La retorica – o, se preferite, lo storytelling – della bellezza è molto di moda, ed è molto pericolosa.
Mi limito a ricordare che l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi (autore di un libro che si intitola Stil novo. La rivoluzione della bellezza da Dante a Twitter, Milano 2012), mentre sradicava dalle fondamenta la rete delle soprintendenze (quelle che attuavano l’articolo 9 della Costituzione repubblicana) aveva disposto la creazione di un indirizzo di posta elettronica assai evocativo (bellezza@governo.it) cui segnalare i monumenti che si volevano salvare. Era come se si fossero accorpati e depotenziati gli ospedali e gli ambulatori dei medici di base, e poi il presidente del Consiglio chiedesse di segnalare alcuni malati all’indirizzo guarigione@governo.it, dicendo che i «più votati» saranno risanati. Da un punto di vista della tutela, questa svolta significa un arretramento secolare: la rinuncia a salvare tutto il patrimonio, la scelta di concentrarsi sui grandi siti redditizi (che hanno ricevuto 850 milioni sul miliardo stanziato, con gran clamore mediatico, il primo maggio 2016), e di destinare una quota residuale (il restante 15%) a qualche monumento ‘minore’, in una sorta di ribaltamento per cui è ora lo Stato ad adottare il format dei «luoghi del cuore» del Fai. Ma è dal punto di vista della democrazia che questa prospettiva è davvero pericolosa: nel passaggio da una democrazia rappresentativa ad una democrazia d’investitura assume un ruolo centrale il rapporto diretto tra il capo e la folla. Questo rapporto tende a delegittimare, e quindi a far saltare, i corpi intermedi: specie quelli che non poggiano sul consenso, ma sul sapere tecnico o scientifico.
Allora, ciò che mi auguro per il 2017 è che la bellezza cessi di venir usata come una clava mediatica e propagandistica. E che finalmente si attui il progetto della Costituzione sulla bellezza.
Quel progetto è enunciato all’articolo 9: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio della nazione».
Tre sono le indicazioni fondamentali di questo che il presidente Carlo Azeglio Ciampi ha definito «l’articolo più originale della nostra Costituzione».
La prima è che la bellezza non è astratta, teorica, disincarnata dalla storia: perché la Costituzione parla del paesaggio e del patrimonio storico e artistico. Cioè dell’Italia come è stata costruita da infinite generazioni di italiani che hanno modificato un paesaggio già in sé straordinario e l’hanno disseminato di opere d’arte, monumenti, biblioteche, archivi: una bellezza diffusa, contestuale, indivisibile, non commerciabile, pubblica per definizione.
La seconda è che la bellezza è della nazione: cioè di tutti. Ricchi e poveri, colti e ignoranti, uomini e donne, italiani per nascita o nuovi italiani arrivati, con i barconi, dal Mediterraneo. Di tutti: anche la bellezza che per secoli ha diviso i signori dal popolo, o i ricchi dai poveri, oggi è uno strumento di eguaglianza, inclusione sociale, integrazione. Siamo una nazione per via di bellezza: non per via di sangue, stirpe o religione.
La terza è che questa bellezza non è fatta per essere contemplata come una muta divinità, né venduta come una merce. Ma è fatta per produrre conoscenza e cultura, attraverso la ricerca. È una bellezza che genera consapevolezza: una bellezza che dà agli italiani gli strumenti intellettuali e culturali per esercitare pienamente la loro sovranità. Una bellezza che genera cittadinanza.
Allora, per quest’anno appena cominciato io vorrei che questo progetto si cominciasse finalmente ad attuare. A partire da cinque proposte, semplici semplici.
La prima: liberare dal patto di stabilità tutti i Comuni che per il 2017 certifichino un consumo di suolo pari a zero. Chi smette di sfigurare ambiente e paesaggio con il cemento deve essere premiato, celebrato, incentivato.
La seconda: togliere ogni euro di finanziamento pubblico alle mostre, e concentrare quel fiume di denaro al patrimonio stabile, cioè al corpo del Paese dove si svolge la nostra vota. Piazze, chiese, palazzi, monumenti: lo spazio pubblico permanente.
La terza: togliere ogni biglietto di accesso ai monumenti e ai musei pubblici. Nel 2013 il gettito di questi ultimi è stato pari a 125.826.333 euro, ma allo Stato ne sono arrivati 104.333.063 (la differenza è andata agli oligopolisti delle concessioni): che è il costo di un singolo bombardiere F35. Con meno di un terzo di quanto destinato all’assegno indiscriminato per il consumo culturale dei neodiciottenni, potremmo far entrare tutti gratis nei nostri musei. E l’economia indotta da un aumento del movimento dei cittadini verso il patrimonio darebbe frutti, anche fiscali, assai superiori al gettito dei biglietti.
La quarta: varare un progetto nazionale scolastico su Patrimonio culturale e integrazione: per la realizzazione di progetti che guidino gli studenti a scoprire le tracce di ‘alterità’ e ‘diversità’ culturale all’interno del patrimonio artistico. Il nostro patrimonio è pieno di segni, immagini, testi che testimoniano questa lunga storia di accoglienza, ibridazione, meticciato, integrazione. I progetti potranno essere orientati a farli scoprire, con mezzi diversi: da una caccia al tesoro che coinvolga i bambini della primaria a cercare questi segni nei musei e nel tessuto della città (scritte in arabo nei quadri, nomi stranieri nelle lapidi delle chiese, palazzi appartenuti a cittadini non italiani, tracce di culti non cristiani o non cattolici…) a una ricerca che impegni gli studenti delle superiori in un vero e proprio catalogo dei monumenti ‘aperti’ e ‘meticci’ della propria città.
La quinta: assumere 5000 archeologi, storici dell’arte, archivisti, bibliotecari, e altri giovani ricercatori capaci di trasformare quella bellezza in conoscenza, e dunque in sovranità e cittadinanza diffusa.
Il libro dell’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli (La lista della spesa, Feltrinelli) indica con dovizia di numeri i luoghi del bilancio pubblico dove le risorse potrebbero essere immediatamente reperite.
Se un governo si decidesse a farlo, questa sì che sarebbe la vera rivoluzione della bellezza: una bellezza che sia sinonimo di eguaglianza, giustizia, democrazia.
Tomaso Montanari, storico dell’arte, docente universitario, editorialista, vicepresidente dell’associazione “Libertà e Giustizia”
Pubblicato lunedì 16 Gennaio 2017
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