La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si apre con queste solenni parole:
“Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti uguali ed inalienabili costituisce il fondamento della libertà, della pace e della giustizia nel mondo”.
Già nell’incipit del preambolo sono affermate due verità antropologiche: che esiste una sola famiglia umana e che i membri di questa famiglia hanno tutti pari dignità e godono di diritti uguali ed inalienabili.
I principi fondamentali della Costituzione italiana si collocano perfettamente all’interno di questa temperie spirituale e riflettono la stessa concezione nella quale il diritto incorpora la giustizia e l’ordinamento giuridico non può essere più scisso da una tavola di valori universali che costituiscono l’approdo a cui è pervenuta l’umanità uscendo dalla notte della Seconda guerra mondiale.
Le ragioni del principio di eguaglianza
La Corte costituzionale con la sentenza n. 1146/1988, ha ribadito che la Costituzione italiana contiene alcuni princìpi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale, neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i princìpi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quali la forma repubblicana [art. 139], quanto i princìpi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione.
Non v’è dubbio che fra questi principi supremi e immodificabili rientri il principio di eguaglianza.
Se il punto di partenza è la dignità inerente a ogni membro della famiglia umana, ogni uomo è un valore, è chiaro che questo valore non può essere discriminato e non possono esistere gerarchie fra le persone nel godimento dei diritti. Per questo, recita l’art. 3 della Costituzione, «tutti i cittadini hanno pari dignità sociali e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
L’eguaglianza nei diritti e nei doveri, con la conseguente eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, è una delle fondamenta dell’intero edificio costituzionale e costituisce un postulato essenziale per vagliare le legittimità delle leggi e l’operato dei Governi. Uno dei corollari dell’eguaglianza (formale) è il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, affermato dall’art. 112, che, pertanto, non può essere abbandonato senza realizzare un vulnus al valore (supremo) dell’eguaglianza.
Tuttavia il principio dell’eguaglianza formale (che è qualcosa di profondamente differente dalle pari opportunità) non costituisce un ostacolo per apprezzare il valore delle differenze e per promuovere processi di emancipazione sociale.
È fondamentale, a questo riguardo, il secondo comma dell’art. 3, che impone alla Repubblica di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». È interessante notare che quel «di fatto» che richiama la concretezza della vita, ce lo fece mettere, nell’art. 3, una giovane donna, Teresa Mattei, che veniva dalla Resistenza e conosceva il carico di bisogni e di speranze che tutti in quel tempo affidavano alla Repubblica, alla Costituzione, alla democrazia e alla politica.
In tema di eguaglianza, la Costituzione è andata oltre la concezione liberale dell’eguaglianza formale dei soggetti che partecipano al contratto sociale. Assieme alla concezione statica (e formale) dell’eguaglianza, è stata assunta una concezione dinamica, che nasce da una polemica rappresentazione della realtà economico-sociale in atto. La Costituzione quindi non si limita ad affermare dei princìpi fondamentali ma pone anche un progetto per svilupparli e realizzarli nella concretezza della realtà economico-sociale. Indica un percorso verso un modello di democrazia inclusivo ed emancipatorio, con la consapevolezza di porre una sfida permanente all’economia, alla politica e alle istituzioni.
A ben guardare si tratta di un principio “rivoluzionario” sul piano del diritto costituzionale. Esso riconosce che le disuguaglianze fra gli uomini non derivano soltanto dal diritto, ma affondano le loro radici soprattutto nei rapporti sociali, nelle condizioni materiali ed economiche. Le disuguaglianze socio-economiche pregiudicano, svuotano e falsificano il diritto allo sviluppo della persona, alla parità davanti alla legge, alla partecipazione democratica che, nonostante le proclamazioni costituzionali, finiscono, di fatto, per diventare da diritti di tutti, appannaggio soltanto di alcuni. Secondo Lelio Basso, il deputato che fu il principale ispiratore di questa norma alla Costituente: «l’art. 3 capoverso dice che l’eguaglianza di cui parla il primo comma dell’articolo, in realtà non esiste; che non c’è nella società, nonostante le affermazioni formali, una uguaglianza reale». Il capoverso dell’articolo 3 è «una norma che dichiara la falsità delle altre norme» costituzionali relative ai diritti personali, sociali e politici, i quali potranno diventare veri solo quando per tutti in concreto ci sarà un’istruzione adeguata, un lavoro non precario, una casa, una adeguata assistenza sanitaria; cioè quelle condizioni che possono assicurare una esistenza libera e dignitosa.
