Non sono solo due ponti – anzi, due viadotti – completamente diversi, il Polcevera costruito da Riccardo Morandi e inaugurato il 4 settembre del 1967 dall’allora Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, e il Genova-San Giorgio disegnato da Renzo Piano che, con l’apparizione beneaugurante di un arcobaleno seguito alla pioggia del tardo pomeriggio di lunedì 3 agosto è stato attraversato dall’auto con a bordo il Capo dello Stato Sergio Mattarella, via libera ad una ripresa sospirata e attesa.
Se, infatti, in quel momento si è completata la “ricucitura”, il rammendo, come dice l’architetto Piano, tra le due sponde del torrente Polcevera, alla base di quello che fu il cuore industriale della Genova dell’Otto-Novecento, restituendo una necessaria infrastruttura ai genovesi, ai liguri e a chiunque abbia sofferto in questi due anni gli effetti del crollo del Ponte Morandi, alle 11.36 del 14 agosto 2018, con la morte di 43 innocenti, tutto il resto comincia ora. La ricucitura vera è quella che manca e che non si sa come verrà imbastita: quella che dovrebbe restituire non solo i soldi persi (si è stimata una perdita secca di 2 milioni di euro al giorno per il complesso delle attività economiche, compreso il porto di Genova, almeno nel primo anno) ma l’identità di un pezzo di città e il senso di futuro, di sviluppo che quel crollo si è portato via per sempre.
Perché il Morandi – anche se nessun genovese lo chiamava così, per la maggioranza era solo “Il Ponte dell’autostrada” e per tanti era il “ponte di Brooklyn”, con i suoi stralli e i cavi che hanno ceduto di schianto, sotto un terribile temporale, quella vigilia di Ferragosto – era stato, nella Genova e nell’Italia del 1967, il simbolo della modernità, del Paese che aveva voglia di crescere, di guardare a simboli nuovi: non a caso, nei racconti di tanti dei 600 sfollati dalle case di via Porro, le case dei ferrovieri di fine anni Trenta sopra il quale il ponte era cresciuto quasi appoggiandovisi, quella costruzione immensa era comunque un qualcosa che riempiva di orgoglio il quartiere di Certosa: siamo anche noi come gli americani, insomma, pensavano i bambini guadando la via Flaminia scoperta con Saragat che salutava gli operai.
Al posto di uno di quei palazzi abbattuti insieme a ciò che restava del Morandi, in uno scenario del tutto diverso per il quartiere di Certosa, ora c’è un primo memoriale; un cerchio con 43 piante di essenze diverse, a rappresentare chi lì ha perso la vita. Una presenza delicata, eppure durissima.
Il crollo del Morandi, per il quale si prevede ancora una storia giudiziaria lunghissima e che ha innescato una polemica politica sanguinosa tra le diverse forze e Società Autostrade, alla caccia di un’unica responsabilità che deve in ogni caso essere ancora stabilita, non ha creato solo danni economici, ma anche sociali. Tante delle case di via Porro e alcune di via del Campasso, sono state abbattute, come si è detto; è vero, i proprietari sono stati indennizzati ad un valore superiore a quello che avevano le case stesse prima del crollo, ma il quartiere no. Certosa, e quindi Rivarolo, e ancora, a salire, Bolzaneto e Pontedecimo, i quartieri che costituiscono la vallata fino al confine della città, hanno avuto un danno impossibile da stabilire, anche sotto il profilo umano e sociale: la prolungata chiusura delle strade, il traffico impazzito per mesi e, anche dopo, le enormi difficoltà logistiche di arrivare, dal centro e dai comuni dell’entroterra, hanno colpito al cuore l’intera Valpolcevera.
Aree ex industriali, attesa di nuovi modelli di sviluppo: tutto è crollato, insieme ai piloni finiti nel torrente Polcevera; e anche molti degli indennizzi stanziati, come si è visto recentemente – 422 milioni persi, secondo la stima delle imprese – sembrano essere finiti a destinatari ben lontani dalla zona rossa e anche da quella arancione, le più vicine.
E poi, c’è la gente che se n’è andata, perché ha avuto nuove case altrove, il tessuto commerciale che si è sfaldato, con la pandemia ad aver dato il colpo di grazia a chi pensava, in vista della riapertura del Ponte e della fine dei cantieri, di intravedere una ripresa. Per questo la grande sfida, al di là dei proclami sulla Genova che torna ad essere Superba (la scelta del nome Genova-San Giorgio, riferendosi al simbolo medievale sul gonfalone della città e al grido di guerra dei soldati dell’antica repubblica marinara) è quella di guardare sotto al nuovo viadotto, in basso, lungo il Polcevera e oltre. Dove sì, sorgerà un parco urbano disegnato dall’architetto Stefano Boeri; ma dove, ai due lati, vanno garantite le condizioni per ricreare, d’intesa con i cittadini, una vallata produttiva, dove si viva meglio e non si rischi, una volta spenti i riflettori, una nuova emarginazione.
Pubblicato venerdì 28 Agosto 2020
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