I mesi precedenti la marcia su Roma (ottobre 1922) furono agitati e convulsi, di quella convulsione tipica dei periodi che preparano un assestamento definitivo. “Agli osservatori superficiali – ha scritto Giuliano Procacci – la situazione poteva sembrare ancora fluida e aperta a più soluzioni, ma in realtà la partita era ormai giocata e si trattava di mettere a punto la sua conclusione” [1]. Gli ultimi oppositori erano divisi e ormai battuti, lo squadrismo fascista imperversava, Mussolini ricattava apertamente la monarchia e lo Stato con la minaccia dell’insurrezione.
Dopo una breve pausa coincidente con la conferenza di Genova sui nuovi assetti mondiali (aprile-maggio), gli squadristi indirizzarono dapprima la rabbia dei braccianti agricoli disoccupati contro il governo centrale, poi presero di mira i principali centri del movimento operaio. In luglio i fascisti occuparono Andria, Cremona, Novara, Rimini. Viterbo. Il 10 luglio toccò a Sestri Ponente, secondo un copione usuale: invasero l’area, occuparono la Camera del Lavoro e il Municipio e imposero le dimissioni della Giunta socialista. Nella stessa giornata devastarono il pastificio di una cooperativa e la sede di una Società di Mutuo Soccorso. Il 20 luglio il giornale comunista ligure “Bandiera Rossa” titolava “Impediamo la caduta di Spezia”, circondata dai fascisti accampati a Carrara.
L’Alleanza del lavoro, costituita a febbraio per iniziativa dei sindacati e dei partiti proletari, proclamò uno sciopero generale passato alla storia, perché così definito da Filippo Turati, come “legalitario”. Frutto di una spinta dal basso, arrivò troppo tardi e senza guida. La sua proclamazione, decisa il 29 luglio, doveva restare segreta fino alla sera del 31, ma la pubblicazione della notizia sul giornale riformista genovese “Il Lavoro” del 30 luglio permise ai fascisti di organizzarsi a livello nazionale per la repressione. L’episodio non è mai stato del tutto chiarito: furono probabilmente i dirigenti sindacali riformisti a far pubblicare il manifesto segreto, che “Il Lavoro” si affrettò a comunicare alla Questura. I fascisti diedero al governo 48 ore di tempo per stroncare l’agitazione, poi sarebbero intervenute le squadre.
A Genova, nella prima giornata di sciopero, il 1° agosto, ci furono scontri tra fascisti e antifascisti, che crebbero nei due giorni successivi. “Il Secolo XIX” raccontò come le forze di polizia, nella notte tra il 3 e il 4 agosto, piegarono la resistenza popolare distruggendo le barricate innalzate a difesa delle sedi proletarie e avanzando nei vicoli con un’opera feroce di “rastrellamento” [2], che lasciò campo aperto alle squadre al comando del carrarese Renato Ricci. Sempre lui, come a Sarzana nel luglio 1921.
Tra gli Arditi del popolo genovesi c’era Agostino Novella, allora diciassettenne socialista terzinternazionalista, e che anni dopo sarà partigiano e poi negli anni 50 dirigente del Pci e segretario generale della Cgil succedendo a Giuseppe Di Vittorio.
In quell’agosto 1922 ci furono morti e feriti, e numerosi arresti e bandi, cioè ordini ai lavoratori di lasciare la regione. I fascisti raggiunsero nei giorni successivi l’obiettivo dei loro finanziatori, gli armatori genovesi: la distruzione delle organizzazioni cooperative del porto e il ripristino dei vecchi metodi di sfruttamento dei lavoratori portuali. Anche alla Spezia e a Savona tutte le sedi proletarie furono assalite e devastate. A Savona l’amministrazione a guida comunista fu dichiarata decaduta.
In tutti i casi l’atteggiamento delle autorità di governo fu quello di avvalersi dell’apporto fascista, trattando direttamente con i suoi capi, per stroncare lo sciopero. Sintomatico il telegramma inviato il 2 agosto alle ore 23,15 dal nuovo ministro dell’Interno Taddei al prefetto di Genova: “Prego comunicare a Massimo Rocca ed al comandante forze fasciste in Genova da parte on. De Vecchi che Governo assicura fronteggiare situazione et prendere disposizioni repressive contro artefici sciopero pubblici servizi e che ritiensi sciopero pubblici servizi cesserà entro domani tre. Restino quindi in attesa. F.to Taddei” [3].
