Un giornalista del quotidiano laburista “Daily Herald” chiese a Giacomo Matteotti, al termine della sua visita segreta a Londra nell’aprile 1924, se non avesse paura di tornare in Italia. La risposta, pubblicata solo dopo la scomparsa del deputato socialista, fu breve e preveggente: “La mia vita è sempre in pericolo. Questo è ciò che voglio che capiate”.
Aveva buone ragioni di pensare al peggio. Sapeva che i suoi movimenti erano sotto osservazione. Gli era stato negato il passaporto proprio per impedirgli di incontrare i rappresentanti di organizzazioni straniere. Cioè quanto aveva appena fatto a Londra. Qualcuno aveva notato l’assenza da Roma? Era stato pedinato?
Meno di due mesi dopo le ricerche per ritrovare il corpo continuavano a Roma e dintorni. Rapito da cinque uomini nel pomeriggio del 10 giugno, appena uscito da casa, la sua morte veniva data per certa con il ritrovamento di tracce di sangue nell’auto usata per il sequestro, rintracciata in un garage due giorni dopo grazie alla segnalazione della targa alla polizia.
La Lancia risultava prestata ai rapitori da Filippo Filippelli, direttore del giornale filofascista “Corriere Italiano”. Arrestati uno alla volta, i cinque criminali avevano molto probabilmente preso accordi di non rivelare dove avevano nascosto il cadavere. La suspense si prestava al messaggio dell’intera operazione: se un famoso deputato come Matteotti, che era trattato come il leader dell’opposizione, poteva essere fatto sparire dalla circolazione, lo stesso poteva succedere a qualunque altro attivista antifascista. I resti di Matteotti furono poi ritrovati il 16 agosto in un bosco a 25 chilometri da Roma.
A cent’anni da quel delitto che cambiò il corso della storia italiana – dalla democrazia alla dittatura – e decine di libri scritti sull’argomento, restano numerosi interrogativi sul preciso movente della decisione di eliminarlo. Almeno due indizi indicano che furono i tentativi di appoggiarsi a Londra per stabilire una piattaforma antifascista all’estero a risultargli fatale.
Il primo indizio si trova nei verbali redatti durante l’incontro con i rappresentanti del Partito laburista e dei sindacati inglesi il 24 aprile, due giorni dopo l’arrivo in Inghilterra. Il secondo è un sarcastico necrologio imbastito poche ore dopo l’assassinio con il titolo “Il sale inglese dell’On. Matteotti” e pubblicato proprio sul “Corriere Italiano” mentre nemmeno sua moglie, Velia, né i suoi amici sapevano che fosse stato rapito.
La domanda è: cosa indusse Matteotti a compiere quel viaggio all’estero, ben sapendo che era precisamente ciò che gli veniva impedito, ovviamente per volere di Mussolini?
Prima di essere privato del passaporto, Matteotti aveva partecipato a riunioni di organizzazioni socialiste internazionali e stabilito contatti con compagni in vari Paesi d’Europa. Sapeva di essere tra i pochi, anzi, forse l’unico deputato socialista sufficientemente ben piazzato per ottenere ascolto all’estero. Parlava sia francese sia inglese. Aveva trascorso del tempo a Oxford e Londra per perfezionare gli studi in giurisprudenza e, come scriveva lui stesso, era un grande ammiratore dell’Inghilterra di William Gladstone e John Bright, due giganti del riformismo liberale britannico.
Le sue speranze di trovare aiuto nel Regno Unito per ostacolare la progressiva svolta autoritaria fascista sicuramente si rafforzarono con l’elezione del primo governo laburista, sotto la guida di Ramsay MacDonald, che aveva espresso una forte simpatia per il Partito socialista italiano.
