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Finisce a proiettili di gomma, porte abbattute a colpi d’ascia, scuole sgomberate a calci e spintoni e, naturalmente, manganellate: su sediziosi custodi dei seggi, su elettori di ogni età, su vigili del fuoco catalanisti, qualcuno anche su colleghi in divisa – già, poliziotti che picchiano poliziotti. Il giorno dell’1-0, il referendum sull’indipendenza della Catalogna “senza quorum e vincolante”, si conclude con quasi novecento feriti e oltre 2,2 milioni di voti espressi, per il 90% sì all’indipendenza. Ma sono i primi che rubano la copertina in tutta Europa.

Nel giorno del Gobierno contro il Govern il capo del primo, Mariano Rajoy, conclude che «non c’è stato alcun referendum ma solo una messinscena», il capo del secondo Carles Puigdemont replica che «ci siamo guadagnati il diritto a essere uno stato indipendente». La politica si esaurisce in un brutale esercizio di ordine pubblico e in una gara a chi strilla più forte “fallimento” o “successo”. Torti e ragioni hanno poca cittadinanza. Invece ce ne sono, di torti e di ragioni, e ci sarebbe drammatico bisogno di politica. Ma la Spagna ha interpretato la sua con divieti costituzionali, arresti e minacce di persecuzioni giudiziarie, sequestri di schede e siti web, schieramento di migliaia di poliziotti. E la Catalogna ha forzato ogni giorno di più l’equazione “voto uguale libertà”, solo e soltanto il voto, comunque e da chiunque espresso.

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Quello che oggi sembra un vicolo cieco è stato imboccato moltissimo tempo fa. Il catalanismo ha radici antiche, solide e serie, e non bisogna scomodare la resa alle truppe alleate dei Borboni nel 1714 (che pure conta ancora qualcosa: al minuto 17 e 14 secondi nello stadio del Barcellona ogni domenica partono i cori indipendentisti). Basta citare la lingua catalana combattuta con ferocia da Franco, la storica autonomia rasa al suolo, i dirigenti fucilati dove li trovavano come il presidente del Barcelona Josep Sunyol, messo al muro nella sierra dove fu catturato nel ’36, o il leader di Esquerra republicana Lluis Companys che i francesi di Vichy consegnarono alla Gestapo e questi al caudillo che lo mise subito a morte. Un lungo annichilimento che la morte del Generalissimo sembrò interrompere e la Costituzione del 1978 – votata massicciamente anche in Catalogna – in parte risarcire. Ma dopo decenni quella costituzione ha mostrato la corda. Due svolte hanno fatto precipitare la situazione: la crisi economica del 2008 e la bocciatura dell’Estatut catalano che il Tribunale costituzionale di Spagna ha affondato nel 2010. Un tribunale che è tutto tranne che indipendente dalla maggioranza di governo: su 12 membri, 10 sono nominati dalle Camere e dall’esecutivo. Una sentenza squisitamente politica, quindi, che è riuscita nel miracolo di far saldare la borghesia mercantile catalana (ricca e a volte complice), con il suo nazionalismo egoistico, alla sinistra repubblicana o anti-sistema con il suo indipendentismo solidale. Due nemici naturali si sono ritrovati a spingere nella stessa direzione, e i cortei per la Diada – la festa della comunità catalana, l’11 settembre – sono passati da 10mila persone a un milione. Una tempesta perfetta che ha trovato ad affrontarla Mariano Rajoy e il suo Partido popular, fondato da un delfino di Franco e transitato nella democrazia mantenendo intatta la carica conservatrice.

Francisco Franco con Adolf Hitler (da https://3.bp.blogspot.com/-KWC_ FJ6OGEU/TeLQTBS-wtI/AAAAAAAAOwc/BIeiBIZAfSA/ s1600/Espa%25C3%25B1a%2BFF% 2B33%2BHitler.jpg)

Le altre formazioni politiche nazionali – dal Psoe a Ciudadanos, legalisti, a Podemos cautissimamente pro-voto – hanno osservato il profilo più basso possibile, lasciando al governo la patata bollente. E la sola risposta di Rajoy alla marea indipendentista è stata inviare in Catalogna 14 mandati d’arresto e 10mila poliziotti, imbarcati su navi italiane di Gnv e Moby con giganteschi Titti e Gatto Silvestro serigrafati sulle murate. Poteva finire diversamente?

