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A fine legislatura, proprio nel momento in cui le forze politiche iniziano a redigere bilanci del quinquennio trascorso, a interrogare i sondaggi e a tracciare i programmi per il futuro, non è infrequente che giungano a frettolosa maturazione iniziative a lungo rinviate e che vengano tirati fuori progetti di legge rimasti chiusi altrettanto a lungo nei cassetti degli uffici legislativi ministeriali: l’intento può essere, a seconda dei casi, quello di mettere improvvide proposte sul binario morto di artificiosi prolungamenti delle procedure parlamentari di approvazione, in attesa della fine della legislatura, o al contrario, rimediare a prolungate inerzie, approfittando della ristrettezza dei temi disponibili per sollecitare la celerità della procedura di approvazione.

Mariastella Gelmini, ministro per gli Affari regionali (Imagoeconomica)

Non è chiaro a quale delle due categorie appartenga la bozza di legge quadro sull’autonomia differenziata, uscita dagli uffici del Dipartimento per gli affari regionali e le autonomie retto da Mariastella Gelmini, ma quello che è evidente è che si tratta di un testo rispetto al quale le più forti perplessità risultano quanto mai giustificate.

Pontida, raduno Lega Nord (Imagoeconomica)

La storia dell’autonomia differenziata risale al 2001, anno della promulgazione della legge costituzionale di riforma del Titolo V, esito di uno sgangherato dibattito sul federalismo protrattosi per anni su impulso soprattutto della Lega separatista e nordista di bossiana memoria. Nel testo costituzionale, l’art. 116 prevede da allora al terzo comma, la possibilità di attribuire con legge dello Stato alle Regioni a statuto ordinario, “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” concernenti tutte le materie oggetto di legislazione concorrente tra lo Stato e le Regioni (elencate al terzo comma del successivo articolo 117) – per le quali spetta alla Regione l’esercizio della potestà legislativa, salvo che per l’indicazione dei principi fondamentali, riservati alla legge dello Stato – nonché l’organizzazione della giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, materie che la Costituzione stessa (art. 117, secondo comma) riserva alla legislazione esclusiva dello Stato.

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Come è noto, ben prima della pandemia, proprio durante gli ultimi mesi della XVII legislatura, tre Regioni (Lombardia e Veneto e Emilia Romagna, le prime due sulla base dell’esito positivo di referendum consultivi, e la terza in base a una risoluzione approvata dall’Assemblea regionale) hanno intrapreso, pur in assenza di regole quadro, il percorso previsto dall’art. 116. Il 28 febbraio 2018, il governo in carica siglò tre distinte intese preliminari, con ciascuna Regione, individuando i principi generali, la metodologia (in particolare, durata decennale dell’intesa e sua modificabilità in corso di attuazione) e un primo elenco di materie oggetto del negoziato: tutela dell’ambiente e dell’ecosistema; tutela della salute; istruzione; tutela del lavoro; rapporti internazionali e con l’Unione europea.

Camera, Commissione speciale: audizioni sul Def nella sala del Mappamondo (Imagoeconomica)

Con l’inizio della XVIII legislatura, le tre Regioni si sono affrettate a precisare di essere interessate ad ampliare il novero delle materie da trasferire, mentre altre Regioni, nel frattempo, hanno annunciato l’intenzione di volere avviare il percorso di riconoscimento di regimi di autonomia differenziati. Infine, il Documento di economia e finanza 2022, riprendendo quanto già era stato scritto nella Nota aggiuntiva al Def dell’anno precedente, ha incluso il disegno di legge sull’autonomia differenziata tra quelli collegati alla decisione di bilancio (pur essendo tale collegamento, diversamente dal passato, una qualifica puramente politica, priva cioè di effetti diretti sui saldi di finanza pubblica).

