Ha suscitato notevole scalpore – che ben presto more solito rientrerà – il tentato suicidio, lunedì 18 gennaio, di una dodicenne pordenonese caduta nella trappola psicologica del cosiddetto bullismo.
È questo un fenomeno di cui i media si occupano abbastanza spesso. Sembra, in parte, caratterizzare questi nostri anni di crisi, non solo economica, ma generale, direi antropologica – ricordando Pasolini, che a modo suo aveva guardato nel fondo –, insieme a un altro, più profondo fenomeno, la violenza contro le donne. Entrambi hanno in comune la violenza contro persone considerate inferiori e più deboli. Ma poi anche divergono, pur se entrambe collegate al maschilismo. Nel caso citato, inoltre, si tratta di una ragazza.
Il fenomeno del bullismo, nel suo aspetto più vistoso e delicato, riguarda soprattutto l’adolescenza, quella fase fondamentale, difficile, delicata appunto, che è il passaggio dall’infanzia all’età adulta. Senza farla lunga, in ogni civiltà l’adolescenza è stata la fase in cui agivano dei rituali, talvolta molto duri e anche crudeli, più o meno espliciti e codificati, che servivano a contenere e sancire questo passaggio. Oggi, come sappiamo tutti, ci troviamo dentro una crisi generale di ciò che potremmo chiamare gli istituti di contenimento e identificazione, di formazione, in senso proprio e generale: quelli che danno forma alla persona adulta, la famiglia in primis, un lavoro e una professione stabile e garantita. Sono in crisi gli assi portanti di una società evoluta di tipo “occidentale”, il welfare, sanità e istruzione: protezione contro il male, la malattia, l’incidente e la trasmissione dei valori e del sapere. La precarietà è divenuta una condizione generale di vita. Le ultime statistiche sulla diseguaglianza sociale in Italia e nel mondo sono impressionanti per l’enorme disparità fra una stretta minoranza che si accaparra la grande maggioranza della ricchezza e la massa dei poco o nullatenenti, senza parlare di coloro che sopravvivono al di sotto del livello di povertà.
In tale vasto e complesso contesto, il fenomeno del bullismo appare come la misera e disperata ricerca da parte dei giovani e giovanissimi di una rudimentale affermazione di sé. È un’ovvietà. Sappiamo bene che ciò che si cela dietro il povero nome di bullismo è sempre esistito nelle situazioni giovanili collettive, essenzialmente maschili, scuola, sport, servizio militare, luoghi di socializzazione: nel caso del servizio militare i meno giovani ricorderanno il cosiddetto “nonnismo”.
Stiamo parlando di un fenomeno antropologico dell’età di passaggio. Oggi ha assunto una nuova specificità.
C’è la crisi irreversibile dell’istituto familiare, legata alla crisi del patriarcato e della figura forte di uomo virile, di maschio, che rimanda inoltre alla crisi del lavoro tradizionale, garantito, che consentiva un reddito sicuro per quanto modesto e una divisione dei compiti fra uomo e donna, anche nei casi, sempre più frequenti fra gli anni 50 e 70, in cui anche la donna lavorava, pur restando obbligata alla cura domestica. La crisi del patriarcato è inoltre dovuta a una maggiore consapevolezza “di genere” delle donne, su cui ha avuto influenza il movimento femminista degli anni 70, che, pur nella successiva perdita d’incidenza sociale, ha lasciato un patrimonio culturale non facilmente reversibile.
Una società per essere vitale deve in primo luogo costruire un immaginario condiviso del proprio futuro. È quello che manca oggi. Com’è noto, la disoccupazione giovanile è altissima nel nostro Paese. Finiti gli studi, sia a livello medio che universitario, il giovane si trova tuffato nell’incertezza lavorativa e sociale e anche, di conseguenza, per quel che riguarda il proprio destino affettivo, come mostra la forte diminuzione delle nascite, l’invecchiamento della società. La famiglia e il lavoro erano le principali forme identitarie nelle nostre società su cui s’innestavano le altre più fluide, come lo sport.
Il bullismo adolescenziale e giovanile, nei luoghi collettivi – la scuola, l’università, i luoghi dello svago o in generale collettivi – riflette, come un turacciolo che galleggia sul mare mosso, questa dinamica sociale, culturale, profonda.
Perciò, intervenire non è facile. Ma non solo nel significato più ovvio per cui ogni trauma individuale è complesso e delicato.
Caso per caso, ci saranno, ovviamente, delle dinamiche specifiche, delle situazioni da ricostruire, degli interventi opportuni. Alcune vicende potranno essere riportate in equilibrio, superando i traumi attraverso una comprensione che porti all’accettazione ed elaborazione del dolore. Parlando con una psicologa dell’infanzia e dell’età evolutiva, mi viene fatto notare un altro aspetto importante: la capacità dell’adolescente di portare alla parola il dolore.
Intendo però riferirmi a un ambito più complesso in cui si colloca anche un’altra problematica: gli odierni mezzi espressivi, diffusissimi soprattutto fra i giovani che ci sono nati dentro, internet, i social network: queste forme di comunicazione i cui effetti sono spesso il contrario della comunicazione.
E rimane la questione di fondo. Nessun caso individuale, per quanto singolarissimo, può prescindere dalla condizione generale, collettiva di una società. E qui il discorso diviene francamente politico, non nel povero significato istituzionale della parola, corrente nei media, ma nel senso più ampio e antico, della pòlis, che ben prima di essere affare dei politici di mestiere, è interesse essenziale dei cittadini.
Gian Andrea Franchi, professore, autore di diversi saggi
Pubblicato martedì 2 Febbraio 2016
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