A destra della crosta terrestre
«Il fascismo ritorna? Ma quando mai!». Da diversi mesi sui giornali della destra “moderata” (il Tempo, la Verità, Libero, il Giornale), e non solo su di essi, si è aperta una vera e propria offensiva politica, per accreditare due tesi intrecciate.
La prima di esse afferma che la denuncia del ripetersi delle manifestazioni di neofascismo in tutta la Penisola, come anche in Europa, costituirebbe una sorta di illusione ottica, se non un inganno deliberato. Ragione di ciò sarebbe il fingere l’esistenza di un pericolo che, a conti fatti, non sussisterebbe. La seconda argomentazione sostiene che dietro a questa “finzione” ci sarebbe invece un calcolo politico intenzionale, il cui obiettivo comporterebbe lo spostare il baricentro della discussione pubblica dai problemi più concreti e immediati, quelli “veri”, tanto per intendersi (soprattutto l’immigrazione e la questione della “sicurezza”), ad obiettivi fittizi. In altre parole, il fascismo sarebbe morto da un pezzo e chiunque dovesse mettere in discussione questo assunto – inteso come un vero e proprio principio al quale ritenersi obbligati – sarebbe in deliberata malafede o comunque incapace di leggere la realtà quotidiana. A queste affermazioni, ossessivamente amplificate nella stampa quotidiana, poi arricchite dai continui interventi di certi “opinionisti” nelle reti televisive di un’ampia area politica e culturale che a buon grado può definirsi populista, si ricollega, non casualmente, il ripetersi di contumelie, vituperi e invettive contro ciò che invece viene accostato al “comunismo”.
Si tratta, a conti fatti, di qualsiasi iniziativa o posizione politica, anche di quelle più moderate e sbiadite, che non possa essere immediatamente ricondotta agli interessi di quell’ampio fronte che comprende le componenti di una destra illiberale e intimamente xenofoba. In Italia come in Europa. Nel linguaggio della destra, infatti, il rimando al “comunismo” richiama una sorta di universo di significati legati al presente. Non è alla radice storica di quell’esperienza politica e sociale, la Russia sovietica, che ci si rifà bensì alla denigrazione sistematica, senza appello, degli avversari, ridotti a nemici con i quali non c’è nulla da discutere e ancora meno da spartire. Dare del «comunista» costituisce non solo un’etichettatura delegittimante ma anche un modo per dividere il mondo in due parti, così come si affetta una mela. D’altro canto, se il “comunismo” è il male, allora chi si oppone ad esso sta dalla parte del “bene”, a prescindere dalla concreta verifica delle sue posizioni. Questo modo di raffigurare le cose, non è in sé peraltro indice di un pensare rigorosamente neofascista. Tuttavia, ed è questo un punto fondamentale, si avvale sempre e comunque della radicalizzazione che i movimenti e le organizzazioni come CasaPound o Forza Nuova vanno facendo di alcuni temi sociali e politici, per trarne, di riflesso, un qualche beneficio.
Ripetiamo che si tratta di un fenomeno non solo italiano ma continentale. L’esito delle recenti elezioni austriache lo dimostra, se mai ce ne fosse ancora bisogno. Il “lavoro sporco”, quello che si crogiola nelle nostalgie, nel rimando all’eterna camicia nera, ma anche dell’apologia dello squadrismo e del manganello, poiché ancora impresentabile a una parte dei propri elettori, viene quindi lasciato ai neofascisti dichiarati. I quali, tuttavia, si adoperano per introdurre nel linguaggio di senso comune, nel pensare quotidiano, nella comunicazione spontanea e immediata, parole, pensieri, idee che altrimenti non sorpasserebbero il vaglio della critica ragionevole. Soprattutto, manifesterebbero il loro fondamento intrinsecamente antidemocratico.
Questa sorta di tandem tra illiberali “perbenisti” e «fascisti del terzo millennio» permette quindi di procedere allo sdoganamento, per passi successivi, senza quindi turbare troppo gli animi, di un complesso di elementi che appartengono a pieno titolo al campo ideologico fascista. I quali vengono poi offerti a quella che un tempo si sarebbe chiamata «maggioranza silenziosa» e che oggi si accoda all’invettiva qualunquista e razzista che sta montando in maniera inquietante.