È stato osservato al riguardo che: “la natura rivoluzionaria di questa norma è quindi, in primo luogo, quella di costruire una critica della realtà sociale esistente ed insieme una critica del carattere formale ed astratto del diritto. In secondo luogo il suo significato rivoluzionario sta nel fatto che essa attribuisce al diritto stesso il compito di modificare tale realtà e di superare la propria dimensione puramente formale. In seguito a questa norma l’ordinamento dello Stato può, anzi deve, diventare la sede del mutamento sociale, il mezzo attraverso il quale trasformare gli assetti economici e raggiungere la giustizia nei rapporti sociali. In seguito a questa norma la legge fondamentale della nostra Repubblica riconosce che non basta proclamare un diritto in astratto per tranquillizzare la nostra coscienza democratica, ma è necessario che i poteri pubblici facciano di quel diritto una possibilità concreta ed effettiva; che il diritto non è più una “mera frase”, ma deve essere una realtà vivente. È questa la base di quel che si chiama principio di effettività, in nome del quale i diritti dell’uomo non devono solo essere proclamati, ma, appunto, anche essere realizzati nei fatti” (E. Balducci e P. Onorato, Cittadini del Mondo, Principato, Milano, 1981, p. 294).
La grande novità di questa sfida fu colta in pieno da Piero Calamandrei che, intervenendo in Assemblea, durante la discussione finale, rilevò: «questo progetto di Costituzione non è l’epilogo di una rivoluzione già fatta, ma il preludio, l’introduzione, l’annunzio di una rivoluzione nel senso giuridico e legalitario ancora da fare».
I dolori del principio di eguaglianza
Il principio dell’eguaglianza effettiva da realizzare nella concretezza della realtà economico-sociale è una sorta di “coscienza infelice” della Repubblica, un pungolo che stimola le istituzioni, i partiti e la società civile a mettere sempre in discussione lo status quo. Non v’è dubbio che l’annunzio di una “rivoluzione da fare”, di cui parlava Calamandrei, ha aperto la strada ad un percorso di avveramento dei princìpi di giustizia e nell’ordinamento e nel contesto economico-sociale. Non possiamo ignorare che vi sono delle istituzioni che operano al fine precipuo di promuovere l’eguaglianza, la principale delle quali è la scuola pubblica. La sua funzione fondamentalmente è quella di produrre la cittadinanza, di dare la parola a tutti perché tutti possano divenire sovrani, di rompere il muro delle diseguaglianze dando a ciascuno gli strumenti formativi e culturali, la lingua appunto, per consentire a ciascuno di partecipare, in condizioni di parità, all’organizzazione politica economica e sociale del Paese, così come richiede l’art. 3, II comma, della Costituzione. La scuola pertanto costituisce la principale istituzione della cittadinanza e dell’eguaglianza. Non possiamo negare che nei primi quarant’anni di vita repubblicana, vi è stata una stagione in cui la promessa di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, “limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” ha avuto un percorso di attuazione, superando insidie di vario tipo, soprattutto nella stagione delle grandi riforme degli anni 70 (statuto dei lavoratori, diritto di famiglia, divorzio, aborto, abolizione dei manicomi, introduzione del servizio sanitario nazionale, etc.).
Purtroppo da molto tempo, soprattutto per ragioni di ordine internazionale, questo percorso si è arrestato e si è rovesciato nel suo contrario. Sono a tutti note le condizioni di sofferenza in cui si dibatte il sistema pubblico dell’istruzione, fortemente aggravate dall’ultima riforma che, con linguaggio orwelliano è stata denominata “la buona scuola”. La legge 107/2015 rappresenta il culmine di un processo di decostituzionalizzazione della scuola pubblica, con la conseguenza di affievolire la sua funzione repubblicana di promozione dell’eguaglianza. Ma, ancora più grave è la situazione che emerge dalle statistiche sociali. Il 14 luglio 2016 sono stati diffusi dall’Istat dati impressionanti sulla crescita della povertà nel nostro Paese. Nel 2015 – si legge nel rapporto – «le famiglie residenti in condizione di povertà assoluta (si stima) siano pari a 1 milione e 582 mila e gli individui a 4 milioni e 598 mila». È il numero più alto dal 2005 a oggi. Se consideriamo che il 2015 è un anno di crescita del prodotto interno lordo – bassa, è lo 0.8%, ma è pur sempre crescita – significa che i poveri stanno aumentando anche se il Paese è più ricco. Questo vuol dire che la povertà cresce perché è cresciuta la disuguaglianza.
Ugualmente allarmanti sono i dati che emergono da un rapporto del Censis reso noto l’8 giugno 2016. Sono diventati 11 milioni nel 2016 gli italiani che hanno dovuto rinviare o rinunciare a prestazioni sanitarie nell’ultimo anno a causa di difficoltà economiche, non riuscendo a pagarle di tasca propria. Sono 2 milioni in più rispetto al 2012.
A questo punto sorge spontanea una domanda, dobbiamo cambiare la Costituzione perché falsificata dalla realtà economico-sociale oppure dobbiamo cambiare lo stato delle cose per realizzare il mandato dei padri costituenti?
Domenico Gallo, magistrato
Pubblicato venerdì 17 Febbraio 2017
Stampato il 12/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/articolo-3-leguaglianza-che-oggi-non-ce/