La bandiera a stelle e strisce penzola da una cinquantina d’anni all’entrata dello stesso edificio in HaYarkon Street, a Tel Aviv. Un cubo modernista di quattro piani con vista sul mare, scelta stravagante per un’ambasciata anche secondo gli standard degli anni Sessanta: il palazzo era un disastro logistico, la sua disposizione faceva sudare freddo gli addetti alla sicurezza, quando i diplomatici americani vi sbarcarono scoprirono che sotto di loro c’era un parcheggio pubblico e giusto a destra dell’ingresso un distributore di benzina. Lo trovarono comodo: l’incubo securitario sarebbe arrivato decenni più tardi. Cercarono un’altra sede, considerarono un complesso alberghiero a nord della città, ma ogni tanto arrivava la voce che l’ambasciata si sarebbe presto trasferita a Gerusalemme e allora perché affannarsi per cambiare casa a Tel Aviv? Si lanciarono all’annessione del parcheggio, fecero sparire il distributore – stare seduti su una cisterna di benzina in una delle zone più calde del mondo non sembrava esattamente una buona idea – e tirarono avanti.
Nelle mani di Donald Trump, oggi quella precaria ambasciata è diventata la miccia che può incendiare la Palestina una volta ancora. Ciò che il presidente degli Stati Uniti ha dichiarato il 6 dicembre è che riconosce Gerusalemme come capitale di Israele e incarica il Dipartimento di Stato di arruolare architetti e costruttori per edificare nella Città Santa la nuova sede diplomatica americana, che sarà “un magnifico contributo alla pace”. Ciò che ha liquidato è la soluzione “due popoli-due Stati” con gli Usa mediatori, cioè gli ultimi trent’anni – almeno – di estenuanti sforzi diplomatici.
Dai Paesi arabi all’Unione Europea passando per la Russia, potenze e coalizioni hanno siglato proteste sdegnate, anche se senza strappi decisivi. E in una rara seduta d’emergenza dell’assemblea generale dell’Onu, la posizione degli Stati Uniti è stata seppellita da un voto 128-9. Abbastanza per parlare di vulnus all’egemonia americana? L’ira scomposta di Washington prima e dopo il voto all’Onu direbbe di sì. I precedenti direbbero invece di no (l’embargo a Cuba, per dire, è sopravvissuto oltre mezzo secolo a decine di voti anche più pesanti di questo). Sul campo, cioè il conflitto israelo-palestinese, per ora prevale la prudenza: quando Ariel Sharon fece la famosa passeggiata sulla Spianata delle Moschee si scatenò la seconda intifada, ora che Trump passeggia sul diritto internazionale, i conseguenti “giorni dell’ira” sono trascorsi con il consueto e agghiacciante (agghiacciante perché consueto) carico di morti e feriti.
Proclamata capitale del neonato stato israeliano nel 1950, occupata e mai più restituita dalle truppe di Moshe Dayan durante la Guerra dei sei giorni nel 1967, per la legge di Israele Gerusalemme è diventata capitale solo nel 1980, quando la Knesset approvò l’apposita norma – che l’Onu respinse come “null and void”, esattamente le stesse parole usate oggi per l’annuncio di Trump. E nel 1995 il Congresso americano approvò il Jerusalem Act che sanciva il trasferimento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Fu Rabin a dire a Bill Clinton che non era il caso di dare corpo a quella decisione. E da allora, ogni sei mesi, tutti i presidenti americani hanno disciplinatamente votato il rinvio del trasloco diplomatico. Per 22 anni, due volte l’anno, nell’assurdo edificio di HaYarkon Street si facevano le valigie alla sera e si disfacevano la mattina. Fino all’arrivo di Donald.
Da Clinton a Obama passando per Bush jr, in campagna elettorale ogni presidente ha promesso di portare l’ambasciata a Gerusalemme, e ogni presidente si è rimangiato la promessa non appena seduto nello Studio Ovale. Senza troppe telecamere, anche Trump ha firmato il suo bravo rinvio, e difficilmente l’ambasciata verrà davvero trasferita entro, diciamo, qualche anno. Ma l’ha fatto un pugno di ore dopo aver lanciato il sasso, dando mandato di arruolare i contractors. Con l’intenzione di trasformare l’ambasciata americana in un luogo-simbolo come il Muro del Pianto per gli ebrei e la moschea di Al Aqsa per i musulmani, una specie di monumento al monoteismo americano il cui credo è stampato su ogni dollaro: “In God we trust”.