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In questo quadro si inserisce lo schema Gelmini (al momento in cui vengono redatte queste note, non è stato presentato alle Camere alcun disegno di legge) che, “malgrado l’inevitabile rallentamento” subìto dall’attuazione dell’art. 116 a causa della pandemia (così cautamente si esprime una nota del Servizio studi della Camera dei deputati), costituisce l’esito di un impegno assunto in diverse sedi parlamentari dalla ministra per gli Affari regionali, di procedere all’elaborazione di una “legge quadro” volta ad assicurare un minimo di trasparenza e omogeneità delle procedure. Pur nella sua provvisorietà, il documento merita comunque alcune considerazioni di carattere generale, quanto meno come testimonianza di un indirizzo maturato in seno all’Esecutivo.

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Preliminarmente, però, occorre prendere atto che si tratta di un testo che si ricollega, anche nelle prescrizioni normative, alle intese preliminari del 2018, saltando a piè pari, politicamente e concettualmente, quanto è avvenuto dopo quella data, e soprattutto ignorando che l’“inevitabile rallentamento” del percorso di attuazione dell’art. 116 della Costituzione causato dalla pandemia non è un fatto incidentale, e che la crisi pandemica, oltre a raffreddare le pulsioni federaliste (peraltro messe da parte perfino dalla Lega a trazione salviniana) ha posto in evidenza le vere urgenze: prima fra tutte, il rafforzamento del sistema sanitario pubblico e l’adozione di elevati standard di prestazioni omogenei su tutto il territorio nazionale. In altri termini, esattamente l’opposto della frammentazione ulteriore delle competenze e delle funzioni che discenderebbe inevitabilmente dall’attuazione delle disposizioni costituzionali sull’autonomia differenziata.

Un esempio di crisi idrica. In secca il fiume Trebbia, affluente del Po, nel Piacentino (Imagoeconomica)

La crisi pandemica (ma anche, più recentemente, la grave situazione degli approvvigionamenti idrici) ha messo in evidenza una profonda criticità del rapporto tra Stato e Regioni, soprattutto sul versante dell’inidoneità dell’attuale assetto delle competenze atte a garantire l’uniformità nell’esercizio dei diritti fondamentali, proprio a partire dal diritto alla salute, a causa di differenze ingiustificate nei diversi ordinamenti regionali e di un carente coordinamento tra centro e periferia affidato a una defatigante trattativa nella quale su ogni altra considerazione è sembrata prevalere l’intenzione, soprattutto sul versante regionale, di scaricare le proprie responsabilità sulla controparte. Tutto ciò, a scapito dell’efficace funzionamento del sistema nel suo complesso, e a dimostrazione che il trasferimento delle logiche della competizione di mercato nella sfera istituzionale non può produrre altro che catastrofi.

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Nel 2017, la Commissione parlamentare per gli affari regionali svolse un’indagine conoscitiva sull’attuazione dell’art. 116, concludendo con una relazione nella quale, dopo avere messo in rilievo i potenziali vantaggi per l’ordinamento di una “competizione virtuosa tra i territori” si cautelava rispetto a questa improvvida affermazione aggiungendo: “L’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, non deve peraltro essere intesa in alcun modo come lesiva dell’unitarietà della Repubblica e del principio solidaristico che la contraddistingue”.

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I fatti hanno dimostrato che gli auspici espressi dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali si sono rivelati delle pie illusioni. L’articolo 116, nella sua impostazione di fondo, comporta un esercizio differenziato di diritti fondamentali, quali appunto, quelli sottesi alle materie rivendicate dalla Regioni che finora hanno attivato le intese con il Governo: salute, istruzione, tutela dell’ambiente, rapporti internazionali. Il modello auspicato senza mezzi termini dalla destra (ma purtroppo tacitamente accolto anche da altri settori dello schieramento politico) di un ordinamento delle autonomie strutturato secondo modelli competitivi (non virtuosi, però), nei quali il soggetto più forte si accaparra le risorse migliori, è il presupposto per un ulteriore approfondimento delle diseguaglianze socio-economiche già ampiamente aggravate dalla pandemia, e ora dalla crisi prodotta dalla guerra in Ucraina.

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La bozza Gelmini sembra dunque di per sé destinata a peggiorare la situazione, per il solo fatto di dare attuazione a una disposizione che dovrebbe essere oggetto di un profondo ripensamento, insieme, peraltro, a tutto il testo riformato del Titolo V della Costituzione: per gli squilibri e le inefficienze che ha prodotto, quest’ultimo rischia di mettere in discussione l’intero assetto autonomistico, che costituisce invece il pilastro di una moderna democrazia pluralista, e di suscitare, dopo le sbornie federaliste degli anni passati, una altrettanto negativa reazione neo centralista.

