Il tema delle dimissioni del Presidente del Consiglio in caso di vittoria del No non è nuovo. Da ciò la critica a Renzi di aver personalizzato il confronto referendario. Eppure scrive Renzi sul referendum il 16 maggio: “Personalizzare lo scontro” sul referendum costituzionale di ottobre “non è il mio obiettivo, ma quello del fronte del No che, comprensibilmente, sui contenuti si trova un po’ a disagio”.
Ma è lui che il 12 gennaio afferma: “Se perdo il referendum sulla riforma costituzionale smetto di far politica”; il 13 aprile: “Se non passa la riforma costituzionale vado a casa”; il 30 maggio: “Se vince il No vado a casa”; 12 giugno: “Se il referendum non passa, vado a casa”, e poi carica a pallettoni (anzi, a lanciafiamme): “ma se passa il No, l’Italia diventa ingovernabile e in Europa non ci fila più nessuno”.
L’ANPI, che è parte fondamentale dello schieramento del No, è sempre intervenuta nel merito (e nel metodo di costruzione) della riforma costituzionale, come attesta – per esempio – questo periodico, dove da mesi si alternano personalità che analizzano punto per punto i contenuti della riforma stessa.
Ma c’è di più: “Le costituzioni – scrive il costituzionalista Luigi Ferrajoli – sono patti di convivenza. Stabiliscono le pre-condizioni del vivere civile, idonee a garantire tutti, maggioranze e minoranze, e perciò tendenzialmente sorrette da un consenso generale. Servono a unire, e non a dividere, dato che equivalgono a sistemi di limiti e vincoli imposti a qualunque maggioranza, di destra o di sinistra o di centro, a garanzia di tutti”. E continua: “La Costituzione di Renzi è invece una costituzione che divide: una costituzione neppure di maggioranza, ma di minoranza, approvata ed imposta, però, con lo spirito arrogante e intollerante delle maggioranze”.

Anche per questo le forzature continue del Presidente del Consiglio – mi dimetto, si dimette il Governo, si dimette il Parlamento – sono costituzionalmente inaccettabili, perché impongono vincoli e condizioni alla scelta referendaria sulla Costituzione, scelta che per definizione – la Costituzione è la radice dell’intero sistema giuridico e istituzionale – non può che essere svincolata e incondizionata e specialmente sovraordinata rispetto alle posizioni di qualsiasi Governo che, per sua natura, è solo l’inquilino provvisorio di Palazzo Chigi. Non solo: si insiste, nel promuovere la riforma costituzionale, in un atteggiamento divisivo, come se ci fossero due Italie, l’una contro l’altra armata, una delle quali deve soccombere. Così era, in effetti, in occasione del referendum del 1946, quando si scontrarono i monarchici ed i repubblicani. Ma dopo, nel 1948, nacque la Costituzione di tutti, una Costituzione che rappresentava anche quella larga parte del Paese che aveva votato per la monarchia. Occorreva unificare, ricostruire, fare coesione. E la Costituzione fu lo strumento della ritrovata (e ricostruita) unità nazionale. Dentro l’unità ci fu, certo, la divisione politica: pochi mesi dopo la promulgazione della Costituzione ci fu il 18 aprile. Ma la divisione politica non metteva in discussione l’unità costituzionale.
Questa visione, questa comprensione d’orizzonte sembra mancare al Presidente del Consiglio. Ed è un vero peccato, perché proprio oggi, davanti alle sfide terribili a cui l’Italia è chiamata, ci vorrebbe un altro respiro istituzionale, politico, sociale e civile: la più importante eredità dei Padri Costituenti.
Pubblicato mercoledì 6 Luglio 2016
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