È fatta. Sono finite le prime elezioni della storia assegnate da una televisione. Sabato a mezzogiorno ora di Washington, le cinque del pomeriggio in Italia, la Cnn rompe gli indugi e afferma: “Cnn projection – Biden president elected” – in studio prorompe in lacrime l’attivista nero e anchorman Van Jones, nel Paese si riempiono piazze di festeggiamenti.
I ragionieri elettorali ancora contano e gli avvocati elettorali ancora scalpitano, ma a chi interessa più? L’equilibrio è stato spostato – ma Trump gioca a golf e il fido Rudy Giuliani è costretto a improvvisare una conferenza stampa nel parcheggio, tra un porno-shop e un furgone di gadget trumpisti che è arrivato di volata sperando in grandi affari.
E da due giorni le cancellerie di mezzo mondo spediscono telegrammi di felicitazioni in Delaware, il paradiso degli evasori fiscali (è un po’ il Lussemburgo degli Usa). Il presidente sempre più uscente è ancora là, barricato alla Casa Bianca, racconti sempre più sinistri dicono di figli ed eredi maschi furibondi con chi ha tradito la lotta e si rifiuta di immolarsi nella guerra giudiziaria senza quartiere, e figlie femmine candidate dall’establishment a spiegare a papà che forse è meglio andar via senza perdere proprio tutta la faccia, fare quel concession speech che ha contraddistinto 124 anni e 32 presidenti, e che Trump rifiuta di fare.
Il neo-presidente in pectore Biden resta a casa a Wilmington, formando e riformando governi prossimi venturi e una task force anti-Covid, in attesa che qualche autorità istituzionale più alta della Cnn si decida a dichiararlo presidente. Succederà, ma non oggi.
Quindi cosa è successo davvero negli Stati Uniti? Che tre Stati nemmeno giganteschi, che Trump aveva vinto di un pelo nel 2016, sono stati vinti di un pelo da Joe Biden nel 2020. Sono Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. Buona parte del cosiddetto blue wall che tradì Hillary Clinton quattro anni fa. È tutta qui, la grande vittoria democratica? Riprendersi tre Stati storicamente suoi, persi per poco e ora vinti per un po’ più di poco? Nei numeri, è tutta qui.
E questo parla di una campagna elettorale giocata sul minimo della pena: sorridere sempre, stare il più possibile calmi e zitti, non commettere gravi errori e lasciare che lo tsunami provocato da Donald si abbattesse su Donald medesimo. Non una strategia entusiasmante, certamente non all’altezza delle grandissime manifestazioni che hanno infiammato gli Stati Uniti per quattro anni, e per l’ultimo anno in particolare. È stata una strategia vincente? Sì, quindi onore e merito a chi l’ha scelta. Produrrà un’amministrazione esaltante, in grado di rispondere a quelle piazze? Su questo è più che lecito dubitare.
Per la traiettoria centrista di tutta una vita politica di Joe Biden, e di Kamala Harris (la futura vicepresidente Usa) non dimentichiamo, e per la scontata avidità con cui ogni e qualsiasi gruppo di pressione anti-trumpista andrà a presentare il conto al president elected. Hanno già cominciato i petrolieri, la Camera di commercio americana, il Lincoln Project (cioè i repubblicani anti-trumpisti)… Molti altri seguiranno.
Poi ci sono le cose importantissime e fondamentali che non contano un tubo. Come il voto popolare: 73,8 milioni di voti contro 69,5 milioni di voti, allo stato, differenza 4,5 milioni. È un dato rassicurante, che sia presidente quello che prende più voti – non solo i voti dei Grandi elettori dell’astruso e mai abbastanza deprecato sistema elettorale americano. Quei voti che furono per Al Gore ma vinse Bush jr, che furono per Hillary Clinton ma vinse Trump… È un dato importantissimo, specie per ogni europeo che, per quanto spinto verso il maggioritario dalla cosiddetta governabilità, ha ancora “una testa un voto” come mantra democratico.
Dice di un Paese verticalmente spaccato in due. E la parte che questa volta ha perso è sempre lì, forse senza il paranoico produttore di tweet avvelenati, ma prontissima a rivendicare la sua esistenza. È un dato, importantissimo, il voto popolare, che non conta un tubo.