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Il testo, peraltro, si limita in larga misura a recepire la prassi instaurata nel procedimento di attuazione dell’art. 116 avviato al termine della XVII legislatura, di cui si è detto: già con la legge di stabilità 2014, il Parlamento aveva varato alcune norme di carattere procedurale, disponendo un termine di sessanta giorni entro il quale il Governo è tenuto ad attivarsi sulle iniziative delle Regioni presentate al Presidente del Consiglio dei ministri e al ministro per gli Affari regionali ai fini dell’intesa (art. 1, comma 571, legge n. 147 del 2013). L’articolato predisposto dalla ministra Gelmini dimezza il termine, che decorre dalla data del ricevimento delle iniziative regionali, ma non modifica l’obbligo del Governo di avviare il confronto con la Regione interessata, e rimette al Consiglio dei ministri l’approvazione dell’eventuale intesa. Sempre secondo la bozza, lo schema di intesa preliminare tra Stato e Regione (di durata decennale e modificabile nel periodo di vigenza, d’intesa tra le parti) viene trasmesso alle Camere entro dieci giorni dalla sottoscrizione, per l’espressione, entro trenta giorni, del parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali; decorso tale termine, il presidente del Consiglio o, per sua delega, il ministro per gli Affari regionali sottopone il testo definitivo dell’intesa in forma di disegno di legge al Consiglio dei ministri, alla presenza del presidente della Regione interessata. Su tale disegno di legge le Camere deliberano a maggioranza assoluta.

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Occorre dire che la maggioranza qualificata prevista dalla bozza è una ben magra compensazione al principio di non emendabilità del disegno di legge di recepimento dell’intesa. La non emendabilità accentua infatti ulteriormente la condizione di emarginazione delle Camere, ridotte sempre più a una funzione meramente notarile per decisioni assunte in altre sedi e rispetto alle quali la possibilità degli organismi parlamentari di incidere è minima. Anche il parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali, così come è disciplinato nella bozza, rimane privo di un proprio autonomo rilievo. Di regola, infatti, il parere parlamentare non è vincolante e nel testo non si prevede neanche che esso possa produrre degli effetti sul procedimento, quali potrebbero derivare, ad esempio, dalla possibilità di chiedere un riesame dell’intesa, qualora in essa si ravvisino violazioni, per ipotesi, dei principi generali dell’ordinamento, del principio di sussidiarietà o delle norme costituzionali di disciplina del rapporto tra Stato e Regioni, relative ai divieti di cui al primo comma dell’art. 120.

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La norma di garanzia prevista dallo schema di provvedimento è rivelatrice delle difficoltà concrete di attuazione dell’autonomia differenziata. L’art. 3 prevede infatti che le funzioni e le risorse necessarie a esercitare le “condizioni particolari di autonomia” relativamente a sanità, istruzione, assistenza e trasporti pubblici locali (salvo ulteriori materie successivamente individuate con legge dello Stato) possano essere trasferite alla Regione solo successivamente alla preliminare definizione dei livello essenziali delle prestazioni, di cui all’art. 117 secondo comma, lettera m), della Costituzione.

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Va detto che, al momento, non c’è una norma di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni per le materie sopra elencate (e pertanto, in assenza di tale presupposto le intese finora raggiunte non potrebbero essere attuate); inoltre, secondo la normativa vigente sul cosiddetto “federalismo fiscale” c’è un rapporto diretto tra i livelli essenziali delle prestazioni (che sono definiti con legge dello Stato) e la determinazione dei costi e dei fabbisogni standard da riconoscere ai soggetti di autonomia. Questi ultimi, ai sensi dell’art. 4, sono definiti come obiettivi da conseguire a partire dal discutibile principio della spesa storica sostenuta dalle amministrazioni dello Stato per le funzioni che l’intesa trasferisce alla Regioni: il che vuole dire che una volta definito il livello essenziale di prestazione, in qualsiasi materia, lo Stato deve poi garantire a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni le risorse necessarie per l’erogazione dei servizi, con tutto ciò che ne deriva dal punto di vista dell’obbligo costituzionale di indicare i mezzi per fare fronte a nuove e maggiori spese.