L’occasione più recente, come si è già avuto ripetuto modo di osservare anche su queste pagine, è stata offerta dalla discussione sulla proposta di Legge Fiano, intesa a colpire le manifestazioni apologetiche del fascismo, soprattutto nel web. Un fuoco di fila, a partire da articoli che, dichiarando in apertura l’inesistenza del neofascismo, ascritto solo a pochi e irrilevanti nostalgici, completano i loro ragionamenti tessendo sottilmente le lodi del fascismo medesimo. A corredo di ciò, si manifesta una sempre più enfatica riproposizione di testi della pubblicistica fascista, o quelli di una benevola storiografia nei suoi confronti, a volere sancire che c’è del “vero” di quanto in essi si sostiene. Va aggiunto, per completare la riflessione su questo piano, che il neofascismo non si presenta mai come fenomeno “puro”, cioè come semplice ripetizione del passato. Le forme che assume – infatti – sono ibride, ossia contaminate con i linguaggi, i simbolismi, a volte anche i valori che la politica odierna in generale esprime, sia pure confusamente. Non è peraltro una esclusiva prerogativa del radicalismo di destra di questi anni. Già il fascismo storico, quello che si manifestò dal 1919 fino al 1943, aveva rivelato la sua natura parassitaria, adattandosi alle circostanze dettategli dal calcolo di interesse. Lo faceva letteralmente “rubando” temi, suggestioni, parole d’ordine e di mobilitazione sottratte agli avversari e quindi piegate e utilizzate a proprio beneficio. Confluivano in ciò due moventi: la sostanziale mancanza di un pensiero proprio, così come l’incapacità di elaborarne uno in autonomia; la volontà di creare confusione tra il grande pubblico, rendendo indistinguibile il senso originario delle parole rispetto al loro successivo uso manipolatorio. In tale modo, ad esempio, Mussolini poteva descrivere l’Italia fascista come una «nazione proletaria». Incalzando la folla, dopo avere dismesso la tuba, il tight e la grisaglia ministeriale, nei suoi innumerevoli comizi, al cospetto di folle «oceaniche» e «adoranti», rivestiva i panni del capo delle masse che avrebbero finalmente dato una legnata alle potenze «plutocratiche» e «borghesi».
Per capire perché un modello di mobilitazione degli spiriti e delle menti torni di nuovo a piacere, seducendo come un tempo una parte della società, è allora bene fare mente locale a fatti e parole che ci hanno accompagnato in questi ultimi tre decenni. Lo “sdoganamento”, cioè la progressiva legittimazione pubblica che dagli anni Ottanta è in corso di alcuni aspetti del fascismo, si basa su pochi ma chiari elementi: ridurne l’impatto storico, ossia il ricordo della sua dimensione tragica, relativizzando la catastrofe umana della quale fu responsabile; recuperarne gli aspetti “sociali”, affermando che il regime mussoliniano si preoccupò della collettività e della sua prosperità; assimilare l’opposizione antifascista al sospetto di «totalitarismo», cioè di collusione con il «comunismo»; spostare su quest’ultimo tutto il carico di responsabilità per i lutti, le tragedie e le disgrazie che il Novecento ha consegnato all’umanità. A partire da ciò, da queste poche architravi di un’altrimenti complessa operazione politica, tesa ad anestetizzare la memoria collettiva, prende quota la rilegittimazione degli aspetti più deteriori del passato. Il rinnovarsi di gruppi e movimenti che, a vario titolo, si rifanno all’eredità fascista, corre quindi su un binario parallelo alla campagna mediatica che afferma l’inesistenza o l’irrilevanza del rischio neofascista. Le due cose si compenetrano. Come si presenta il neofascismo dei nostri giorni? Sulla base di quali premesse e sulla scorta di quali affermazioni si costruisce una verginità politica che gli possa permettere di risultare di nuovo credibile a un uditorio più ampio dei soli militanti di sempre? Proviamo a identificare alcuni suoi capisaldi nel linguaggio quotidiano. Chi ricorre ad essi non è necessariamente un aderente all’ideologia fascista ma senz’altro ne sposa diversi motivi di fondo. Se si fa orecchio, quindi, si colgono alcune ricorrenze.
