna insegnare a farlo soprattutto ai giovani perché quel sacrificio di tanti non sia vano» conclude il partigiano Renzo Ricci con voce grave, mentre guarda fuori dalla finestra per nascondere la commozione.

Mariangela Di Marco