Non appena il nuovo governo si insediò a Downing Street nel gennaio 1924, Matteotti si affrettò a inviare al segretario internazionale del Partito laburista, William Gillies, e ai rappresentanti dell’Independent Labour Party (ILP) e del Congresso sindacale il suo scritto “Un anno di dominazione fascista”. Era un rapporto senza copertina di 91 pagine in cui aveva elencato, tra l’altro, dati sull’uso sistematico della violenza da parte dei fascisti, inclusi gli attacchi alle sedi di giornali. Una copia fu passata al Foreign Office all’inizio di marzo.
Lo sforzo di Matteotti di farsi sentire in Gran Bretagna fu premiato un paio di settimane dopo, quando la rivista dell’ILP, “The New Leader”, pubblicò un lungo e dettagliato riassunto dell’opuscolo, definendolo “non un semplice catalogo di atrocità, ma una rassegna completa degli atti del Partito Fascista durante l’anno 1923 nei metodi di governo”. L’autore dell’articolo, Charles Roden Buxton, concludeva: “È impossibile resistere al peso delle prove accumulate in questo opuscolo”. Una nota a piè di pagina citava una serie di dichiarazioni di Mussolini in lode della forza, tra cui l’avvertimento di non toccare la milizia fascista, pena una pallottola in testa.
Ma per meglio far valere la sua causa e chiedere aiuto ai laburisti e ai sindacati inglesi, Matteotti sapeva che occorreva un passo in più, un incontro faccia a faccia a Londra con simpatizzanti al più alto livello, anche se l’impresa comportava un grosso rischio. Bisognava far presto. Era chiaro che il governo stava cercando di impedire che critiche al fascismo raggiungessero il Regno Unito. A cavallo con le elezioni del 6 aprile, il professor Guglielmo Salvadori, che aveva scritto un articolo per il “New Statesman” sulla barbarie del fascismo aveva ricevuto minacce al punto da farlo scappare in Svizzera e il corrispondente da Roma del “Daily Herald” era stato buttato giù dal letto ed espulso dal Paese.
C’era una data propizia per incontrarsi in Inghilterra con esponenti socialisti ad alto livello. Il 19 aprile era in calendario la riunione annuale del Comitato per l’Informazione dell’ILP a York con la partecipazione anche del primo ministro MacDonald. Idealmente la presenza di delegati dei sindacati nazionali e internazionali e di funzionari del Partito laburista e dell’Internazionale socialista, come Friedrich Adler e Tom Shaw, forniva a Matteotti un’occasione d’oro per enfatizzare il suo appello.
Solo che la visita doveva rimanere segreta. Per questo gli venne preparata una riunione a Londra per il 24, due giorni dopo il suo arrivo nel Regno Unito.
Esistono due pagine intere di verbali su quell’incontro. Matteotti spiegò i metodi impiegati dai fascisti per porsi al comando. Disse che innanzitutto avevano fatto in modo che non rimanesse alcuna possibilità di funzionamento dei sindacati; quindi i fascisti avevano rivolto la loro attenzione al governo democratico e distrutto anche quello. Fornì molteplici esempi sull’uso della forza da parte della milizia fascista e illustrò le violente misure prese contro la libertà di stampa. Rilevò la necessità di trovare canali per far giungere informazioni verso la Gran Bretagna, magari attraverso la Francia, e chiese esplicitamente l’assistenza morale e materiale.
Come venne spiegato o interpretato il termine “materiale” non è riferito nei verbali della riunione. Ma doveva essere implicito l’appello a misure atte a ostacolare lo scivolamento verso una dittatura. Matteotti ben sapeva che due anni prima i sindacati inglesi erano stati i primi al mondo a mettere in atto una protesta contro il fascismo di grossa risonanza tanto che ne aveva parlato anche il “Times”; nell’agosto del 1922 avevano annunciato il boicottaggio di un piroscafo italiano a Cardiff con equipaggio fascista, e minacciato di respingere equipaggi simili in tutti i porti britannici con potenziali danni al commercio marittimo italiano, fatto che aveva molto allarmato Mussolini su “Il Popolo d’Italia”.