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«Non siamo di destra né di sinistra», così come «la tal cosa non è né di destra né di sinistra». Sembrano affermazioni di senso comune ma, proprio perché tali, vanno intese e comprese con attenzione. Tradizionalmente, il fascismo nega la sua natura di movimento iperconservatore. Ribadisce semmai la sua intenzione di volere fare l’interesse collettivo (la «nazione», il «popolo», adesso la «gente»). Oggi, il più delle volte, simula di posizionarsi oltre la destra stessa. Di sé dice d’essere semmai un movimento «rivoluzionario», che non guarda mai ai propri fianchi bensì al di là dell’orizzonte. Promette ribaltamenti degli assetti sociali e politici, afferma di lottare contro la «conservazione», dice di volere coniugare e garantire l’«ordine» con la prosperità, la «sicurezza» con la tutela del «popolo». Valga il richiamo al fatto che dalla Rivoluzione francese in poi tutti i movimenti reazionari si sono presentati come “restaurazionisti”, ossia come strumenti attraverso i quali ritornare a un ipotetico passato nel quale si sarebbe vissuti comunque bene, felici e contenti. Ma il vero oggetto della restaurazione è quello del comando di una piccola minoranza sulla stragrande maggioranza di soggiogati.
- «I veri fascisti sono gli altri, quelli stessi che strepitano contro il ritorno del fascismo quand’esso, in realtà, è morto e sepolto». Tradotto in parole semplici: gli intolleranti sono coloro che denunciano l’intolleranza. Si tratta di un giochetto logico che ribalta l’accusa nei confronti della controparte. È il ricorso a un paradosso (accettare apparentemente il significato negativo che è attribuito al fascismo, per poi ritorcerlo contro coloro che ne denunciano la persistenza). Questo cliché serve a far credere di essere del tutto esenti da qualsiasi tentazione apologetica per poi dichiarare che, poste tali premesse, le critiche rivolte nei propri confronti non sono per nulla accettabili, e quindi credibili, in quanto espressione dell’altrui intolleranza.
- «Il regime fascista sbagliava però…»: è la frase più diffusa, che fa il paio con affermazioni similari, del tipo: «non sono razzista, ma…». Si tratta di un espediente retorico che serve per rafforzare quanto in genere segue a questa falsa premessa. Falsa poiché è utilizzata esclusivamente per rendere accettabili le parole che a essa si ricollegano. Il «però», così come il «ma», hanno una funzione cautelativa, attenuando l’impatto della seconda parte della frase, che è altrimenti in genere tacciabile di sostenere qualcosa di intollerabile. Ad esempio: «il fascismo sbagliava ma ha anche fatto delle belle cose» (quindi va giudicato a partire dalle seconde); «non sono razzista ma sono gli stranieri ad essere una minaccia» (quindi il mio non è un pregiudizio, semmai sono gli altri a costituire un percolo, anche se l’idea che ho di ciò che sarebbe una minaccia è il prodotto dei miei preconcetti).
- «Siamo emarginati, mal voluti. Ci date addosso solo perché la pensiamo diversamente da voi. Ci bollate come “fascisti” per non permetterci di esprimere le nostre idee». Tutti i fascismi si sono storicamente presentati come vittime di un presunto «pensiero unico», quello di coloro che si oppongono ad essi e alla loro pericolosità. Si tratta, infatti, di una strategia del piagnisteo, ossia l’uso del vittimismo in quanto risorsa politica, disegnandosi come dei perseguitati: poiché sarebbero i detentori di verità tanto più scomode quanto più inenarrabili, lamentano continuamente il discorso dell’esclusione, nel nome di un confronto “equilibrato”, di uno “scambio di idee” e così via. Che puntualmente si trasforma in un parapiglia. Un caso tra tutti è quello di Giampaolo Pansa, un emarginato perennemente ai vertici delle classifiche di vendita. Chi accetta questi presupposti, di fatto offre loro una legittimazione a prescindere da qualsiasi riflessione di merito. Si parla del fascismo, non si dialoga con i neofascisti. Non c’è nulla da dirsi.