Lo sciopero di agosto dimostrò il senso combattivo che sopravviveva nella classe operaia; ma, indetto senza convinzione e preparazione, mise ancora una volta in evidenza la mancanza di una direzione e le deficienze sia dei riformisti sia dei rivoluzionari. “La furbizia dei fascisti – ha scritto Gabriele De Rosa – si avvantaggiava dell’ingenuità dei socialisti collaborazionisti, del qualunquismo catastrofico dei comunisti bordighiani, dell’arrendevolezza ottimistica dei liberali, dell’amletismo dei popolari” [4]. Lo sciopero si rivelò una pietra tombale: non a caso si farà il nome di Caporetto.
L’elenco delle nuove devastazioni di circoli, organizzazioni sindacali e politiche, amministrazioni popolari copre tutta la penisola, da Ancona a Brescia, da Milano a Livorno.
Si può parlare di un’eroica sconfitta pensando ai soli due casi in cui le forze popolari riuscirono a respingere l’aggressione: Bari, dove gli Arditi del popolo sono capeggiati da Giuseppe Di Vittorio, allora deputato socialista e segretario della Camera del Lavoro, e Parma. Fu qui che la resistenza operaia scrisse la sua pagina più gloriosa. 15.000 uomini guidati da Italo Balbo tentarono l’assalto ai quartieri di Oltre Torrente, trasformati in campi trincerati, ma fallirono dinanzi a una resistenza, guidata dagli Arditi del popolo e dal deputato socialista Guido Picelli, che segnò momenti straordinari in cinque giorni di lotta.
Le due narrazioni pervenuteci, quella di Picelli e quella di Balbo, pur così diverse, concorrono a raccontare una vera e propria lotta di popolo, che comprendeva le donne, i ragazzi, i preti. Gli stessi soldati, accorti a braccia aperte, si rifiutarono di intervenire. Balbo lascia trasparire una certa dose di ammirazione.
Ma Parma restò un fatto isolato. Come Sarzana nel ’21. Sarzana e Parma ci dicono che gli Arditi del popolo furono una grande occasione mancata, “l’errore straordinario” [5], secondo Paolo Spriano, dei partiti proletari.
L’esempio dell’“errore” dei comunisti nei confronti dell’arditismo diverrà classico nelle successive polemiche. Il dirigente comunista tedesco Ernst Thälmann affermerà nel 1924: “Al tempo del grande movimento degli Arditi del popolo nel 1921 il partito italiano ha rifiutato di trarre profitto da questo movimento popolare, sebbene Lenin glielo avesse espressamente domandato” [6].
Arrivò invece la Caporetto proletaria. A differenza di quella dell’esercito italiano del ’17, non troverà nessuna linea del Piave su cui attestarsi per riconquistare le posizioni perdute. Oggi vediamo chiaramente i limiti degli Arditi: la prevalenza dell’aspetto militare su quello politico, il rigido classismo. Ma questi “eretici, o se si preferisce, irregolari dei rispettivi movimenti” [7], come li ha definiti Eros Francescangeli, ebbero comunque il merito di aver combattuto. E di gettare le premesse della lunga lotta antifascista.
Giorgio Pagano, copresidente del Comitato Unitario della Resistenza della Spezia in rappresentanza dell’Anpi, storico, sindaco della città di La Spezia dal 1997 al 2007
[1] Giuliano Procacci, “Storia degli italiani”, vol. II, Laterza, Bari, 1968, p. 502.
[2] “Attorno all’isolato di Morcento la battaglia è durata tutta la notte. Blocco e rastrellamento dell’isolato”, “Il Secolo XIX”, 4 agosto 1922.
[3] ACS, Ministero Interno, Direzione generale PS, A. g. e. r., 1922. C. I, b. 41).
[4] Gabriele De Rosa, “Storia del partito popolare”, Laterza, Bari, 1958, p. 266.
[5] Paolo Spriano, “Storia del Partito Comunista Italiano”, Vol. I, Einaudi, Torino, 1967, p. 139.
[6] “Bulletin du V Congrès de l’Internationale communiste”, n. 14, Mosca, 1° luglio 1924.
[7] Eros Francescangeli, “Arditi del popolo”, Odadrek, Roma, 2000, p. 174.
Pubblicato mercoledì 3 Agosto 2022
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