Quel sasso,intanto, ha infranto un bel po’ di vetri politici e diplomatici. In casa propria, tanto per cominciare – e proprio la politica interna, quel misero 35% di tasso di approvazione, quell’ossessivo battere sul tasto del “mantenere le promesse”, sarebbe alla base della scelta di terremotare il Medio Oriente. Il segretario di stato Tillerson, il ministro della difesa Mattis e il capo della Cia Mike Pompeo erano contrari, ma le macerie di chi ha contrariato The Donald riempiono i corridoi della Casa Bianca: ne ha licenziati a decine senza battere ciglio. Il vicepresidente Pence e l’ambasciatrice all’Onu Nikki Haley, favorevoli, ne sono diventati gli interpreti più furiosi. L’ambasciatrice Haley ha messo il veto alla reazione del Consiglio di sicurezza, poi si è scatenata contro l’Assemblea generale: “prenderemo i nomi” di chi vota in modo difforme da Washington, ha minacciato. E lo stesso presidente ha investito le Nazioni Unite nel modo più violento e volgare, promettendo di tagliare gli aiuti a chi avesse appoggiato la mozione anti-Trump: “Vi teniamo d’occhio, risparmiereno miliardi”, ha tweettato.
Gli è andata male. Nonostante ricatti e minacce l’assemblea generale ha spazzato via la posizione americana. A favore di Trump e Netanyahu solo i ricattabili Guatemala, Honduras e Togo, e un pugno di piccoli stati del Pacifico – Isole Marshall, Micronesia, Nauru, Palau – che da trent’anni sono vere e proprie colonie americane: il trattato Cofa (Compact of free Association) prevede denaro, difesa e altri benefit in cambio del diritto delle forze armate americane a disporre del paese.
Poche incrinature sono arrivate dall’Europa, dove la “ministra degli esteri” Mogherini ha fatto la voce grossa, e dove la Francia di Macron e la Gran Bretagna di Theresa May hanno manifestato critiche e resistenze, ma tutti tenendosi ben lontani dalla volontà (o dalla possibilità) di sostituirsi agli Usa come mediatori di un vero piano di pace. Ma dai “Paesi dei muri”, le barriere anti-immigrati inventate da Usa e Israele e oggi praticate da governi di ultradestra e sovranisti, sono arrivate le defezioni: l’Ungheria di Viktor Orban ha fatto saltare il testo anti-Trump proposto da Mogherini e all’Onu si è astenuta. Come la Repubblica Ceca del presidente Milos Zeman, notoriamente anti-islamico, che ha definito l’Europa “codarda” che “permette al movimento terrorista pro-palestinese” di dominare la scena. Astenuti anche Croazia, Polonia e Romania, rifugiata nell’assenza al momento nel voto il “paese partner” Ucraina.
Nel voto all’Onu i Paesi arabi hanno fatto muro, ma le notevoli differenze interne impediscono di srotolare del tutto le loro bandiere.
L’Arabia Saudita è concentrata nel suo conflitto contro l’Iran, e con lei i petromonarchi del Golfo: se bisognerà sacrificare i palestinesi per mantenere l’appoggio di Usa e Israele contro Teheran, i palestinesi rischiano molto. Re Salman ha provato a comprarli, offrendo a Abu Mazen una quantità di denaro per accettare una capitale di Palestina a Abu Dis, villaggio nel distretto di Gerusalemme ma fuori dalla città – e trasformando l’Olp in un gestore di profughi. L’Egitto di al Sisi non rischierà il prezioso appoggio di Usa e Israele contro i macellai dell’Isis nel Sinai. La Giordania non ha fatto nemmeno il gesto. Nel mondo musulmano l’ultimo candidato a protettore dei palestinesi è la sinistra Turchia di Erdogan, il quale ha trascinato a Istanbul esponenti di una cinquantina di paesi per una riunione di emergenza dell’Organizzazione per la cooperazione islamica (Oic) e ne ha ottenuto le firme su un documentone in 23 punti che proclama Gerusalemme Est capitale della Palestina. Ma al vertice non hanno partecipato Arabia Saudita, Egitto, Bahrein e Emirati Arabi Uniti (scusa ufficiale: non ci sediamo vicino all’Iran). Mentre Erdogan ha tuonato personalmente contro Israele “Stato terrorista”, annunciato un’ambasciata turca a Gerusalemme Est e preteso i confini di prima della Guerra dei Sei giorni. Ma in Arabia Saudita la tv ufficiale ha oscurato il suo intervento, mandando in onda al suo posto le previsioni del tempo.
Di fronte all’ennesimo assalto i palestinesi arrivano dimenticati da molti, profondamente divisi tra loro, stancati da decenni di conflitti, Ma ci sono.
Anzi, sono tanti: la biologia sembra essere la sola arma rimasta loro, l’eccezionale prolificità il solo modo per non sparire dalla faccia della terra – ed è un altro dato agghiacciante. Nel 1950, dopo la guerra arabo-israeliana e la conseguente Nakba (catastrofe), l’Onu censì i palestinesi in fuga contandone circa 710mila. Oggi i profughi e i loro diretti discendenti sono cinque milioni e 150mila (dati Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, 2015).
Roberto Zanini, giornalista, già redattore capo de il Manifesto
Pubblicato giovedì 21 Dicembre 2017
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