Che augurarsi, in campo narrativo, per questo 2017? Inizio in minore, anche in sordina, prigioniero di gabbie di carta che non m’appagano. Mi chiedo cos’è rimasto da fare, cosa da scrivere, quale strada ha ancora senso tentare? Qualcosa c’è. Qualcosa deve esserci.
Un’autentica narrazione civile non può che nascere dalla voglia di vivere. Dalla voglia di capire la vita. Eppure – io anche sono stato e sono ancora preda di questo demone – la nostra storia letteraria si nutre di metanarrazioni. Come se non fossimo in grado di vivere e di scrivere senza dilaniarci, senza crogiolarci in preci filosofiche, in pretenziose e apocrife psicologie. La nostra narrativa manca di storie autentiche, di delineazioni nette, di canti corali. Io vedo le cronache di casa nostra – la Storia – coperte di parole, soltanto parole, di voci interiori, di dubbi strazianti che ci allontanano lunarmente dalla Realtà.
Ora, io dico che in Italia manca una narrazione civile, il romanzo di memoria che ci indichi una strada. Forse manca da sempre, fin dai tempi in cui gli eroi e i maestri indimenticati del Neorealismo lambirono il bersaglio e virarono altrove: sfiorarono la creazione di un’epica popolare ma, poi, il sogno fu tradito. Da loro stessi e dai loro epigoni.
Occorrerebbe fare un passo indietro, o farne settanta e più, quanti sono gli anni dalla fine della Resistenza. Forse dovremmo ricordare che la vita partigiana fu soprattutto di gesti, d’azioni, di cose. Andare a far legna, trovar coperte, preparare un pasto. Dobbiamo ricordare che i partigiani ridevano e si innamoravano. Lo scrive Giacomo Papi introducendo Io sono l’ultimo (Einaudi), splendida antologia d’estremi ricordi partigiani: “Gli ultimi testimoni diretti della guerra di Liberazione nel biennio ’43-’45 erano ragazzi e ragazze poco più che adolescenti che sceglievano il nome di battaglia nei libri di avventure, e avevano appena smesso di giocare, persone a cui capitò di innamorarsi e dare il primo bacio mentre erano in guerra. Nel corso di quei due anni, per la prima volta nella storia d’Italia, maschi e femmine si trovarono a dormire insieme all’aperto, a dividere la paura, l’entusiasmo, il coraggio, a combattere, uccidere morire fianco a fianco”. Io appartengo ai nati sul franare ideologico di quel Secolo breve che nel Sessantotto – tarda sollevazione del ‘900 – pose per la prima volta in contrasto due generazioni, la più giovane delle quali, come ha scritto Hobsbawm, lasciò le tradizionali affermazioni politiche per voltarle in “pubbliche proclamazioni di desideri e sentimenti privati”.
Così lo strappo tra dimensione privata e pubblica fa la distanza siderale tra noi e l’universo dei grandi della Resistenza. Leggendo dei partigiani, maschi e femmine, che si baciavano e si innamoravano, giovani e belli, dormendo all’aperto, mi venne in mente una gita scolastica, una serata tra amici. Mi dissi che anch’io potevo sentirmi un partigiano, anch’io avevo provato quelle sensazioni. Ma poi c’era scritto che, oltre a baciarsi e a guardarsi, loro combattevano e uccidevano e morivano. Si salutavano, magari all’alba, con una promessa e poi non si rivedevano più. Mai più!Noi oggi raramente diciamo ‘mai più’, disabituati come siamo ai distacchi, alle sofferenze, ai tormenti. La nostra è una società reiterante e irresponsabile, spesso cupida d’intensità effimere. Mirabilmente già Alexis de Tocqueville segnava, quasi duecent’anni fa, i limiti di una società democratica: “vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri”. È la società del godimento, quella che vanifica le energie dei terroristi dimenticando in fretta le tragedie per tornare a occuparsi subito del “paese delle meraviglie”, è la società descritta da Philippe Muray nel suo Cari jihadisti (Miraggi edizioni), dissacratorio libello contro l’Occidente che cade senza rimedio, che prova “simpatia per la devastazione” e i cui “romanzieri si adoperano solo a destrutturare ogni rappresentazione, ogni narrazione, ogni immagine. Con un solo obiettivo: cancellare ogni parvenza di senso”.
Io mi auguro, per il 2017, di ritrovare il senso. Un senso che era forte in quei venti mesi di Resistenza in cui s’interrò il seme di una società del Desiderio, nobile forma di relazione con gli altri, che crea legami forti, stabili, duraturi, che vuole l’Altro, per capirlo, per viaggiare nello stesso destino, per comprenderne anche le differenze.
Vorrei, nel 2017, trovare narrazioni utili, nei termini che Walter Benjamin consegnava a quel suo libretto del 1936, Il narratore, dove l’arte di raccontare è indissolubilmente legata alla pratica della saggezza. Vorrei ricevere, da una narrazione veramente civile, un buon consiglio, un aiuto, allorché ci si sente disorientati. Ma tutto ciò langue. Siamo individui su un’isola, privi di consiglio per se stessi e per gli altri. Il romanzo, insomma, manca di saggezza, poiché è circondato da soglie in cui ci si perde, perché l’unica storia degna di essere narrata sembra ormai solo quella del nostro compiaciuto disorientamento.
Vorrei leggere di personaggi non toccati dalla paura di essere in disaccordo con la propria idea di vita e di mondo. Ne ho abbastanza di lacerazioni dell’individuo, di scissioni di se stessi; rappresentiamo pure la mera e implacabile impossibilità, a volte, di fare la cosa giusta. Ma non diciamo di non sapere qual è. Vorrei leggere di esseri umani che condividono una stessa storia, uno stesso destino, uno stesso modo di condurre l’esistenza. Vorrei leggere di donne e uomini compatti e, a un tempo, abissalmente profondi. Vorrei leggere una storia che sia la Storia e che ci indichi la via per il futuro.
Giacomo Verri è nato nel 1978 a Borgosesia. Lì fa l’insegnante di Lettere alle scuole medie. Ha scritto su Nazione Indiana, Doppiozero, Il Primo amore, Nuova Prosa, LibriSenzaCarta, L’impegno. Ha collaborato alle pagine culturali del quotidiano l’Unità, e ora recensisce per Satisfiction e La poesia e lo spirito. Cura la rubrica Radici e Dedali sulla rivista Zibaldoni e altre meraviglie. Partigiano Inverno, testo finalista al Premio Calvino 2011, è stato il suo primo romanzo, pubblicato da Nutrimenti nel 2012. Con Racconti partigiani (Biblioteca dell’immagine, 2015) torna a parlare di Resistenza, quella di ieri e quella di oggi. Dal 2016 ha inaugurato un proprio blog letterario: http://giacomoverri.wordpress.com
Pubblicato lunedì 16 Gennaio 2017
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