È un lunedì mattina come tanti all’Istituto d’Istruzione Superiore Di Vittorio-Lattanzio di Roma, una realtà scolastica multietnica e molto popolosa, oltre 1.600 studenti ripartiti in tre indirizzi, due tecnici e un Liceo delle Scienze Applicate. Siamo a Roma est, zona Gordiani, un quartiere densamente abitato e vivace.

Come ogni mattina ragazzi incappucciati emergono asserragliati dal sottosuolo, salgono le scale a testa bassa e invadono i marciapiedi di Viale Partenope. Impossibile resistere all’avanzata, i viaggiatori che marciano in senso opposto attendono mansueti che lo sciame passi per proseguire la loro corsa. La fermata metro è proprio qui, a due passi dalla scuola. La metro C fa da pulmino giallo e ogni mattina li traghetta, volenti o nolenti, quasi senza che se ne accorgano. Arrivano da Giardinetti, Villaggio Breda, Tor Bella Monaca. Molti, prima di salire in metro a Pantano, hanno già viaggiato in pullman per quasi un’ora o all’alba sono stati scarrozzati fino alla fermata dai genitori, provenendo da qualche area mal collegata. I più fortunati arrivano da Centocelle, Largo Preneste o Tor Pignattara, si alzano venti minuti prima del suono della campanella e, se niente va storto, puntuali rispondono all’appello.

Oggi è una giornata particolare, si “salta” qualche ora, si parla di Memoria, andrà annunciando trionfante qualcuno, a ragione. In ossequio al Calendario Civile sono stati numerosi i momenti di riflessione promossi in istituto: letture, visioni di film, dibattiti, un collegamento in streaming con Sami Modiano, uno spettacolo al Teatro Quarticciolo, poco distante da scuola e attentissimo a promuovere tematiche importanti come questa.

Per quest’anno siamo all’ultima iniziativa legata alla ricorrenza del 27 gennaio, ogni classe ha avuto la sua. Del resto, nell’anno scolastico in corso non sono mancate e non mancheranno, nelle classi, lezioni da dedicare a temi strettamente correlati a quello della Memoria e, spaziando dalla negazione dei diritti umani all’orrore della guerra, passata e presente. Da qualche mese poi, sistematicamente, commentiamo le immagini delle oscenità perpetrate in Palestina, in Ucraina e in tante situazioni di conflitto dimenticate, oppure ci soffermiamo a ragionare sulle notizie che i ragazzi e le ragazze scovano sfogliando uno dei giornali che, grazie al progetto “Il quotidiano in classe” è a disposizione di ciascuno studente, cosa quanto mai utile, specie per quelle classe quinte che a breve dovranno sostenere la maturità.

Non stupisce che in molte delle loro case non circolino mai quotidiani o riviste, né tantomeno compaiano, tranne qualche eccezione, biblioteche fornite; molti studenti non hanno mai occasione di visitare con le famiglie un museo o di andare a teatro. Dunque la scuola accoglie ben volentieri iniziative storico-culturali come quella che ci aspetta oggi, specie quando vengono elargite gratuitamente, garantendo l’accesso alla Cultura proprio a tutti, nessuno escluso. D’altra parte la scuola pubblica disegnata dalla nostra Costituzione dovrebbe mirare proprio a questo, a coinvolgere tutti.

Oggi è una giornata particolare, dicevamo, perché alcuni studenti e professori di due licei romani, il “Montale” e il “Morgagni”, distanti, anche molto, per ubicazione e per contesto socio-economico e culturale di provenienza degli utenti, ci intratterranno con uno spettacolo teatrale. L’Aula Magna si riempie di circa duecento ragazzi. Dopo i consueti saluti raccomando un doveroso silenzio che dalle file in fondo percepisco improbabile.

I colleghi e le colleghe che hanno messo in piedi lo spettacolo sono iscritti Anpi, come me, e questa condizione che ci accomuna ci fa sentire un po’ tutti “a casa”. Andrea Barbetti, sistemati i fogli sul leggio, spiega brevemente che ha composto il testo lirico in piena pandemia, affiancato nella stesura da Raffaella Lion, collega di lettere anche lei, che si è occupata della parte didascalica. Barbara Pozzi, invece, ha curato le musiche eseguite dal vivo da alcuni studenti del Liceo Morgagni, estremamente professionali malgrado la giovane età.

Al centro nello foto Marina Pierlorenzi, presidente provinciale Anpi Roma

Tanta è stata l’adesione che abbiamo previsto due turni, tutelando il sacro momento della ricreazione. Per un breve saluto ai presenti interviene la presidente dell’Anpi provinciale di Roma, Marina Pierlorenzi e poi è il mio turno per ringraziare gli ospiti e dare il benvenuto da parte del dirigente scolastico, Luigi Maria Ingrosso, assente per impegni istituzionali. Due studenti di V G si siedono al pc intenti a proiettare sullo sfondo le immagini che scorrono e sono fiera della loro disponibilità immediata a collaborare per la buona riuscita dell’evento.