- L’ossessione della «contaminazione» è uno dei loro cavalli di battaglia, attraverso i quali cercano di mietere consensi o, comunque, di raccogliere attenzioni e qualche considerazione. Nel linguaggio neofascista esiste un’«identità» (nazionale, etnica, di stirpe, razziale) che sarebbe perennemente minacciata da tutto ciò che etichettano in quanto «straniero». Offrono, come risposte, le frontiere, i muri, soprattutto i ghetti mentali, dentro i quali barricarsi e “proteggersi” dall’«invasione» dei popoli alieni. È rigidamente connaturata all’ideologia fascista la divisione dell’umanità in gruppi (per l’appunto stirpi, “comunità”, etnie, razze), intesi come agglomerati immodificabili di individui che non possono né debbono “confondersi”: il «meticciato» è la peggiore soluzione ai problemi della collettività, vanno sostenendo. Il nesso tra fascismo e razzismo è saldo quanto l’acciaio.
- Un’altra angoscia, che spargono a piene mani, è quella del «complotto». È tale il convincimento per cui molte (o tutte) le vicende umane vadano spiegate non con il confronto e il conflitto dichiarato tra interessi, e gruppi d’interesse, contrapposti ma come il prodotto di forze occulte, contro le quali i movimenti fascisti si incaricano di “lottare”. Nel simbolismo esoterico neofascista il sole (la luce, così come la visione nitida delle cose) viene spesso contrapposto alla luna (l’oscurità o la penombra): nel primo caso esso sarebbe l’indice della “solarità” del fascismo medesimo, che manifesta apertamente i suoi intendimenti, mentre all’ombra della seconda allignerebbero le forze maligne, a tratti diaboliche, che intenderebbero impossessarsi, come delle «piovre», del controllo del mondo. L’immigrazione sarebbe parte di questa gigantesca macchina dell’inganno, il cui obiettivo consisterebbe nel «contaminare la purezza» dei popoli migliori. Il militante neofascista si dipinge non solo come uno strenuo combattente ma anche al pari di un individuo che apparterrebbe a una minoranza consapevole del fatto che è all’opera una cospirazione mondiale, contro la quale si è dato come missione l’obiettivo di contrastarla, naturalmente insieme ai suoi pari.
- «Ci vorrebbe un dittatore, che metta tutti in riga!». Tradotto nelle parole oggi maggiormente ricorrenti: «uno vale uno», ma anche, «esiste una gerarchia naturale». L’esaltazione di una pericolosissima «democrazia diretta», concepita essenzialmente come abolizione dell’intermediazione e delle funzioni di rappresentanza di partiti, sindacati, associazionismo diffuso, fa il paio con l’aristocraticismo dello spirito, quest’ultimo inteso come la sostanziale dannosità del medesimo principio democratico, a favore di un «governo dei migliori». Costoro sono tali poiché animati da un’irraggiungibile superiorità di pensiero e di indole morale, quindi destinati alle funzioni di direzione della collettività. Poste queste premesse, ovvero cancellati gli spazi dell’individualità – ridotta a numero – e stabilito il principio per cui chi comanda non lo fa in base a una delega consensuale bensì in ragione di un’insindacabile (e non verificabile) supremazia, le porte per l’apologia del duce di turno sono immediatamente aperte.
