«Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani».
Si apre così, con questa lapidaria affermazione, l’art. 7, uno degli articoli più discussi della Costituzione italiana. La sua approvazione fu preceduta da un aspro confronto tra i Costituenti, che fece emergere il profondo divario politico e culturale tra l’anima laica e quella cattolica dell’Assemblea. Fu uno scontro durissimo, nel quale non mancarono le minacce, più o meno velate, né i veri e propri voltafaccia. Alla fine si riuscì comunque ad arrivare a una soluzione condivisa, sia pure al prezzo di qualche compromesso – tra cui il rinvio ai Patti Lateranensi (Trattato e Concordato) del 1929 e ai successivi accordi di modifica per la regolazione dei reciproci rapporti – e di qualche rinuncia da entrambe le parti.
Ma cosa vuol dire, in concreto, che lo Stato e la Chiesa sono tra loro «indipendenti»? Quali sono gli effetti pratici di questa affermazione?
La parola «indipendenza», riferita sia alle persone sia alle istituzioni, significa possibilità di decidere senza interferenze o condizionamenti da parte di altri. Nelle relazioni tra Stato e Chiesa essa si traduce nel divieto per l’uno di interferire nell’ordinamento dell’altra e viceversa. Esattamente come avviene nei rapporti tra Stati sovrani, ciascuno è quindi libero di darsi norme autonome al proprio interno senza tenere conto degli orientamenti dell’altro, salvi i vincoli che volontariamente assume in sede di accordo. Lo scopo è quello di evitare pericolosi intrecci – purtroppo assai frequenti nella storia del nostro Paese, e non solo – tra politica e religione, sia nella forma di uno Stato «confessionale» (cioè controllato, direttamente o indirettamente, dalla Chiesa) sia nella forma di una Chiesa «politica» (cioè controllata, direttamente o indirettamente, dallo Stato).
Qui però le cose si complicano.
La Chiesa, a differenza dello Stato, non è infatti un ente territoriale, ma universale: vale a dire che non ha un territorio entro il quale le sue norme si applicano con esclusione di tutte le altre e al di fuori del quale esse non si applicano, ma ha un insieme di destinatari (la comunità dei fedeli) che sono tenuti a rispettarle ovunque essi si trovino.
Così, una persona di religione cattolica che si trovi, stabilmente o anche solo temporaneamente, in Italia è soggetta sia alle regole dello Stato italiano sia a quelle della Chiesa cattolica. Se esse sono uguali, o comunque compatibili, non c’è ovviamente alcun problema. Se invece sono diverse, e tra loro incompatibili (come, ad esempio, nel caso del divorzio o dell’aborto), il singolo deve fare una scelta: o rispetta le norme dello Stato, esponendosi al rischio di sanzioni da parte della Chiesa (ad esempio, i divorziati e le donne che hanno scelto di abortire, a cui può essere negata la comunione) o rispetta quelle della Chiesa, esponendosi al rischio di sanzioni da parte dello Stato (ad esempio, i medici che rifiutano di praticare l’interruzione volontaria di gravidanza, a cui oggi l’ordinamento italiano riconosce il diritto all’obiezione di coscienza, ma non è detto che in futuro sarà sempre così, o i giovani che in passato rifiutavano di prestare il servizio militare obbligatorio, a cui sono state inflitte pesanti condanne e che in molti casi hanno dovuto subire anche la pena del carcere).
Ecco, quindi, che gli intrecci che si vogliono evitare nella vita delle istituzioni si ripresentano inevitabilmente in quella degli individui.
Ma come deve agire lo Stato in questi casi? Quale deve essere il suo atteggiamento rispetto alla religione in genere, e a quella cattolica in particolare?
Combinando l’art. 7 con altre disposizioni – in primis, gli artt. 2, 3, 8, 19 e 20 Cost. – si ricava uno dei principi fondamentali della Carta, oggi più che mai al centro del dibattito (dalla questione dell’insegnamento della religione nelle scuole, a quella del velo in classe o nei luoghi di lavoro, a quella del crocifisso nelle aule scolastiche e di tribunale): la laicità dello Stato.
Un principio antico e da sempre controverso, che affonda le radici nelle parole di Cristo («Date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio») e, dopo essere stato al centro di innumerevoli dispute sulla separazione tra potere temporale e potere spirituale in epoca medievale e moderna, si rivela di scottante attualità nel mondo contemporaneo, caratterizzato dall’esistenza di società sempre più multietniche e multiculturali.
Un principio complesso, non facile da interpretare e attuare, che – come ha da tempo chiarito la Corte costituzionale (sent. n. 203/1989) – implica «non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni» (c.d. laicità negativa), ma «garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale» (c.d. laicità positiva).
Un principio supremo del nostro ordinamento, che non potrebbe essere modificato neppure tramite una legge di revisione costituzionale, essendo posto a garanzia dei diritti e delle libertà dei cittadini che toccano la sfera della coscienza – prime fra tutte, la libertà di culto (art. 19) e quella di associazione religiosa (art. 20) – e del pluralismo culturale e religioso, che rappresenta uno dei cardini del sistema delineato dalla Carta.
Un principio che, correttamente interpretato e puntualmente attuato, indica la strada verso la costruzione di una società aperta, libera e plurale, che – nonostante le difficoltà e le tensioni dei tempi in cui viviamo – consideri la diversità tra gli esseri umani un valore e non un pericolo.
Marco Giampieretti, ricercatore all’Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Diritto pubblico, internazionale e comunitario
Pubblicato martedì 3 Ottobre 2017
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