Costituzione della Repubblica, articolo 6: “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”.
La ricca e variegata realtà idiomatica che contraddistingue il nostro Paese più di ogni altro Paese europeo ha stentato e stenta ancora a trovare posto nella consapevolezza che la cultura dominante, la scuola e i mezzi di informazione di massa elaborano e diffondono. Per oltre cinquant’anni, sino cioè all’approvazione della legge n.482/99, la classe politica ha tralasciato di attuare le indicazioni di parità linguistica e di tutela delle minoranze espresse chiaramente negli articoli 3, 6 e 21 della Costituzione.
Quando nel 1991 il Parlamento fece un primo esitante passo con l’approvazione da parte della Camera dei Deputati di un primo testo di tutela – la legge restò poi “ibernata” in Senato per ben otto anni – si sollevò, come scrisse Tullio De Mauro, “il coro agitato di intellettuali legati a un’ottica monolingue e comunque ostili a ogni presa in carico dei problemi linguistici del Paese…”.
Su 20 regioni sono ben 14 le regioni che vedono la presenza nativa di minoranze linguistiche e culturali solidamente radicate nella storia civile e nella realtà sociale e compongono un quadro etnico quanto mai composito e variegato.
Un rapido elenco comprende: in Val d’Aosta: il francoprovenzale della maggioranza dei nativi, il tedesco alemanno dei walser, il francese acquisito attraverso la scolarizzazione; in Piemonte: il provenzale o occitanico, il francoprovenzale, il walser e il sinto dei gruppi zingari; in Lombardia: il sinto dei gruppi zingari; in Alto Adige: il tedesco bavarese dei Mòcheni, il ladino di Fassa e Moena in Provincia di Trento, il tedesco, il ladino di Gardena e Badia e il sinto estrekaria in Provincia di Bolzano; in Veneto: il tedesco bavaro-tirolese del Bellunese (Sappada), i tedescofoni del Vicentino, i cosiddetti cìmbri del Veronese e il ladino del Bellunese; in Friuli-Venezia Giulia: il friulano, il tedesco e lo sloveno della Provincia di Udine, lo sloveno delle Province di Gorizia Trieste; in Abruzzo: l’albanese e lo zingaro rom; nel Molise: l’albanese e il serbo-croato; in Campania: l’albanese; in Puglia: l’albanese, il francoprovenzale e il neogreco; in Basilicata: l’albanese; in Calabria: l’albanese, il neogreco, il francoprovenzale, lo zingaro rom; in Sicilia: l’albanese; in Sardegna: il sardo (logudorese e campidanese) e il catalano (algherese).
Un ricco patrimonio di diversità linguistiche e culturali i cui diritti linguistici la nostra Costituzione riconosce e che, come continuano a raccomandare i documenti delle Nazioni Unite, della Commissione Europea e del Consiglio d’Europa, va tutelato, valorizzato e sviluppato.
È necessario dunque agire sul terreno dell’uguaglianza sostanziale di tutti i cittadini, secondo i principi democratici costituzionali, anche sul piano delle capacità linguistiche, tenendo d’occhio cioè anche le lingue ma soprattutto gli utenti, i concreti individui che le usano e i loro diritti.
Vi sono ragioni di ordine giuridico, politico-culturale, linguistico che li sostengono e che la Costituzione contiene. Ci sono infatti almeno tre articoli “linguistici”: l’art. 3 (comma primo e secondo) che fa della pari dignità della lingua usata dai cittadini e dalle cittadine una parte essenziale dell’eguaglianza sociale e fa della rimozione degli ostacoli che la impediscono (dunque anche gli ostacoli di ordine linguistico) un obiettivo irrinunciabile ai fini dell’effettiva partecipazione di tutti e di tutte all’organizzazione del Paese. L’art. 6, che prevede “apposite norme” che tutelino le comunità che usano lingue di minoranza. L’art. 21, c.1, che stabilisce che la libertà di espressione verbale (e non verbale), non solo in italiano ma in ogni tipo di lingua, è un diritto di tutti e di tutte.
Il dibattito politico e la storia delle ricerche e delle teorie linguistiche che si sono sviluppate in Italia in questi settant’anni, dall’entrata in vigore cioè della Carta Costituzionale (1° gennaio 1948) hanno visto e continuano a palesare una visione che accentua l’omogeneità (il monolinguismo) e che spesso si manifesta nel fastidio con cui vengono da molti accolte le discussioni sui diritti linguistici o sulla pluralità linguistica, culturale, etnica.