La Catalogna ha 7,5 milioni di abitanti, il 16% della popolazione di Spagna, oltre al 19% del Pil (come tutto il Portogallo, più della Grecia) e al 25% delle esportazioni del Paese. Ha oltre 600mila imprese, circa 7mila sedi di multinazionali, un tasso di disoccupazione più basso della media spagnola e, da qualche anno, un governo tenuto in piedi dall’estrema sinistra. Dopo i decenni di Convergencia i Uniò, la formazione nazionalista conservatrice che ha a lungo egemonizzato la politica catalana, oggi la Generalitat è retta da Junts pel Sì, una coalizione di partiti di diversa estrazione (Convergenza Democratica e Democratici, di centrodestra, Movimento delle sinistre, di centrosinistra, Esquerra republicana, di sinistra) e i voti decisivi della Cup, la Candidatura d’Unitat popular di sinistra radicale, che ha imposto il nome di Carles Puigdemont al posto dell’ex leader di CiU Artur Mas, erede diretto dello storico leader nazionalista conservatore Jordi Pujol. E se le formazioni nazionaliste battono sul tasto dell’indipendenza fiscale e dell’immensa ricchezza che si offrirebbe a una Catalogna sottratta alla scrematura di Madrid, citando cifre roboanti e irrealistiche, l’impostazione della sinistra è quella di una “fase destituente” che solo la Catalogna sarebbe abbastanza avanzata da poter offrire al Paese. Diritti, lavoro e garanzie solidali sono materia più avvertita in Catalogna che nel resto di Spagna, la riforma della costituzione del ’78 viene rinviata sine die dai governi che si succedono a Madrid, è l’ora di forzare un cambiamento in Catalogna che potrebbe essere esportato in una Spagna federale. Ha i suoi difetti, la Cup, tra i quali quello di definire traditore chiunque non rivendichi subito l’indipendenza. Ma il suo non è l’indipendentismo di chi non paga le tasse, e i suoi dirigenti – come quelli di Esquerra republicana – non hanno milioni di euro nei conti in banca di Andorra, come la famiglia di Jordi Pujol.

Carles Puigdemont, Presidente della Generalità di Catalogna (da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons /thumb/9/99/Retrat_oficial_del_President_ Carles_Puigdemont_%28cropped%29.jpg/1200px-Retrat_oficial_del_President_Carles_Puigdemont_ %28cropped%29.jpg)

I capi indipendentisti hanno giocato a rimpiattino con la Guardia Civil per tutto il giorno, Puigdemont ha depistato gli elicotteri della polizia cambiando auto dentro un tunnel, altri leader come il suo vice Oriol Junqueras e la sindaca di Barcellona Ana Colau (referendaria sì, ma moderata) sono riusciti a votare ma solo in seggi diversi dai loro, questi ultimi prontamente sgomberati dalla polizia che era partita da varie regioni di Spagna tra ben orchestrati sventolii di bandiere nazionali e di grida di incitamento “a por ellos!”,“andiamo a prenderli”, come se partissero per la guerra. Mentre Rajoy e il governo hanno battuto tutto il giorno sul tasto della “legge e solo la legge” – curioso per un partito come il Pp che ha 800 esponenti inquisiti a vario titolo nei tribunali spagnoli – i poliziotti battevano sulle teste degli elettori e i 17mila agenti dei Mossos de Esquadra – la polizia catalana, precettata per l’occasione dal ministero dell’interno – rifiutavano di eseguire sgomberi con la forza. E le televisioni si facevano la guerra a distanza: “Si vota contro la repressione” per la Tv3 catalana, “Sfida alla legge” su TvE spagnola. Tv3 intervistava il nazionalista catalano Artur Mas – tuttora inseguito da una richiesta di risarcimento dello Stato spagnolo per i 5 milioni di euro spesi nel referendum consultivo del 2014 – e TvE replicava con il ministro dell’interno spagnolo Zoido. Tv3 metteva in rete un’abbondanza di testimonianze dai seggi su botte e sgomberi, TvE li ignorava e tra i passanti sulle Ramblas intervistava quelli che non erano andati a votare. E avanti così, tutto il giorno.

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Mercati e finanza, singolarmente, fino al giorno del voto non si sono scomposti. Delle 10 società dell’Ibex35 che sono andate meglio quest’anno, 6 sono catalane. C’è di tutto: Cellnex (torri per cellulari), Colonial (immobiliare, costola del vecchio Banco Hispano Colonial), Grifols (farmaceutica, plasma e derivati del sangue), i giganti bancari Caixa e Sabadell. Le quotazioni hanno sostanzialmente tenuto, nessuno ha invocato il cambio di sede, qualche scossone il giorno dopo sui titoli bancari, i più esposti a una eventuale “Catalexit”.

La sola grande società che è scesa nell’agone è il Futbol Club Barcelona, che nel giorno del referendum ha giocato a porte chiuse un’irreale partita contro il Las Palmas, mentre sul tabellone segnapunti scorreva la scritta “democracia”. Ma più che una multinazionale del calcio il Barça è “l’esercito disarmato della Catalogna”, definizione di Manuel Vazquez Montalban, probabilmente il catalano più noto al mondo. E se in Piazza Vazquez Montalban – lui, comunista – oggi c’è la sede dell’esecrato sindacato socialista Ugt, quel barrio del Raval, e quel ristorante Casa Leopoldo che era il suo ufficio, sono un po’ il cuore della Barcellona indipendentista di sinistra. Quella che applaude Gerard Piqué, difensore del Barcelona e della nazionale, fischiatissimo in tutti gli stadi per aver sostenuto il referendum al punto di dichiarare di poter rinunciare alla seleccion. Quella che non placherebbe l’autonomismo neanche per i 4 miliardi di euro che la Spagna ha deciso di iniettare nel Paese Basco.

Il giorno dopo, Madrid comincia a istruire i processi per sedizione e Barcellona annuncia l’indipendenza e chiede la mediazione dell’Unione Europea, tanto prudentemente filogovernativa da non aver mosso un dito, così terrorizzata da altre istanze indipendentiste da passare sotto silenzio le inaudite botte di Catalogna, limitandosi a una flebile dichiarazione del giorno dopo “contro la violenza”. Servirebbe la politica, anche a Bruxelles. Ma non ce n’è molta di più che a Madrid o a Barcellona.

Roberto Zanini, giornalista, già redattore capo de il manifesto