- «Si stava meglio quando si stava peggio» è la frase giustificazionista per eccellenza, in genere accompagnata da: «io non mi occupo di politica, è tutto un immondezzaio». Il fascismo si è sempre alimentato del qualunquismo, la falsa coscienza di chi ritiene che la sua ignoranza delle cose sia una virtù e non un difetto. Poiché per potere funzionare deve sottrarre alla collettività il senso della partecipazione politica, e quindi della cognizione critica, in presenza delle quali – invece – si trova quasi sempre efficacemente contrastato. Il fascismo non è mai un eccesso di politica ma, piuttosto, il suo azzeramento, a favore della delega totale a pochissimi e ristretti gruppi di interesse, rappresentati dalla figura del Capo indiscusso e indiscutibile. Anche per questo non può non essere antidemocratico, se uno dei fondamentali punti della democrazia è dato dalla partecipazione consapevole. Al posto di quest’ultima, offre invece il ritualismo maniacale delle «grandi adunate», dove non ci si esprime se non per acclamazione e subordinazione totale.
- «Vi riempite la bocca parlando di ritorno del fascismo ma voi non avete mai fatto i conti con il comunismo criminale ed assassino». Si tratta di una contrapposizione polemica vecchissima, che ai giorni nostri, tuttavia, trova nuovi riscontri e una rinnovata credibilità nella banalizzazione del giudizio di senso comune. Un classico, al riguardo, è il tentare di azzerare ogni forma di discussione richiamando la drammatica vicenda delle foibe, in quanto offesa all’italianità (dal mussolinismo a suo tempo assimilata alla fascisticità) e come un crimine la cui memoria sarebbe stata volutamente omessa per ingannare gli italiani. A corredo di questa impostazione, ciò che le è sottointeso rimanda all’affermazione per cui i «partigiani sono stati dei delinquenti e dei banditi», non solo perché avrebbero commesso delle «nefandezze» ma in quanto «traditori della patria» (quella fascista) e «servi di un’ideologia assassina» (il comunismo camuffato da antifascismo). Non c’è nulla di nuovo in tali esternazioni, riprendendo integralmente proprio parti rilevanti della stessa ideologia fascista: l’opposizione come un crimine banditesco; l’Italia come nazione ritemprata dal regime mussoliniano; gli antifascisti come traditori e molto altro sono elementi fondamentali non solo del triste Ventennio ma anche dei movimenti che, dopo il 1945, ne hanno recuperato i costrutti pseudopolitici.
- «Il fascismo non può ritornare; le nostre idee, infatti, non sono fasciste», amano dire di sé molti neofascisti. Infatti, parliamo di neofascismo non a caso. Per riaccreditarsi, dopo le tragedie causate nel passato, è sempre necessario fingere di essere qualcosa di un po’ diverso (possibilmente non troppo) da ciò di cui si è comunque i figliocci e i nipotini. Il ceppo è quello, bisogna capire quanto vada irrobustendosi in un’Europa affaticata e ripiegata, dove la vera sfida è dettata dalla crisi delle democrazie sociali. Nella quale, fascismi, populismi, fondamentalismi di ogni genere trovano il loro humus naturale.
Anche da queste note si comprenderà come il radicalismo di destra, che non è riconducibile al solo neofascismo ma ne incorpora in sé molti elementi, motivi ed atteggiamenti, a partire dai peggiori pregiudizi, sia qualcosa che assume una disposizione trasversale. Il ritorno del fascismo non è la ridicola farsa del riproporsi di un regime prima anestetizzato da una congiura di palazzo e poi definitivamente cancellato da seicento giorni di lotta collettiva. Semmai è l’indice dello svuotamento, dal di dentro, delle Costituzioni, della democrazia partecipativa e redistributiva, della dialettica politica e sociale. Quanto a questi ultimi fenomeni abbiano concorso anche forze che fasciste non erano, pensando di potere utilizzare a proprio beneficio la carica eversiva manifestata dai movimenti della destra radicale, già la storia si è incaricata di dircelo. Poiché da solo il fascismo non vince mai, avendo sempre qualche robusto azionista di riferimento, per così dire, che ne sostiene l’operato. Un film già visto, evidentemente.
Claudio Vercelli, storico – Università cattolica del Sacro Cuore
Pubblicato giovedì 26 Ottobre 2017
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