In quell’occasione i sindacati britannici si erano lasciati ingannare, avevano prestato fede a un giuramento del capitano e dell’equipaggio che il fascismo non intendeva causare danni ai sindacati in Italia. Adesso, di fronte all’evidenza di sedi sindacali incendiate e di delegati perseguitati o addirittura uccisi ritenevano giusto prendere in considerazione qualche forma di intervento al di là di semplici parole di solidarietà? Qualche azione calibrata in modo da non coinvolgere direttamente il governo britannico ma di significato “materiale” e di alta risonanza?
Alcuni storici hanno affermato che l’assenza di Matteotti da Roma doveva essere stata notata e che probabilmente era pedinato. Non ci sono prove di questo. Quel che è certo è che dopo la pubblicazione in marzo su “The New Leader” dell’articolo che riprendeva il suo “Un anno di dominazione fascista”, Roma era consapevole che Matteotti aveva trovato con successo il mezzo di farsi sentire in Gran Bretagna. Fra i collaboratori di quella rivista, oltre al Primo ministro, c’erano personaggi del calibro di Bertrand Russell. Chiaramente, l’ambasciata italiana a Londra o altri informatori erano in allerta con il compito di tenere aggiornato Mussolini sulle ultime uscite di Matteotti in Fleet Street.
La prova che il monitoraggio era in atto fornisce la seconda indicazione: fu la prospettiva di avere un Matteotti più ascoltato e rispettato nel mondo anglosassone dello stesso Mussolini a dare una spinta alla decisione di fermarlo con mezzi più decisivi di un “no” al passaporto. Il 7 giugno, “The Statist”, “rivista indipendente di finanza e commercio”, pubblicò una lettera di Matteotti in risposta a un articolo apparso sulla stessa dove si erano glorificate “le conquiste dei fascisti”, dando credito alle cifre fornite dal governo italiano che vantavano il successo della politica economica di Mussolini.
In quella assai lunga lettera Matteotti accusava il governo italiano di aver mentito fornendo dati fasulli. Aveva fatto i calcoli e confutava le cifre punto per punto. Scriveva: “Questi dati che il governo italiano ha pubblicato per dare un’impressione ottimistica… sono insufficienti… e non possono sopravvivere alle critiche (…). Il fascismo può far pensare agli osservatori stranieri che (in Italia, ndr) ci sia uno stato di pace e tranquillità, ma in effetti non ha risolto nessuno dei problemi vitali della nostra vita economica o sociale”. Denunciava espressamente “lo stato di violenza e di inquietudine mentale” che di fatto impedivano lo sviluppo che altrimenti il Paese avrebbe potuto raggiungere.
L’ambasciata italiana a Londra o qualche altra fonte inviò immediatamente la traduzione a Palazzo Chigi. Da lì venne girata al “Corriere Italiano” dove la sera del 10 giugno Dumini si recò per avvisare che l’assassinio era appena avvenuto. In quella stessa sede intorno alla mezzanotte qualcuno decise di usare uno stralcio della lettera di Matteotti per impaginare una sorta di “morte annunciata” in forma di sarcastico necrologio destinato ad essere letto prima che si diffondesse la notizia della sua scomparsa.
Il titolo, sottolineato come di interesse particolare, suggeriva una sostanza estranea: “Il sale inglese dell’On. Matteotti”.
Sale inglese? Uno stralcio della sua lettera a “The Statist” veniva citato come un manifesto inteso ad arruolare i suoi amici inglesi per la battaglia contro il fascismo. Matteotti era identificato come “personificatore dell’antinazione”, un traditore del suo Paese intento a far vivere il progetto di costruire piattaforme antifasciste all’estero.
Ebbene, quel traditore già non esisteva più, il suo cadavere appena sepolto in un bosco.
Niente più contatti con l’estero.
Alfio Bernabei, Anpi Londra
Pubblicato lunedì 3 Giugno 2024
Stampato il 11/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/fu-il-viaggio-clandestino-di-matteotti-a-londra-a-condannarlo-a-morte/