Il titolo dell’opera che va in scena è “Oggi mi sento da tanto”. Primo Levi e il canto di Ulisse: chissà come e perché. Sarà perché di Dante, di Ulisse e del tema del viaggio nel corso degli anni ci siamo cibati ripetutamente, sarà perché prima ancora di entrare nel vivo della narrazione c’è già un raccoglimento tale da poter consentire anche a quelli delle file più lontane di cogliere a pieno quanto verrà proposto, sarà che i quattro musicisti, rispettivamente alla tastiera, percussioni, alla chitarra e al contrabbasso, accompagnati al flauto dalla professoressa, già diffondono nell’aria le melodie che trafiggono il cuore alla prima nota, ma questo connubio Dante-Levi rapisce tutti e impone un silenzio solenne.

Primo Levi e Ulisse, Dante e Jean: un intreccio suggestivo e misterioso dentro il buio del 900. Nel campo di sterminio i versi del poeta fiorentino sulle labbra del chimico Levi che, quando era studente, neppure troppo amava Dante. Ad ascoltarlo, innamorato della lingua italiana, il giovane Jean, di Strasburgo. Chissà come e perché Levi ha scelto proprio il canto di Ulisse per incantare il suo amico Pikolo. Chissà come e perché, proprio l’eroe di Itaca in mezzo al fango e alle ossa di Auschwitz. A volte non esiste vera spiegazione, vale per la letteratura come per l’orrore che solo l’uomo sa arrecare a sé stesso, recita la sinossi dello spettacolo.

“Oggi mi sento da tanto”, spiega Barbetti, è un viaggio lieve e doloroso nel ricordo di deportati che tentano di sopravvivere senza perdere la propria umanità. Un omaggio alla poesia che ha luce nell’uomo di ogni tempo e che neppure i luoghi più terribili ed infernali possono cancellare. L’attenzione è continua, la commozione sui volti è evidente e lusinga i nostri ospiti. I cappucci sono scesi, per rispetto. “I sedili non erano comodi” enuncia una delle slide mentre gli strumenti intonano “Il favoloso mondo di Amelie” la cui dolcezza stride con la drammaticità dei testi.

Come sia stata e sia ancora possibile tanta ferocia, in un mondo capace di altrettanta dolcezza, appare inammissibile. Il ribadire la propria dignità in un luogo che fa di tutto per calpestarla è la frase che, come la precedente, più di altre ha catturato l’attenzione delle mie studentesse e dei miei studenti, invitati in classe, subito dopo lo spettacolo, a esternare a caldo le loro emozioni:

“Ma prof, i sedili anche oggi sono scomodi per tanta gente, per quelli che attraversano il mare coi barconi o che coi piedi sanguinanti percorrono la Rotta Balcanica, per quelli che tentano di sopravvivono sotto le bombe a Gaza!”. “Anche loro, come Primo Levi, provano probabilmente a ribadire la loro dignità in un posto che fa di tutto per calpestarla, provano ad affrontare la loro tragedia a testa alta, in maniera coraggiosa?”. “Pure loro hanno delle poesie da raccontarsi per darsi forza?”. “La poesia ad Auschwitz ha la stessa funzione della musica in quel film che ci ha fatto vedere prof?”. “Come si intitolava? Le ali della libertà? Quando quel carcerato alza il volume con la musica di Mozart e tutti sembrano volare fuori dalle mura del carcere, anche se col corpo restano lì? Significa che la libertà di evadere con il pensiero, di restare umani dentro, non te la può togliere nessuno?”. “È vero prof, è uguale?”. “Sì ragazzi è proprio uguale!”

La mattinata volge al termine, ce ne torniamo a casa con la rinnovata certezza che la Memoria si coltiva meglio insieme, condividendo, che la Memoria è un dono, è la luce della ragione umana che combatte l’oblio e si prende cura del futuro. Guai dunque se fosse solo relegata alle commemorazioni degli orrori del passato, deve necessariamente essere per ognuno di noi anche un peso individuale, grave, tale da imporci ogni giorno azioni coerenti, scelte che devono investire ciascun individuo all’interno della società civile.

La scuola, proprio per la funzione delicata e fondamentale che svolge, è il luogo privilegiato e prezioso per coltivare la Memoria affinché le nuove generazioni maturino il desiderio di lottare per affermare o proteggere gli ideali di libertà, di uguaglianza, di umana solidarietà che ancora oggi vengono calpestati nella disumana indifferenza di molti.

Loredana Gnagnarella, docente IISS Di Vittorio-Lattanzio – Roma, iscritta Anpi Roma, sezione “ Giordano Sangalli”