La Costituzione della Repubblica avrebbe dovuto portare alla creazione di una società davvero democratica.Tuttavia, scriveva De Mauro in un rapporto inserito nella documentazione per le commissioni parlamentari a supporto della discussione sulle proposte di legge sulle minoranze linguistiche nella VIII Legislatura, “I trent’anni successivi alla Costituzione hanno seguito un corso diverso da quello che gli articoli 3, 6, 21 potevano lasciare sperare. Lo Stato italiano, più che agire nel senso della attiva tutela dei diritti linguistici dei cittadini, se la è lasciata imporre là dove obblighi internazionali la rendevano per così dire ineluttabile. Al modello della attiva snazionalizzazione fascista, dell’italianizzazione forzosa e forzata (magari a volte, secondo lo stile fascistico, solo a chiacchiere), si è sostituito di fatto il modello dell’omologazione capitalistica, debolmente programmata e poco o niente considerata nei suoi effetti”. Sappiamo dai dati ISTAT e dalle prove internazionali (cfr. i test INVALSI, ad esempio) che i livelli di competenza orale e scritta dell’italiano sono ancora ben lontani da quelli necessari per una piena, attiva, democratica partecipazione dei cittadini alla vita sociale, culturale e politica del Paese.
Sino all’approvazione della legge 15 dicembre 1999, n.482, “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”, con l’eccezione del francese (non del patois francoprovenzale nativo) per i valdostani, del tedesco e del ladino delle province autonome di Bolzano e di Trento e dello sloveno per gli sloveni delle province di Gorizia e di Trieste (non di Udine), per tutti gli altri, la Costituzione della Repubblica Italiana è stata trattata dai governi e dalle maggioranze parlamentari come un inutile, retorico pezzo di carta. Al fine di evitare ulteriori discussioni sulla definizione dei soggetti ai quali applicare la nuova normativa, fu fatta la scelta di elencare nominativamente le minoranze linguistiche storiche nell’art. 2 che recita: “In attuazione dell’art.6 della Costituzione e in armonia con i principi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo”.
Un’elencazione che ha cristalizzato però, nella formulazione, una gerarchia tra le lingue che fanno riferimento a uno Stato, spesso impropriamente definite “lingue nazionali”, facendo coincidere Stato e lingua e quelle interne, o lingue dette “senza Stato”.
Una gerarchia che riemerge ogniqualvolta vengono emanati provvedimenti che riguardano le lingue. Si pensi, alla recente legge 107 /15 cosiddetta della “Buona scuola” dove, nella ripartizione dell’organico dell’autonomia, per la minoranza slovena della regione FVG è previsto il potenziamento soltanto per l’insegnamento dello sloveno e non per l’insegnamento del friulano e del tedesco. Nulla si dice per le altre otto minoranze salvo ribadire che “Restano salve le diverse determinazioni che la regione Val d’Aosta e le provincie autonome di Trento e Bolzano hanno adottato e possono adottare in materia di personale docente”.
Altro esempio della stessa discriminazione si è verificato nell’applicazione dell’art.12 della legge 482/99 che riguarda la convenzione tra il Ministero delle Comunicazioni e il conseguente contratto di servizio con la società del servizio pubblico televisivo che dovrebbe assicurare le trasmissioni radio-televisive nelle lingue di minoranza (dai notiziari ai programmi culturali, educativi e di intrattenimento) in tutte le aree interessate. Fatte salve quelle aree ristrette sopra citate, né le regioni a statuto speciale né quelle ordinarie si sono infatti preoccupate di stipulare seri contratti con la società concessionaria per garantire alle altre minoranze un servizio qualificato e variegato in ore di massimo ascolto.
Tutelare la varietà linguistica del Paese significa infatti realizzare una politica linguistica e culturale con il compito primario di garantire, attraverso la scuola, l’università, i mezzi di comunicazione di massa e le istituzioni pubbliche il rispetto per le tradizioni idiomatiche diverse dall’italiano e di contribuire nello stesso tempo allo sviluppo di un’educazione plurilingue e interculturale.
La scuola e le università dello Stato repubblicano che funzionino in senso davvero democratico hanno, infatti, dinanzi a loro il compito primario e unitario – dalla prima infanzia all’educazione degli adulti, alla formazione delle professioni e delle classi dirigenti del Paese – di insegnare, scriveva ancora De Mauro nel rapporto succitato: “il rispetto per le tradizioni diverse dall’italiano e insieme di insegnare a dominare l’italiano e le altre grandi lingue di cultura, di insegnare a muoversi nelle realtà linguistiche locali e insieme di insegnare a muoversi tra i linguaggi scientifici internazionali”.
Se queste istituzioni e la politica linguistica e culturale di cui esse sono portatrici diventeranno una realtà, le sorde resistenze legate alla paura delle lingue diverse dall’italiano si attenueranno e favoriranno quella crescita di una politica linguistica e culturale davvero democratica che la nostra bella Costituzione prefigura.
Silvana Schiavi Fachin, già parlamentare, insegnante, autrice, esperta in lingue
Pubblicato giovedì 15 Giugno 2017
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