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Non è difficile cogliere la contraddittorietà delle previsioni normative costituzionali, che da un lato, attraverso l’assegnazione allo Stato del compito di definire i livelli essenziali delle prestazioni e quantificare le relative risorse, presuppone interventi di carattere perequativo che dovrebbero affidare agli enti locali nelle aree svantaggiate risorse idonee a superare i differenziali di sviluppo, ma dall’altro promuove quella che pudicamente viene definita “virtuosa competizione” dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali, e che in realtà è suscettibile di tradursi in un bulimico assorbimento di risorse da parte delle Regioni più ricche, con il conseguente aggravio dei già marcati squilibri territoriali odierni. Probabilmente, il danno potenziale potrebbe essere contenuto qualora l’ambito delle materie oggetto delle disposizioni sull’autonomia differenziata venisse circoscritto alle sole materie di interesse meramente locale, ma di questo non si trova traccia nella bozza diffusa dal ministero per gli Affari regionali, che anzi va nell’opposta direzione di prevedere la possibilità di trasferire alle Regioni altre materie, in base all’art. 14 del decreto legislativo n. 68 del 2011.

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Anche le disposizioni relative alla possibilità per la presidenza del Consiglio-Dipartimento per gli affari regionali di disporre verifiche su specifici profili o settori di attività oggetto dell’intesa appare un meccanismo di garanzia piuttosto blando, considerato che si tratta di un’attività di mero monitoraggio, priva di effetti circa i contenuti o le modalità di attuazione dell’intesa.

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Occorre quindi tornare all’interrogativo iniziale e verificare, con un’attenta azione di vigilanza democratica, se lo schema predisposto dal Dipartimento per gli affari regionali costituisca un ballon d’essai per saggiare la effettiva disponibilità dell’attuale maggioranza a proseguire sul terreno già intrapreso per quanto riguarda in primo luogo l’attuazione dell’intesa le tre Regioni (che il testo fa salve con una disposizione transitoria al comma 6 dell’articolo 2) ovvero se non si tratti di una proposta che punta a mettere in sicurezza le disposizioni dell’art. 116, terzo comma della Costituzione e a garantirne comunque l’attuazione, anche se forse non entro la corrente legislatura.

Ma la questione è di carattere più generale, e riguarda la necessità di un ripensamento dell’assetto generale del rapporto tra lo Stato e le Regioni disegnato con la riforma costituzionale del Titolo V, un ripensamento che non può non comportare anche l’immediata interruzione delle procedure di attuazione dell’autonomia differenziata.

Il testo, licenziato alla fine della XIII legislatura, fu presentato allora come un meccanismo virtuoso, in quanto promuoveva una dinamica competitiva tra il centro e la periferia soprattutto attraverso il rafforzamento del ruolo delle autonomie (segnatamente di quelle regionali) e il ridimensionamento, fin quasi ad azzerarle, delle funzioni di controllo e di coordinamento assegnate allo Stato. Le più recenti esperienze dimostrano però che l’attuale ordinamento, lungi dal promuovere l’efficienza del sistema, ne ha aumentato l’entropia, con una lesione sostanziale del principio costituzionale di leale collaborazione tra le istituzioni della Repubblica che si ripercuote pesantemente sulle condizioni di vita dei cittadini, laddove va a incidere negativamente sull’esercizio di diritti fondamentali, come quelli concernenti la salute e l’ambiente.

Piuttosto che discutere di autonomia differenziata, è tempo invece di accantonarla, e ragionare sugli effetti della riforma del Titolo V, a quasi venti anni dalla sua entrata in vigore, e sui correttivi che si rendono necessari affinché il sistema delle autonomie, presidio fondamentale di democrazia e garanzia di pluralismo, sia reso coerente con i principi costituzionali di eguaglianza e di inviolabilità dei diritti fondamentali della persona.