Altro dato importantissimo che non conta un tubo è il cosiddetto “terzo partito”. Nel 2000 Ralph Nader fu bruciato in effigie sulle pubbliche piazze mediatiche della sinistra di mezzo mondo per aver sottratto a Gore, con la sua sola presenza, il pugno di voti che gli mancava in Florida. Ebbene, nei tre Stati sopra menzionati a Donald Trump sono mancati meno voti di quelli andati al Partito Libertario (che negli Usa è una robaccia di ultradestra) e alla sua candidata Jo Jorgensen. Nessuno brucerà la signora Jorgensen, anzi ci affretteremo a dimenticarla – vale lo stesso ragionamento che valeva per Nader: non è detto che quei voti sarebbero andati al candidato principale – ma fa venire freddo – vero? – pensare che senza quei venti o quarantamila scalmanati oggi potremmo celebrare un funerale invece di una vittoria.
La sinistra. Nelle urne, l’onda democratica c’è effettivamente stata. Milioni di elettori sono usciti di casa come non fecero quattro anni fa per Hillary Clinton – ma almeno quando c’è stata l’onda repubblicana, e i suoi milioni di paladini del diritto alle armi, contro i migranti, contro l’aborto eccetera. Se dobbiamo ringraziare qualcuno della vittoria del democratico centrista Biden, sono gli elettori neri, soprattutto donne, che hanno votato in maggioranze bulgare per Biden, o contro Trump, che è lo stesso ma non del tutto. Molto più dei latinos, e c’è un motivo: 11 milioni di loro non hanno documenti, chi glie li aveva promessi erano Obama e Biden, e stanno ancora aspettando.
Quindi sono i Black Lives Matters che hanno infiammato – non solo metaforicamente – le piazze d’America, sono le Women Marches che hanno fatto lo stesso con più gente e meno fiamme, sono i moltissimi referendum sparsi per gli Usa che hanno stanziato cifre per la scuola pubblica, impedito prelievi per muove carceri e nuova polizia, legalizzato la marijuana, allargato il diritto all’aborto… e infine eletto almeno una ventina di parlamentari della piattaforma socialista vicina a Bernie Sanders. Sono quelli che l’occidente democratico dovrebbe ringraziare… e sono quelli che pagheranno di più. Nella lista di papabili ministri prontamente pubblicata da Politico, di solito alquanto attendibile, ci sono molti voti della corporate America e pochi o nessuno di quella progressista.
Inoltre, sempre in attesa dell’ufficialità dei ragionieri elettorali, c’è ancora una corsa elettorale da concludere, quella per il Senato, in perfetto equilibrio tranne che in Georgia, dove gli uscenti repubblicani David Perdue e Kelly Loeffler dovranno sostenere un ballottaggio il 5 gennaio contro i democratici Jon Ossofs e Raphael Warnock. Se vincono i democratici, Biden avrà presidenza, Camera e Senato – sarà un presidente con le mai libere. Ebbene, il potente Lincoln Project (il già citato gruppo di repubblicani anti-trumpisti) ha già un bersaglio per la Georgia: è Alexandria Ocasio-Cortez, la deputata progressista con più largo seguito, che insiste per spostare a sinistra la politica della Casa Bianca prossima ventura. “I repubblicani dovrebbero ringraziare dio della sua esistenza e della sua stupidità politica”, ha già attaccato il Lincoln Project, spingendo invece per spostare a destra le già tiepide politiche democratiche, altrimenti – dicono – la Georgia è spacciata e sarà colpa di Ocasio-Cortez. Esattamente come hanno già attribuito a Ocasio-Cortez la sconfitta di ogni candidato democratico alla Camera (dove molti centristi hanno perso e quasi tutti i progressisti hanno invece vinto), costringendola a difendersi sul New York Times: “Dirigenti del partito – ha detto – incompetenti e obsolescenti”.
La lotta al trumpismo non è ancora finita. Anzi, forse è appena cominciata.
Pubblicato lunedì 9 Novembre 2020
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